di Simone Oggionni
La settimana del 25 aprile e del 1° maggio è sempre particolare. Condensa ogni anno molte emozioni, obbliga alla fatica della memoria storica e ci richiama ai nostri compiti, a ciò che dobbiamo fare. La Liberazione dal nazifascismo e la festa dei lavoratori. A distanza di pochi giorni incrociamo le due matrici e i due cardini della nostra Costituzione, l’antifascismo e la centralità fondativa del lavoro. Ogni anno io provo a farlo non distrattamente, ma interrogandomi e mettendo alla prova il mio e nostro impegno politico. Per me queste date hanno sempre corrisposto ad una sorta di esame annuale, di bilancio.Quest’anno sono particolarmente preoccupato.
Non soltanto perché il revisionismo e lo sdoganamento culturale e morale del fascismo sono fortissimi. Basti pensare alle parole del Presidente Napolitano, il quale ha sostenuto che il 25 aprile è la festa di tutti e della riconciliazione nazionale, dimenticando che quella data può essere festa nazionale solo perché la parte migliore del Paese per due anni combatté in armi la parte peggiore, la dittatura e il suo alleato nazista.
E neppure, soltanto, perché ovunque in Europa la destra radicale cresce, come dimostra Le Pen in Francia e come tra pochi giorni dimostreranno i fascisti greci, che domenica molto probabilmente torneranno dopo anni ad eleggere deputati al Parlamento.
Sono preoccupato soprattutto perché tutto ciò capita in una fase di crisi economica pesantissima, nella quale le pulsioni autoritarie e reazionarie (a cui l’antipolitica alla Grillo, volontariamente o meno, presta il fianco) sono spesso gravide di conseguenze drammatiche.
Il governo Monti sta facendo politiche da massacro sociale in un contesto in cui il padronato italiano torna a comportarsi come negli anni Cinquanta.
L’attacco all’articolo 18, il pareggio di bilancio in Costituzione (tecnicamente eversivo e socialmente rovinoso), la riforma del mercato del lavoro promossa dal ministro Fornero, l’espulsione della FIOM dalle fabbriche del più grande gruppo industriale italiano, la Fiat: sono tutti tasselli di un dramma di proporzioni del tutto inedite.
Lo sfondo è la disoccupazione giovanile di massa, il precariato infinito, la cassa integrazione quasi finita per centinaia di migliaia di persone, il suicidio visto troppo spesso come l’unica soluzione al proprio fallimento (come se il licenziamento fosse colpa del lavoratore che lo subisce e non di chi lo determina).
Allora tornano alla mente le lezioni della Storia, della nostra Storia. Ne richiamo tre. La prima lezione si chiama coerenza. Noi dobbiamo ritrovare l’orgoglio della nostra diversità di comunisti, nelle pratiche quotidiane come nei programmi elettorali. Di una comunità di donne e uomini per bene che fanno politica non per tornaconto personale ma per il bene della propria gente. Solo così potremo arginare l’antipolitica qualunquista del “siete tutti uguali”. Dobbiamo tornare ad essere diversi, inoltre, perché facciamo quello che diciamo e ci comportiamo come vorremmo che anche gli altri si comportassero. Quando lo abbiamo fatto abbiamo vinto, quando siamo stati incoerenti (come nell’esperienza del governo Prodi) abbiamo perso rovinosamente.
La seconda lezione si chiama radicalità. Non dobbiamo avere paura di avanzare proposte radicali. Di fronte alla crisi, all’impoverimento, alla rovina di milioni di lavoratori, disoccupati e precari dobbiamo osare, senza timore. Scala mobile, salario sociale di 1000 euro, centralità del contratto a tempo indeterminato, abrogazione della legge 30, intervento statale per la programmazione democratica dell’economia, obiettivo della piena occupazione. Tutto questo attraverso un programma di redistribuzione delle risorse dall’alto verso il basso e di prelievo fiscale dalla grande proprietà, dalla grande speculazione, dalla rendita. Non si può curare un male gravissimo con un’aspirina.
La terza, infine, si chiama unità. La cosa più importante. Quando sento alcuni compagni dire che dobbiamo andare da soli, in piazza come agli appuntamenti elettorali, mi sento male. Penso che non abbiamo imparato nulla dalla Storia. La forza dei comunisti e del movimento operaio è sempre stata l’unità. Mai con il cappello in mano, ma con l’orgoglio della nostra identità e della nostra forza organizzata (pur con tutti i nostri limiti, non c’è forza a sinistra più capillare della nostra). E tuttavia sempre unitari, sempre e comunque, nei confronti dei nostri simili, delle altre forze democratiche e della sinistra.
Penso che di questo abbia bisogno il nostro Paese. Di una sinistra plurale, non residuale e di lotta, che faccia conflitto e non testimonianza, e che rappresenti unitariamente milioni di lavoratori e di giovani, di pensionati e di gente onesta. Dentro quella sinistra (una sinistra nuova, con il coraggio di correggere i propri errori e di guardare avanti, superando divisioni che troppo spesso sono solo lo specchio di rancori del passato) dovranno stare i comunisti.
Il 25 aprile e il 1° maggio ci dicono questo. Ci spaventano un po’, perché ci ricordano quanto siamo imperfetti. Ma ci indicano anche una strada.
SIMONE OGGIONNI
2 maggio 2012