di Simone Oggionni
I compagni di Falce e Martello hanno fatto circolare nei giorni scorsi un articolo, molto polemico, il cui contenuto è ben riassunto nel titolo: «Cln con Casini? La conferenza dei Giovani Comunisti deve dire No”.
Qual è l’obiettivo del testo? Provare a capitalizzare il mal di pancia che serpeggia nel partito all’avvicinarsi delle elezioni regionali e a canalizzarlo in un voto al documento che questa componente ha presentato in alternativa al «documento unitario».
Non c’è infatti alcuna attinenza immediata tra il lavoro della nostra organizzazione giovanile (le proposte per la riorganizzazione, le priorità di iniziativa politica) e le scelte di carattere tattico che il partito (ripetiamo: il partito, non l’organizzazione giovanile) è chiamato a compiere in coincidenza della tornata elettorale.
La nostra conferenza nazionale è chiamata a decidere in ordine alla nostra linea politica, alle modalità tramite cui ricostruire una struttura fortemente indebolita. Noi tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo su questo: se vogliamo un’organizzazione settaria o se vogliamo provare a costruire un’organizzazione con basi di massa; se vogliamo un’organizzazione ideologicamente rigida o se vogliamo provare a costruire un intellettuale collettivo in grado di interloquire con i nostri tempi; se vogliamo chiuderci a riccio nella celebrazione di noi stessi o se vogliamo avviare un percorso unitario che ci metta in relazione con migliaia di compagne e di compagni che non sono iscritti al nostro partito.
Quindi, in primo luogo, questa considerazione: il tentativo di spostare i riflettori su di un argomento estraneo al nostro campo di azione e di intervento (nostro come organizzazione, non come singoli iscritti al partito, ovviamente) è quanto di più strumentale si possa congegnare ed è soltanto funzionale a mettere in sordina la discussione reale sulle forme dell’organizzazione, della riorganizzazione e sul contenuto della nostra (dei Gc, non del Prc) linea politica.
Chiarito questo e premesso che parliamo comunque di orizzonti (e non di fatti all’immediato ordine del giorno: la scadenza naturale della legislatura è nel 2013, tra tre anni e mezzo), entriamo nel merito.
Sgomberiamo il campo da un equivoco (in realtà abbastanza offensivo per chi lo subisce): tra noi ci sarebbe chi – a ragione – riconosce il Pd come un partito moderato, corresponsabile delle scelte politiche più nefaste che il nostro Paese ha subito, ininterrottamente, negli ultimi venticinque anni, e chi, o perché «governista» o perché semplicemente un po’ gonzo, considera il Partito democratico un soggetto rivoluzionario.
Tutt’altro. La lettura dei due testi presentati alla conferenza dimostra che il giudizio sul Pd è sostanzialmente condiviso in maniera trasversale. Il secondo documento parla di un «Pd impermeabile alle nostre ragioni e a quelle delle mobilitazioni sociali in corso», il nostro dichiara «smascherato l’impianto riformista che all’opposizione genera aspettative e al governo produce delusione e disincanto» e definisce il nostro progetto come «strutturalmente alternativo all’impianto moderato che ispira l’azione del Pd».
Quando si discute di questi argomenti, bisognerebbe muovere da un fatto di realtà incontestabile, che recepisce in pieno questo nostro sentire comune: il Prc ha dimostrato con intransigenza la propria indisponibilità a stringere alleanze di governo con il centro-sinistra e dunque a sostenere politiche anti-popolari, di qualunque colore e provenienza.
