La giornata del 14 dicembre la ricorderemo a lungo. Non solo perché in mattinata il governo ha incassato la fiducia in entrambi i rami del Parlamento, riuscendo a concludere in tempo utile trattative più o meno lecite che hanno consentito a Berlusconi, per ora, di portare a casa la pelle. E non solo perché, quindi, si è aperta nel Paese una fase politica completamente nuova, i cui esiti sono ad oggi del tutto incerti: potremmo essere alla vigilia di un colpo di coda del regime, di una fase di transizione guidata dal centro-destra oppure ancora – ed è forse questa l’ipotesi più probabile – all’alba di un capovolgimento repentino in cui i vincitori di oggi (Berlusconi e Lega) potrebbero risultare gli sconfitti di domani, logorati irreversibilmente da un’agonia durata mesi.
Il motivo per cui ricorderemo a lungo il 14 dicembre è però anche un altro: perché mai come con gli imponenti cortei di martedì è risultato chiaro a tutti che un’intera generazione ha ripreso in mano il proprio destino.
Come nelle settimane scorse in Francia, in Grecia e in Inghilterra anche nel nostro Paese si pone con molta nettezza il tema della rivolta della generazione precaria, figlia dell’insofferenza di massa nei confronti di un capitalismo disumano e in crisi. Centinaia di migliaia di studenti e di precari, a Roma e in tantissime altre città d’Italia, hanno preso con la forza quello che era stato sottratto loro da una politica totalmente scissa dalle loro vite, dai loro bisogni, dai loro desideri.
Mentre in Parlamento andava in scena il teatrino umiliante della compravendita e delle risse, con una ritualità ormai stanca seppure con punte di aberrazione inedite e parossistiche, nelle piazze un popolo imponente di giovani, studenti e lavoratori ha ricollocato appunto al centro del discorso pubblico l’esigenza di un sapere democratico e libero dal profitto, di un lavoro dignitoso e per tutti, di una società giusta e autogovernata.
Per questo – per l’universalità del loro messaggio, per il significato pienamente politico della loro lotta – quelle centinaia di migliaia di studenti hanno ripreso in mano, insieme al proprio destino, il destino del Paese.
E noi siamo tra loro, come lo siamo stati a Roma. Fianco a fianco. Attoniti quando la polizia ha deciso di caricare a freddo migliaia di ragazzi; reattivi quando l’unica possibilità che ci è stata concessa è stata quella di difenderci; solidali e compatti quando la repressione inusitata delle forze dell’ordine ha lasciato sul terreno oltre cento feriti, cinquanta fermati e retate a tappeto in tutta la città.
Ora si tratta di individuare, dentro questo movimento, la giusta direzione, per evitare di disperderne la forza, di arenarci in derive inconcludenti, e ancora di più per evitare che prevalga nell’immaginario collettivo e nel senso comune un’immagine sbagliata del movimento, più somigliante alle istantanee di qualche dissennato gesto isolato che alla realtà della lotta di questi mesi. Una realtà – come hanno ricordato in queste ore moltissime voci dal movimento, dalla Fiom alla Rete della Conoscenza – fatta di occupazioni, di autogestioni, di scioperi, di assemblee, di cortei, di conflitto anche aspro ma sempre coerente, nelle pratiche, con gli obiettivi condivisi.
Quale direzione politica, quindi?
Prima di tutto: convincere chi nel sindacato ancora non è convinto, a maggior ragione dopo il voto di martedì che consegna a Berlusconi un equilibrio più che precario e alla sinistra sociale uno spazio di consenso e di manovra enorme, a convocare lo sciopero generale. È una necessità non più rinviabile, perché risponde contemporaneamente al bisogno di consolidare – in un conflitto sociale crescente e dirompente – l’unità tra gli studenti e i lavoratori e al bisogno di premere, con ancora più forza, sulla politica per rovesciare la maggioranza di governo.
In secondo luogo, infine: tenere unito il movimento su di una piattaforma di alternativa di classe, con obiettivi radicali e una capacità egemonica che passi dalla costruzione di vaste alleanze sociali e da pratiche di lotta democratiche e comprensibili a livello di massa. Non è una chimera e non siamo grilli parlanti che, dall’esterno, additano e giudicano. Siamo una componente importante di questo movimento e di questa generazione che vuole e deve dare un contributo per trasformare questa rivolta in un progetto organico di trasformazione della società. Come hanno detto i cortei di martedì, la parola “rivoluzione” può tornare ad avere cittadinanza nel nostro Paese. Il compagno Monicelli ne sarebbe orgoglioso.
SIMONE OGGIONNI
portavoce nazionale Giovani Comuniste/i
da Liberazione del 16 Dicembre 2010