Licenziamenti a mano libera

di Manuele Bonaccorsi

Rendere più facili i licenziamenti e liberalizzare il mercato del lavoro produce crescita economica e favorisce i giovani; anche perché in Italia è quasi impossibile licenziare i vecchi assunti, mentre i nuovi l’articolo 18 non sanno neppure cos’è. Due assiomi ripetuti senza sosta nel dibattito pubblico. Eppure basta solo dare un occhio a leggi e dati per accorgersi che si tratta di falsità colossali.

Milioni di licenziati con l’articolo 18. Licenziare non è impossibile a causa dell’articolo 18. Altrimenti le lavoratrici della Omsa starebbero ancora producendo calze e gli operai della Fiat di Termini Imerese automobili. I metalmeccanici della Innse non sarebbero dovuti salire su una gru per difendere il proprio posto di lavoro. Messo a rischio senz’altro ingiustamente, da un punto di vista morale ed economico, ma in maniera ineccepibile dal punto di vista legale. «Attualmente ci saranno alcune centinaia di migliaia di lavoratori licenziati che erano difesi dall’articolo 18. E milioni sono stati coloro che hanno perso il posto con le ristrutturazioni degli anni Novanta», afferma Carlo Guglielmi, giuslavorista del Forum Diritti-lavoro. L’articolo 18, insomma, non è certo un problema per le imprese che vogliano disfarsi dei propri dipendenti. Lo Statuto dei lavoratori, messo in forse dal governo, semplicemente obbliga le imprese sopra i 15 dipendenti a reintegrare i singoli lavoratori licenziati «senza giusta causa» o «giustificato motivo» (in questo caso si parla di “tutela reale”). Sotto i 15 dipendenti, dinanzi a un licenziamento immotivato, il giudice non può obbligare l’azienda a rimettere in produzione il dipendente, ma può solo ordinare un indennizzo economico. Infatti l’articolo 18 non si applica nella miriade di piccole e piccolissime imprese che costituiscono l’ossatura del sistema produttivo italiano. «Su una platea di oltre 20 milioni di dipendenti meno della metà è protetto dall’articolo 18», spiega Guglielmi. Ma attenzione, l’articolo 18 difende i lavoratori dai licenziamenti individuali. Se i licenziamenti sono collettivi (a partire da cinque dipendenti) lo Statuto dei lavoratori non ha alcun impatto. In questo caso il giudice non può entrare nel merito delle libere scelte dell’azienda. L’unico obbligo è che l’imprenditore si attenga a una precisa procedura (comunicazioni e incontri coi sindacati e il ministero del Lavoro) e che rispetti precisi criteri nell’indicare i dipendenti da mettere fuori dall’azienda (anzianità, carichi familiari). Il datore di lavoro, cioè, nel caso di licenziamenti collettivi non può scegliere chi licenziare. Non può salvare, ad esempio, un amico del caposquadra, e condannare il delegato del sindacato più “fastidioso”.