Semmai, vive tra noi una differenziazione rispetto al giudizio che diamo della pericolosità delle destre e della loro carica eversiva. Dal nostro punto di vista il primo problema che c’è in Italia oggi è Berlusconi e il suo governo. L’utilizzo da parte di Silvio Berlusconi del governo del Paese allo scopo di evitare sistematicamente i processi a suo carico. Lo stravolgimento programmatico della Costituzione e l’attacco permanente agli istituti democratici. Il bipolarismo, e cioè un sistema politico e di rappresentanza che costringe i partiti anti-sistemici all’allineamento alle forze meno lontane e dunque impedisce ogni ipotesi di alternativa e di trasformazione della società. Il contenuto materiale e reale delle politiche della destra in tema di lavoro, salari, sanità, istruzione e ricerca, casa, ambiente.
Il nostro partito è disponibile ad un accordo elettorale (non alla partecipazione ad un governo di centro-sinistra) per sconfiggere questa destra, le sue politiche, e per risolvere l’anomalia di un Paese in cui il presidente del Consiglio è un uomo che ha iniziato a fare l’imprenditore grazie ai prestiti della principale banca utilizzata dalla Mafia al Nord per riciclare denaro sporco; che ha iniziato a trasmettere dalle sue tv private, contro il parere della Corte Costituzionale, grazie all’intervento di Bettino Craxi; e che ha iniziato la propria carriera politica dietro mandato della loggia P2 alla quale era iscritto e sdoganando, contro il pericolo «comunista», il Msi allora escluso dall’arco costituzionale.
Mi pare una posizione di semplice buon senso, in sintonia con la manifestazione di popolo del 5 dicembre, e che soltanto un atteggiamento settario e insensibile alla torsione fascistoide che il nostro Paese sta subendo può non capire.
Arriviamo, infine, alle elezioni regionali, ben più prossime a noi rispetto alle elezioni politiche.
La mia opinione è che il partito non abbia molto da inventarsi rispetto alla sua collocazione tradizionale (quella in nome della quale è nato e in nome della quale non ha esitato a produrre, come nel caso della rottura con il governo Prodi nel 1998, eventi ben più traumatici di quelli che, perlopiù soltanto come ipotesi, stiamo discutendo). In questo senso, penso che il Prc dovrebbe dare vita ad alleanze con il centro-sinistra contro il centro-destra soltanto in presenza di un impianto programmatico della coalizione condivisibile oppure in presenza di impegni programmatici limitati ma precisi in virtù dei quali garantire un sostegno esterno limitato alle giunte di centro-sinistra.
Ha senso sostenere di essere d’accordo o contrari in blocco a tutte le alleanze, dall’Emilia-Romagna alla Sicilia, dall’Umbria alla Calabria? Dove finiscono i contenuti in un approccio del genere, così pregiudiziale, così ideologico? Dove finisce la politica, e cioè la discussione concreta sui progetti, le proposte, e la sua messa al servizio del miglioramento delle condizioni di vita delle persone in carne ed ossa? Dove finisce il compito principale di una forza comunista, e cioè – indipendentemente dalle alleanze e dalla collocazione istituzionale – moltiplicare la conflittualità sociale, costruire e sostenere vertenze, aprire campagne di lotta (nei prossimi mesi: dalle battaglie contro il nucleare e la privatizzazione dell’acqua al referendum per l’abrogazione della legge 30)?
Secondo noi semplicemente scompaiono, sommersi da una logica tutta elettoralistica ed istituzionalistica. E lasciando spazio al tifo da stadio. Peccato che ancora una volta l’avversario scelto sia interno (il partito, il gruppo dirigente, la maggioranza dei Gc) e che il campo (la conferenza dei Gc, non il congresso del Prc) sia quello sbagliato.
p.s.: nell’articolo di Falce e Martello si afferma, in conclusione e separata dall’argomento centrale, una inesattezza grossolana. Si sostiene che la maggioranza della commissione nazionale per la conferenza avrebbe imposto nei territori commissioni federali squilibrate, con sei rappresentanti del primo documento e uno del secondo. Parlano le circolari inviate alle federazioni (una di queste si limita a recepire il criterio che ha normato la definizione secondo un principio di pariteticità della commissione nazionale) e, soprattutto, la realtà, che tutti possono conoscere per esperienza diretta.
