Mi ha colpito molto pochi giorni fa una lettera pubblicata dal manifesto con cui un ragazzo di diciott’anni, Pier Paolo, confessava la propria difficoltà a definirsi comunista. Per lui quel termine sta diventando sempre più un peso, quasi che – scrive – sia un reato. E chiede, Pier Paolo, con una genuinità e una modestia davvero disarmanti, se essere comunisti al giorno d’oggi sia davvero così grave come dicono e se sia, come sente dire in giro, una inutile illusione.
Quella lettera penso rappresenti in maniera perfetta le preoccupazioni di moltissimi ragazzi che si stanno affacciando al mondo attraverso le piazze, le piccole e grandi lotte, le piccole e grandi manifestazioni e che vivono come una contraddizione il confronto tra questa loro quotidianità e un termine, “comunista”, che allude in una misura quasi mitica ad una serie infinita di significati politici, storici, ideologici, sociali.
Nei confronti di questo termine noi opponiamo spesso un senso di colpa fortissimo, che ci porta ad operare sistematicamente una vera e propria censura nei confronti dei nostri stessi sentimenti.
Troppe sconfitte e soprattutto troppi racconti della nostra sconfitta propagandati dal pensiero unico contro di noi ci hanno inculcato un senso di colpa che ci porta a dover perennemente giustificare quello che siamo e quello che siamo stati al punto da indebolire in maniera drammatica la nostra identità.
Ma non è sufficiente contrapporre a questo l’orgoglio, pur motivato, di essere comunisti ed elencare, come in parte ha fatto lo stesso Valentino Parlato nella sua risposta sul manifesto, tutte le conquiste e le battaglie che hanno visto i comunisti dalla parte giusta, dei più deboli e contro le ingiustizie.
L’orgoglio della nostra identità non è più sufficiente, perché i fatti (e le parole che li raccontano) per essere dirompenti e rivoluzionari devono essere innanzitutto evocativi. E io temo che il comunismo rischi di non esserlo più, al contrario di come invece lo è stato nel secolo scorso (quando, per motivi diversi e a tappe diverse, ha rappresentato sempre e in maniera precisa qualcosa di importante: la rivoluzione russa, la lotta al nazifascismo, la liberazione dal colonialismo, tanta parte delle conquiste del movimento operaio, studentesco e delle donne degli anni ’60 e ’70).
Oggi quel termine in sé rischia di non di non richiamare più immediatamente un sogno, un’idea e dei valori precisi.
Qui si collocano i nostri grandi limiti e le nostre grandi potenzialità. Per rimanere alla lettera di Pier Paolo, dare una risposta sull’attualità del comunismo significa innanzitutto dimostrare quanto oggi il comunismo, in questo nostro Paese e in tutto il mondo, in questa precisa fase storica, possa essere un punto di riferimento vivo per le lotte di milioni e milioni di persone.
Ma per essere credibili, dobbiamo essere noi i primi a non concepire il comunismo, i nostri simboli e le nostre bandiere, come un feticcio e come il residuo di un passato imbalsamato nella sua tragica grandezza. Al contrario, dobbiamo essere noi i primi a concepirlo come la materia viva sulla quale ricostruire un linguaggio, un immaginario e, appunto, un sogno collettivo.
Questa impresa non può essere affrontata soltanto in Italia: peccheremmo di provincialismo e presunzione se lo pensassimo. Oggi rifondare un pensiero e una pratica comunista adeguati ai tempi e soprattutto alle lotte di chi non si arrende al sistema capitalistico (proprio quando il sistema capitalistico mette in evidenza tutta la sua drammatica incapacità di risolvere le crisi che esso stesso sesso genera) è un cimento internazionale. Ed è per questo che sempre più dobbiamo confrontarci e misurarci con le esperienze di lotta, di rivolta e di rivoluzione che esistono al di fuori dei nostri confini nazionali. In un mondo globalizzato come il nostro sarebbe ora di globalizzare non soltanto le cose peggiori (i miti e gli oggetti) del capitalismo ma anche le cose migliori e cioè le pratiche, i valori e i messaggi di liberazione di chi proprio in questi anni sta riprendendo in mano il proprio destino.
Dentro questa impresa internazionale c’è il nostro Paese e una marea di giovani che vanno riconquistati ad un’idea di libertà, di giustizia e di eguaglianza. Ripartendo dai fondamentali: dall’azione concreta che noi dobbiamo fare (se non noi, chi?) contro lo sfruttamento del lavoro e per un salario giusto, dalla lotta contro la guerra e la rapina imperialistica delle risorse e per la pace e l’autodeterminazione dei popoli, dalla lotta per una scuola pubblica, gratuita, di massa e di qualità, dalla lotta per i beni comuni (come l’acqua pubblica), dalla lotta contro le discriminazioni nei confronti dei migranti, dei più deboli, delle donne e di chi vive liberamente la propria sessualità.
Questo è lo sforzo enorme che abbiamo di fronte: fare capire ai tanti giovani che guardano a noi con interesse, curiosità e spesso speranza che essere comunisti, lungi dall’essere la nostalgia anacronistica di un passato perduto, è l’azione concreta – tenace ed entusiasmante – di chi si batte dalla parte giusta.
Per essere credibili (di nuovo), dobbiamo però cambiare innanzitutto noi stessi e il nostro modo di fare politica, segnato da infinite baruffe quotidiane, interne e senza prospettiva, dal perenne commentare le azioni e le dichiarazioni degli altri e che, al fondo, è diventata sempre meno intelligenza e passione al servizio delle lotte e dei bisogni di chi intendiamo rappresentare e sempre più la conservazione della nostra piccola rendita di posizione, sempre più marginale in un Paese che cambia e che non ci riconosce più.