Giustificato motivo. Il datore di lavoro può scegliere i dipendenti da licenziare solo se essi sono meno di 5. E potrà farlo solo per una «giusta causa» o un «giustificato motivo ». È questo il caso del licenziamento individuale quello difeso nelle medie e grandi aziende dall’articolo 18. Val la pena però comprendere il significato di queste due parolette. La «giusta causa» è il caso del cosiddetto “licenziamento in tronco”: avviene quando il dipendente assume un comportamento particolarmente grave, tale da rendere impossibile il proseguimento del rapporto di lavoro. Un ingegnere che riveli segreti industriali a un concorrente, ad esempio, o un operaio che sia condannato per reati molto gravi. Se invece il lavoratore viola le parti del contratto, ad esempio si assenta in maniera reiterata senza addurre motivazioni o non rispetta gli ordini di servizio, egli può essere licenziato per un giustificato motivo “soggettivo”, ossia per un motivo dipendente da un suo comportamento individuale. L’altro caso di licenziamento individuale è quello di giustificato motivo “oggettivo”. Ossia, spiega il Roccella, uno dei più noti manuali di diritto del lavoro, l’imprenditore deve dimostrare «l’effettività delle ragioni economiche- produttive adottate a fondamento del licenziamento ». Qualora il licenziato ricorra al giudice, l’imprenditore dovrà dimostrare che quel posto di lavoro è soppresso per valide ragioni e che il dipendente non può essere ricollocato altrove. Anche i nemici dell’articolo 18, a partire dal senatore Pd Pietro Ichino, sostengono di voler far salvo il caso di “licenziamento discriminatorio”, dovuto a motivazioni politiche o razziali, rispetto al quale l’obbligo del reintegro vale nelle imprese di tutte le dimensioni. «È una presa in giro, il licenziamento discriminatorio è una foglia di fico», tuona Carlo Guglielmi. «Condanne o giudizi su questo sono rarissimi. Infatti se l’imprenditore vuole licenziare un dipendente perché è comunista o nero o iscritto al sindacato, non lo ammetterà mai. Dirà al giudice che esistono altre valide ragioni, disciplinari o organizzative. Ora, se un lavoratore licenziato ricorre al giudice per l’assenza di una giusta causa l’onere di provare le motivazioni del licenziamento spetta all’azienda. Mentre nel caso del licenziamento discriminatorio a provare la discriminazione deve essere il lavoratore. E questo, a meno che al padroncino non scappi di dire al giudice “qui i negri non li vogliamo” è pressoché impossibile nella realtà». Cancellare l’articolo 18, quindi, vuol dire rendere possibili anche i licenziamenti discriminatori? «Ichino non lo ammetterà mai, ma è così», chiosa Guglielmi. «È una partita reale, non ideologica. La posta è se l’imprenditore è o meno colui che ha l’ultima parola. Se può licenziare il dipendente che si lamenta per l’assenza delle norme sulla salute e la sicurezza o che chiede il rispetto delle mansioni. Senza articolo 18 il sindacato si riduce al recupero crediti, a chiedere un risarcimento economico a chi licenzia ingiustamente».

L’articolo 18 che aiuta i precari.  «È falso che l’articolo 18 non protegge i precari. Vale per tutti, per chi ne è difeso e per coloro che ne sono esclusi», spiega Guglielmi. «Nel caso di un precario assunto con un contratto atipico in maniera irregolare l’avvocato può mandare una lettera all’azienda dicendo: il vostro contratto è irregolare, quindi per noi è a tempo indeterminato. Bene, se non ci fosse l’articolo 18 l’azienda se ne fregherebbe. E risponderebbe così: per noi il contratto è regolare, però, per cautelarci, qui c’è la lettera di licenziamento. E tanti saluti». Insomma, è l’articolo 18 che permette anche al precario di far valere i propri diritti. Vale per il falso contratto a progetto, per i dipendenti obbligati ad aprire una partita Iva, per il titolare di un contratto a tempo determinato rinnovato per anni senza soluzione di continuità. «Chi, come Ichino, dice di voler togliere l’articolo 18 ai padri per far uscire dalla precarietà i figli dice una stupidaggine», dice Gugliemi. Senza articolo 18 siamo tutti precari.

Lo scambio. Eppure proprio di questo si discute: di ridurre o cancellare un diritto, l’articolo 18, che evita gli abusi di potere e non impedisce i licenziamenti economici. Tramite uno scambio: licenziamenti più facili in cambio di meno tipologie di precariato. Sul tema esistono in Parlamento almeno 5 diverse posizioni. Di cui 4 convivono all’interno del Pd. C‘è quella di Pietro Ichino, molto amata dal governo, che prevede l’istituzione del cosiddetto «contratto unico », senza articolo 18 per i nuovi assunti. Attenzione, nuovi assunti, dice il progetto di Ichino. Quindi anche i lavoratori di Termini Imerese, se riassunti in un’altra azienda, non avranno l’articolo 18. Ed è un contratto unico fino a un certo punto, perché resterebbero valide alcune tipologie di lavoro precario (interinale, partite Iva). C’è poi la proposta del senatore ex Cgil Paolo Nerozzi, che istituirebbe un «contratto unico di ingresso» nel quale l’articolo 18 non varrebbe per tre anni. E la proposta dell’ex ministro del lavoro del Pd Cesare Damiano che istituirebbe un«contratto unico di inserimento formativo», anche in questo caso senza articolo 18 per un periodo che va dai sei mesi ai tre anni, secondo quanto deciso nei contratti nazionali. Il vantaggio di queste ultime due proposte è però quello di stabilire limiti più stringenti nell’uso dei contratti a progetto e di quelli a tempo determinato. Infine c’è la proposta ufficiale del Pd, quella del responsabile Economia e lavoro Stefano Fassina, che non prevede modifiche all’articolo 18 e si basa sulla parola d’ordine: «Il lavoro atipico deve costare di più di quello a tempo indeterminato». E poi, la posizione del Pdl, ben espressa da Michele Tiraboschi, tecnico di Maurzio Sacconi, che non vuole ritocchi alla legge 30 e alle sue 46 diverse tipologie di lavoro.