I compagni di Falce e Martello hanno fatto circolare nei giorni scorsi un articolo, molto polemico, il cui contenuto è ben riassunto nel titolo: «Cln con Casini? La conferenza dei Giovani Comunisti deve dire No”. Qual è l’obiettivo del testo? Provare a capitalizzare il mal di pancia che serpeggia nel partito all’avvicinarsi delle elezioni regionali e a canalizzarlo in un voto al documento che questa componente ha presentato in alternativa al «documento unitario». Non c’è infatti alcuna attinenza immediata tra il lavoro della nostra organizzazione giovanile (le proposte per la riorganizzazione, le priorità di iniziativa politica) e le scelte di carattere tattico che il partito (ripetiamo: il partito, non l’organizzazione giovanile) è chiamato a compiere in coincidenza della tornata elettorale. La nostra conferenza nazionale è chiamata a decidere in ordine alla nostra linea politica, alle modalità tramite cui ricostruire una struttura fortemente indebolita. Noi tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo su questo: se vogliamo un’organizzazione settaria o se vogliamo provare a costruire un’organizzazione con basi di massa; se vogliamo un’organizzazione ideologicamente rigida o se vogliamo provare a costruire un intellettuale collettivo in grado di interloquire con i nostri tempi; se vogliamo chiuderci a riccio nella celebrazione di noi stessi o se vogliamo avviare un percorso unitario che ci metta in relazione con migliaia di compagne e di compagni che non sono iscritti al nostro partito.Quindi, in primo luogo, questa considerazione: il tentativo di spostare i riflettori su di un argomento estraneo al nostro campo di azione e di intervento (nostro come organizzazione, non come singoli iscritti al partito, ovviamente) è quanto di più strumentale si possa congegnare ed è soltanto funzionale a mettere in sordina la discussione reale sulle forme dell’organizzazione, della riorganizzazione e sul contenuto della nostra (dei Gc, non del Prc) linea politica.Chiarito questo e premesso che parliamo comunque di orizzonti (e non di fatti all’immediato ordine del giorno: la scadenza naturale della legislatura è nel 2013, tra tre anni e mezzo), entriamo nel merito.Sgomberiamo il campo da un equivoco (in realtà abbastanza offensivo per chi lo subisce): tra noi ci sarebbe chi – a ragione – riconosce il Pd come un partito moderato, corresponsabile delle scelte politiche più nefaste che il nostro Paese ha subito, ininterrottamente, negli ultimi venticinque anni, e chi, o perché «governista» o perché semplicemente un po’ gonzo, considera il Partito democratico un soggetto rivoluzionario.Tutt’altro. La lettura dei due testi presentati alla conferenza dimostra che il giudizio sul Pd è sostanzialmente condiviso in maniera trasversale. Il secondo documento parla di un «Pd impermeabile alle nostre ragioni e a quelle delle mobilitazioni sociali in corso», il nostro dichiara «smascherato l’impianto riformista che all’opposizione genera aspettative e al governo produce delusione e disincanto» e definisce il nostro progetto come «strutturalmente alternativo all’impianto moderato che ispira l’azione del Pd».Quando si discute di questi argomenti, bisognerebbe muovere da un fatto di realtà incontestabile, che recepisce in pieno questo nostro sentire comune: il Prc ha dimostrato con intransigenza la propria indisponibilità a stringere alleanze di governo con il centro-sinistra e dunque a sostenere politiche anti-popolari, di qualunque colore e provenienza. Semmai, vive tra noi una differenziazione rispetto al giudizio che diamo della pericolosità delle destre e della loro carica eversiva. Dal nostro punto di vista il primo problema che c’è in Italia oggi è Berlusconi e il suo governo. L’utilizzo da parte di Silvio Berlusconi del governo del Paese allo scopo di evitare sistematicamente i processi a suo carico. Lo stravolgimento programmatico della