Come si spiegano, altrimenti, le mille correnti, i mille partiti comunisti, le mille faide, le mille invidie, le mille battaglie di potere?
Le modestissime percentuali elettorali, effettive e verosimili (i sondaggi), dovrebbero fare riflettere tutti, a partire dal centro e dal vertice, convincendo tutti dell’urgenza straordinaria e improrogabile del rinnovamento. Mettendoci tutti in discussione e non frenando e non impedendo quell’unica àncora che, nel mare in tempesta che stiamo attraversando, sembra esserci: unire le compagne e i compagni, unire i comunisti, fare avanzare la Federazione della sinistra e unire, senza steccati e nelle lotte e di tutti i giorni, la sinistra italiana. Perché più siamo e più intelligenze abbiamo per uscire dai nostri errori e più siamo e più massa critica abbiamo per imporre al Paese e alla politica altre priorità, il nostro vocabolario, le nostre esigenze.
Penso che anche Pier Paolo possa essere d’accordo e, sapendo di non essere solo, continui con tutto il suo entusiasmo a lottare. Scoprirà, nel farlo, che essere comunisti è tutt’altro che un reato e, soprattutto, può essere tutt’altro che un’inutile illusione. Dipende da noi, dipende anche da Pier Paolo.
SIMONE OGGIONNI
da www.reblab.it
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Un giovane comunista scrive a “il manifesto” (6 marzo 2011)
Sono una ragazzo di 18 anni che legge ormai abitualmente «il manifesto»; vi scrivo perché ho un dubbio che mi affligge. Io sono un comunista, e questo deriva dalla coscienza politica che ha sempre fatto parte della mia famiglia, ma anche dalla coscienza politica che io, informandomi e studiando, mi sono costruito; questo comporta che io mi emoziono nel sentire bandiera rossa e nel vedere una bandiera con falce e martello sventolare. Insomma, sono fiero dei miei ideali. Il dubbio che mi affligge è che però essere comunista per me sta diventando quasi un peso, quasi fosse un reato, e ciò è avvallato anche dal comportamento dei miei genitori i quali mi dicono: «Meglio non farlo sapere in giro» o cose del genere. Vi chiedo: è così grave essere comunisti al giorno d’oggi? E il comunismo è un’illusione inutile come spesso mi sento ripetere? Vi voglio inoltre chiedere di non cancellare mai dalla prima pagina la scritta «quotidiano comunista» poiché ci sono tante persone, tanti anziani che hanno fatto parte della resistenza antifascista, ma soprattutto anche tanti giovani come me che, nel leggere quella scritta, si sentono fieri.
PIER PAOLO ERRERA
Napoli
Caro Pier Paolo, tu hai diciott’anni e io ottanta. Anche per questa differenza d’età la tua lettera mi ha dato grande gioia e fiducia. E aggiungo che la scritta «quotidiano comunista» resterà sulla prima pagina del «manifesto» finché il giornale avrà vita, spero assai lunga. Ma, mia contentezza a parte, la questione del comunismo è assai complessa e non so se ho le capacità di affrontarla.
Ciò detto provo a ragionarci. Certamente il comunismo è stato per grandi masse un’enorme speranza e anche una profonda delusione. Lo stalinismo (e tuttavia io apprezzo molte cose di Stalin) ci ha colpito e poi il crollo del Muro di Berlino (già la sua costruzione era di segno negativo) è stato una micidiale lapidazione.
Rispondere alla tua lettera, ripeto, non è semplice, ma voglio premettere una considerazione rispetto alla storia del «manifesto». Molti anni fa, Cesare Luporini, quando mi capitò di dire che la storia non si fa con i «se», mi redarguì aspramente: la storia – mi disse – si fa avendo sempre presente il «se». Profitto di Luporini e provo a fare – sul caso del «manifesto» – un breve ragionamento con il «se». Se, nel 1969, il forte Pci ci avesse dato ragione nell’ammettere che bisognava rompere con il socialismo reale e con il gruppo dirigente sovietico (con lo stalinismo – diceva Rossanda – bisognava rompere da sinistra), forse il Pci potrebbe essere ancora in campo e si sarebbero salvati molti altri partiti comunisti. Il Pci invece aspettò ben 12 anni e solo nel 1981 Enrico Berlinguer denunciò «l’esaurirsi della forza propulsiva della Rivoluzione d’ottobre». Il seguito è noto: Berlinguer muore, Occhetto fa la Bolognina, poi c’è il Pds e ultimamente il Pd (Partito democratico che un puro non senso: ci può essere oggi in Italia un partito che non si dichiari democratico?).
Ma questa, che ricordo, è storia passata, mentre non è affatto passato il comunismo. Ci sono oggi nel nostro vasto mondo eguaglianza, libertà e fraternità, gli obiettivi che una grande rivoluzione borghese poneva nel lontano 1789? E c’è di più. Oggi, in un mondo globalizzato, dove il battito d’ali di una farfalla a New York può far crollare la muraglia cinese, siamo nella più grande crisi capitalistica della storia. Molto più grave che nel 1929, come molti grandi economisti affermano. Come si può tentare di uscire da questa crisi? La mia risposta – forse testarda – è con il comunismo e non più in un solo paese: siamo in un mondo globalizzato come non mai. Caro Pier Paolo, impegniamoci a essere comunisti.
VALENTINO PARLATO