di Simone Oggionni Il Social Forum Europeo di Istanbul che si è concluso nei giorni scorsi non è stato un successo. Ha riflettuto, come era nelle previsioni della vigilia, tutte le difficoltà del movimento altermondialista nel nostro Continente. Difficoltà organizzative, di mobilitazione, di efficacia sul piano politico che, in larga misura, rispecchiano anche le difficoltà della sinistra tradizionale.
L’insufficiente partecipazione, l’affiorare di polemiche difficilmente governabili intorno alla questione kurda, la presenza significativa di soggetti e organizzazioni non di massa e poco rappresentativi delle rispettive realtà di movimento nazionali (il cui peso invero diventa non trascurabile in contesti assembleari come quelli dei Fori Sociali) sono elementi che pesano, e non poco, sul giudizio finale. E che non vengono controbilanciati dalla varietà dei seminari e dei work-shop e dalla pure lodevole concretezza dell’assemblea generale conclusiva.
Tuttavia, alcuni elementi consentono di guardare al futuro con l’ottimismo necessario.
In primo luogo il fatto che il Social Forum Europeo vada collocato all’interno del suo contesto naturale: il Social Forum Mondiale, le cui condizioni di salute, al pari delle prospettive (a partire dall’appuntamento di Dakar nel 2011), sono al contrario rosee, in ragione innanzitutto di quell’entusiasmante laboratorio politico che è l’America Latina e che, con solide basi economiche (come dimostra l’Alba), ipotizza qui ed ora un modello di sviluppo e di civiltà alternativo.
La seconda ragione di ottimismo riguarda il ruolo dei sindacati su scala europea. La Confederazione Europea dei Sindacati ha convocato nelle settimane scorse una giornata europea di mobilitazione da svolgersi il prossimo 29 settembre. Il FSE ha recepito e rilanciato questa proposta, che assegna alla risposta sociale alla crisi del capitalismo il ruolo di baricentro dell’iniziativa dei movimenti su scala europea. Una consapevolezza matura (la crisi economica è crisi del sistema; qualsiasi opposizione al neo-liberismo muove dalla rivendicazione di altri rapporti di produzione, o quantomeno di una redistribuzione radicale della ricchezza) che in anni passati non era così forte e che la considerevole presenza dei sindacati (a partire da quelli italiani) ha aiutato a delineare.
Infine, il tentativo – in corso, sebbene parziale – di ricostruire un livello politico di coordinamento e iniziativa delle forze della sinistra. Istanbul da questo punto di vista ha segnato un passo in avanti, almeno sotto due punti di vista. Da un lato per il ruolo giocato anche in questo contesto da alcune delle forze oggettivamente più dinamiche e attive nel campo della sinistra europea (come Die Linke tedesca e il Synaspismos greco). Dall’altro lato Istanbul in virtù del rinnovato impegno – con il significato pratico ma anche simbolico che comporta il riattivarsi di un percorso che parte dalle nuove generazioni – di costruire una rete continentale che unisca tutte le organizzazioni giovanili comuniste e della sinistra d’alternativa facendo cardine sulle proposte che noi abbiamo avanzato: salario sociale europeo, diritto allo studio e opposizione ai processi di privatizzazione dell’educazione pubblica, lotta alle basi Nato e Usa e quindi all’imperialismo.
In tutto questo, dietro l’angolo c’è sempre un nemico, che è la presunzione dell’auto-sufficienza, l’errore di ritenere la propria famiglia (o la propria identità) sempre e comunque a sé bastevoli. Il che è parte preminente dei limiti del movimento su scala europea. Di coloro che, affannati per le proprie difficoltà interne, non hanno più la capacità e il coraggio di guardare oltre i propri confini e di porre la sfida di un «altro mondo possibile» su scala continentale; di coloro che sottovalutano il peso e l’importanza delle organizzazioni dei lavoratori e di coloro che, al contrario, pensano che l’orizzonte si interrompa a quell’altezza, senza la capacità di guardare con altrettanta attenzione, per esempio, alle questioni ambientali; di coloro che, infine, ancora faticano a comprendere l’importanza di allargare il campo delle alleanze internazionali a tutti i soggetti anticapitalistici, indipendentemente dalla loro natura ideologica.
Il rapporto sull’insicurezza alimentare della Fao nell’ottobre dello scorso anno, indicando in un miliardo il totale delle persone sottonutrite, ha gridato al mondo che la fame, il problema più antico dell’umanità, dopo secoli di progresso e decenni di sviluppo accelerato, torna ad essere il problema più impellente.
A fianco di esso, per i Paesi capitalistici, c’è una crisi economica di proporzioni inedite e una questione ambientale ormai inaggirabile per le stesse sorti del pianeta.
Come ci ha insegnato il vertice di Cochabamba (convocato da Morales, Chavez, Ortega e Correa dopo il fallimento di Copenaghen), la strada è soltanto una: mettere in discussione il modello di sviluppo e il modo di produzione, unendo desarrollo (che la tradizione del movimento operaio europeo ci insegna non potere essere appannaggio del solo capitalismo) e ambientalismo.
Profondissimi sono i problemi che attanagliano l’umanità, radicali devono essere le soluzioni. Affinarle, capire come praticarle (attraverso quale tattica e quali alleanze) e costruire consenso di massa intorno ad esse è il nostro compito, a tutti i livelli.
SIMONE OGGIONNI
da Liberazione del 23 Luglio 2010