Costituzione e l’attacco permanente agli istituti democratici. Il bipolarismo, e cioè un sistema politico e di rappresentanza che costringe i partiti anti-sistemici all’allineamento alle forze meno lontane e dunque impedisce ogni ipotesi di alternativa e di trasformazione della società. Il contenuto materiale e reale delle politiche della destra in tema di lavoro, salari, sanità, istruzione e ricerca, casa, ambiente. Il nostro partito è disponibile ad un accordo elettorale (non alla partecipazione ad un governo di centro-sinistra) per sconfiggere questa destra, le sue politiche, e per risolvere l’anomalia di un Paese in cui il presidente del Consiglio è un uomo che ha iniziato a fare l’imprenditore grazie ai prestiti della principale banca utilizzata dalla Mafia al Nord per riciclare denaro sporco; che ha iniziato a trasmettere dalle sue tv private, contro il parere della Corte Costituzionale, grazie all’intervento di Bettino Craxi; e che ha iniziato la propria carriera politica dietro mandato della loggia P2 alla quale era iscritto e sdoganando, contro il pericolo «comunista», il Msi allora escluso dall’arco costituzionale. Mi pare una posizione di semplice buon senso, in sintonia con la manifestazione di popolo del 5 dicembre, e che soltanto un atteggiamento settario e insensibile alla torsione fascistoide che il nostro Paese sta subendo può non capire. Arriviamo, infine, alle elezioni regionali, ben più prossime a noi rispetto alle elezioni politiche. La mia opinione è che il partito non abbia molto da inventarsi rispetto alla sua collocazione tradizionale (quella in nome della quale è nato e in nome della quale non ha esitato a produrre, come nel caso della rottura con il governo Prodi nel 1998, eventi ben più traumatici di quelli che, perlopiù soltanto come ipotesi, stiamo discutendo). In questo senso, penso che il Prc dovrebbe dare vita ad alleanze con il centro-sinistra contro il centro-destra soltanto in presenza di un impianto programmatico della coalizione condivisibile oppure in presenza di impegni programmatici limitati ma precisi in virtù dei quali garantire un sostegno esterno limitato alle giunte di centro-sinistra. Ha senso sostenere di essere d’accordo o contrari in blocco a tutte le alleanze, dall’Emilia-Romagna alla Sicilia, dall’Umbria alla Calabria? Dove finiscono i contenuti in un approccio del genere, così pregiudiziale, così ideologico? Dove finisce la politica, e cioè la discussione concreta sui progetti, le proposte, e la sua messa al servizio del miglioramento delle condizioni di vita delle persone in carne ed ossa? Dove finisce il compito principale di una forza comunista, e cioè – indipendentemente dalle alleanze e dalla collocazione istituzionale – moltiplicare la conflittualità sociale, costruire e sostenere vertenze, aprire campagne di lotta (nei prossimi mesi: dalle battaglie contro il nucleare e la privatizzazione dell’acqua al referendum per l’abrogazione della legge 30)?Secondo noi semplicemente scompaiono, sommersi da una logica tutta elettoralistica ed istituzionalistica. E lasciando spazio al tifo da stadio. Peccato che ancora una volta l’avversario scelto sia interno (il partito, il gruppo dirigente, la maggioranza dei Gc) e che il campo (la conferenza dei Gc, non il congresso del Prc) sia quello sbagliato.
p.s.: nell’articolo di Falce e Martello si afferma, in conclusione e separata dall’argomento centrale, una inesattezza grossolana. Si sostiene che la maggioranza della commissione nazionale per la conferenza avrebbe imposto nei territori commissioni federali squilibrate, con sei rappresentanti del primo documento e uno del secondo. Parlano le circolari inviate alle federazioni (una di queste si limita a recepire il criterio che ha normato la definizione secondo un principio di pariteticità della commissione nazionale) e, soprattutto, la realtà, che tutti possono conoscere per esperienza diretta.