di Simone Oggionni
Ho pensato molto all’opportunità di scrivere queste righe e al significato che avrebbero potuto avere. Temevo che la rabbia, la frustrazione e l’impotenza prevalessero e partorissero un testo del tutto inadeguato. Lo temo tuttora. Sono quasi convinto di non esserne in grado. Ma è da martedì, dal momento in cui ho saputo dell’uccisione di Stefania Noce, che un grumo di pensieri torvi mi perseguita e mi costringe a scrivere, cercando un senso e una via d’uscita.
Perché Stefania era una compagna, una giovane compagna iscritta per anni al nostro partito e alla nostra organizzazione giovanile. Fino ad un paio d’anni fa era la segretaria del circolo di Licodia Eubea, in provincia di Catania. Faceva parte del movimento studentesco, non si perdeva una manifestazione. E scriveva. Ho ritrovato in rete un suo scritto a proposito di condizione femminile, di femminismo. C’è una frase che mi terrorizza: «Abbiamo denunciato – scrive Stefania – qualsiasi forma di patriarcato, le sue leggi, le sue immagini. Pensavamo di avere finito. Ma non è finita qui».
Stefania ha pagato con la vita l’assenza di una conclusione, l’impossibilità – dentro le coordinate di questo sistema – di una conclusione. E ciò che mi perseguita, mi terrorizza è precisamente quest’assenza di confini a difendere il nostro mondo, che con ingenuità e presunzione ci illudiamo sia incontaminato da tanta ferocia.
Invece dobbiamo imparare con il sangue che non ci sono confini, perché la meschinità e la violenza maschile penetrano ogni forma, ogni legge, ogni immaginario. Al punto che il fatto che vittima dell’ennesimo femminicidio sia una giovane compagna, impegnata quotidianamente nella lotta contro la dittatura maschile, è null’altro che un paradosso cinico di questa società e della sua malattia.
Quale può essere, allora, il nostro compito? Quale, se non trasformare il ribrezzo e la rabbia in un grande impegno collettivo? Questa è la straordinarietà della politica, che può restituire senso e speranza a ciò che è inaridito dalle nefandezze innominabili dell’uomo.
Rimane da capire da che parte iniziare. Forse conviene farlo da due verità poco praticate.
La prima è la convinzione che fino a che non ribalteremo questo sistema capitalista, nel quale sono codificati e santificati il possesso e lo sfruttamento maschili della donna al loro massimo livello, non ci sarà fine per il patriarcato e la sua violenza. E ciò purtroppo fa piazza pulita di tante ricette facili e retoriche, di tanti sterili riformismi, di tante quote rosa e di tante pari opportunità.
La seconda è un monito a chi derubrica il conflitto di genere ad appendice della lotta di classe. Perché la violenza patologica del patriarcato e dei suoi dispositivi, lungi dall’essere appannaggio esclusivo della borghesia e del capitale, è connaturata al nostro essere maschi. Ciò significa che la superficialità, la banalizzazione, l’indifferenza diffuse tra noi al limite dell’incoscienza sono una colpa che non possiamo più permetterci.
La banalità del male è qui, nella nostra vita quotidiana, nei nostri infiniti errori, nel nostro linguaggio, nell’utilizzo del nostro corpo, nelle pretese e nei deliri di onnipotenza, nella categoria di “passione” che meschinamente utilizziamo per giustificare le nostre ossessioni, persino nella violenza, nella mediocrità e nella pornografia che trasuda sovente dalla nostra attività politica.
Non so dove può condurre questa riflessione, che per noi deve essere una presa di coscienza dolorosa ma indifferibile. Forse non spetta a me indicarlo né ipotizzarlo, ma in primo luogo alle donne e alle compagne. Non lasciamo però che tutto ci scivoli addosso e che la nostra vita – privata e pubblica – prosegua come se niente fosse. Come se niente fosse accaduto, anche tra di noi.
Stefania, in quell’articolo che già prima richiamavo, scriveva: «Nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo». Enrico Berlinguer adattò al conflitto di genere la celebre frase di Marx sull’impossibilità per i popoli oppressori di essere liberi, sostenendo che nessun uomo opprimente una donna avrebbe potuto ritenersi libero. Proviamo per una volta ad essere liberi per davvero. Proviamo a farlo insieme. Non lasciamo cadere la bandiera di Stefania, mettiamoci in discussione.
SIMONE OGGIONNI
da www.reblab.it del 2 gennaio 2012