La Cgil non si piega. Meno articolo 18, meno precariato, è lo scambio su cui si tratta. «Non ci convince nessuna di queste proposte, esclusa quella di Fassina, su cui si può ragionare», afferma Claudio Treves, responsabile del dipartimento mercato del lavoro della Cgil. «Il tema dell’articolo 18 non si può e non si deve porre. È una maniera per rovinare il negoziato. L’articolo 18 è un deterrente, serve a scoraggiare licenziamenti indiscriminati. È una norma di civiltà. Per questo, sin dai tre milioni del Circo massimo nel 2002, la Cgil lo difende». I veri problemi sono altri: «Non c’è alcuna relazione tra libertà di licenziamento e crescita economica. La stessa Ocse, che negli anni Novanta fu paladina della teoria secondo la quale minori protezioni sul lavoro equivalgono a maggiore crescita economica, è stata costretta ad ammettere che a sostegno di questa tesi non esiste alcuna evidenza econometrica», spiega Treves. La crisi, per il sindacato, si affronta in un’altra maniera: «La discussione deve partire da un dato di realtà: siamo in una fase recessiva, ci sono 800mila posti di lavoro a rischio. E quindi il problema è universalizzare le tutele e gli ammortizzatori sociali, e sostenere le imprese che assumono a tempo indeterminato», afferma Treves. Sul tema la Cgil ha presentato una proposta: riunificare ed estendere a tutti i settori (oggi vale solo per l’industria) la cassa integrazione. Dare a tutti il diritto di accedere all’indennità di disoccupazione. «E diciamo anche come finanziare questa riforma. Il costo dev’essere assicurativo, cioè a pagare gli ammortizzatori devono essere i contributi. Chiediamo alla finanza pubblica solo una cifra di 5-600milioni di euro, più o meno quanto si spendeva per gli ammortizzatori in deroga prima dello scoppio della crisi. E questo si può fare con una semplificazione dei diversi 37 regimi contributivi che esistono in Italia. Chi pagava meno contributi per il welfare ne pagherà di più, chi ne pagava molti pagherà di meno». In poche parole, aumenterebbe di poco il costo del lavoro nei servizi e nelle piccole imprese (dove oggi esistono meno protezioni), si ridurrebbe di poco nell’industria. Ma tutti, precari e no, dipendenti della Fiat o della fabbrichetta sotto casa, sarebbero protetti. «La trattativa col governo parte con un problema di metodo. Dev’esserci la possibilità di un confronto nel merito delle proposte che miri a un accordo tra tutte le parti», spiega Treves.

Incontri separati. In altre parole: niente incontri separati tra le singole sigle e il governo, questa la strategia della Cgil. Su cui pesa l’incognita della Cisli che in questi anni non ha lesinato colpi bassi alla Cgil. «La Cisl, dopo aver avallato l’impianto di Sacconi, in un periodo di recessione come questo non può che mettere il problema della salvaguardia dell’occupazione al centro delle sue richieste. Spero in una convergenza», afferma Treves. Tra le diverse posizioni del Pd, gli stop del Pdl, le divergenze tra i sindacati, la strada di un accordo che vada bene per tutti, per il governo Monti è molto stretta. E il ritornello «ce lo chiede l’Europa », dopo una manovra durissima e con lo spreed fisso a quota 500, ormai suona stonato.

MANUELE BONACCORSI

da Left, gennaio 2012

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookies necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookies policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookies, consulta la cookies policy. Cliccando sul pulsante "Accetto" acconsenti all’uso dei cookies.