di Dmitrij Palagi
Raffigurare il fascismo come male assoluto crea sani anticorpi ma impedisce una corretta analisi di una parte del paese che non è scomparsa con la nascita della Repubblica italiana. Ogni semplificazione comporta imprecisione. Ogni mito, positivo o negativo che sia, si allontana dal reale. Talvolta capita di leggere o ascoltare qualche partigiano o storico che cita il numero ridotto di italiani che si opposero ai governi nati dalla marcia su Roma. Raramente qualcuno ipotizza, per Mussolini, una longevità analoga al regime spagnolo di Franco se l’Italia non si fosse alleata con il Reich nazista.
A ridosso della fine della prima guerra mondiale iniziò a pubblicare una propria rivista un giovane liberale torinese, Piero Gobetti. Il suo nome entrerà a pieno titolo nel pantheon dell’antifascismo, a fianco di Gramsci e degli altri martiri della repubblica. Senza perdersi in troppe spiegazioni è necessario precisare come il termine liberale vada inteso al di fuori dei luoghi comuni: Gobetti confidava nell’ascesa di un governo operaio e guardava all’Unione Sovietica come ad un esempio di progresso storico.
Il disprezzo maggiore del giovane torinese era riservato alla borghesia italiana e ai socialisti riformisti, principali responsabili di una nazione incapace di vivere il conflitto sociale e sempre tesa al compromesso.
Il Risogimento era legato a volontà internazionali ed era mancata nel corso degli anni una classe dirigente capace di creare uno stato vissuto dai suoi cittadini. L’italiano si caratterizza nella lettura gobettiana come il piccolo proprietario in cerca di privilegi fiscali e teso ad approfittare di ogni sotterfugio. Gli industriali crescono sulle spalle della convivenza con il parlamento, vivendo di finanziamenti e concessioni da parte del pubblico. I sindacati e i partiti vicini agli operai preferiscono ottenere concessioni anziché lottare per il cambiamento. Il compromesso senza alcuna lotta o confronto: questo è l’elemento che caratterizzerebbe l’Italia. In questa lettura il fascismo rappresenta una continuità opposta ai fermenti operai che avevano segnato il “biennio rosso”. Mussolini si propone con un insieme di idee capaci di rispondere a contadini e operai delusi dal partito socialista italiano, garantendo allo stesso tempo la stabilità ricercata da imprenditori, industriali e proprietari terrieri.
Il citato PSI italiano e la Cgil erano nel primo dopoguerra un caso unico in Europa. La II internazionale si era di fatto disgregata sul conflitto mondiale, tra neutralisti e interventisti: la scelta era tra una presunta rivoluzione (fallita con la Comune di Parigi) e il rischio di disfatta del proprio paese. Lenin darà ragione ai pochi che vedevano la guerra come un’occasione per far cadere i governi della borghesia europea. I socialisti italiani erano tra i pochi ad aver mantenuto una posizione neutralista e in pochi oggi ricordano come siano stati parte della III internazionale, in un primo momento almeno. Solo nel 1921 nascerà il Partito Comunista d’Italia. Tra i fondatori le figure mitologiche di Gramsci e Togliatti; entrambi più vicini al Mussolini prefascista che alla posizione neutralista del PSI.
In queste condizioni la sinistra operaia italiana visse il noto biennio rosso (1919-1920), quello che nella lettura gobettiana rappresentò una dimostrazione di incapacità da parte dei dirigenti sindacali e politici. Il partito di Gramsci e Bordiga nascerà in sostanza dopo il movimento di Mussolini.
Gobetti vedrà il fascismo come la massima espressione di quell’Italia che preferisce un movimento inerziale alla vita partecipata. Una maggioranza di italiani che ritiene inutile la dimensione collettiva e pensa a salvaguardare i propri interessi attraverso azioni individuali. In tale senso il liberale torinese si augura che il fascismo arrivi alle sue massime conseguenze, in modo da risvegliare le coscienze degli italiani.
L’asse Roma-Berlino è ancora un evento lontano e il fascismo è analizzato come fenomeno esclusivamente italiano, il cui compito storico è fare in modo che la maggioranza comprenda il valore della libertà, rompendo l’isolamento dei pochi che cercando di portare il paese in un processo storico di progresso e modernità.
Il fascismo è “l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica“.
A questa nazione si oppongono, nella lettura della storia gobettiana, piccoli gruppi di intellettuali e operai.
Gobetti morirà a soli 25 anni nel 1926, quindi l’analisi che dà di Mussolini è necessariamente parziale. Possiamo solo notare come la minoranza partigiana restò di fatto tale fino allo sbarco degli eserciti “alleati”. La speranza di Gobetti di vedere gli italiani insorgere contro il fascismo restò irrealizzata.
La minoranza antifascista sconfisse il nazifascismo anche grazie alla conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Sarebbe errato sminuire il ruolo del Comitato di Liberazione Nazionale o ignorare il sacrificio dei partigiani, dal cui sangue è nata la Costituzione italiana. Dalla lettura di Gobetti si può però avanzare un’ipotesi: che le minoranze hanno sconfitto il fascismo senza diventare maggioranza. E che la maggioranza silenziosa dell’Italia non ha sviluppato sufficienti anticorpi al fascismo come autobiografia della nazione. Il processo di egemonia avviato dal PCI, dalle lotte di studenti e operai, è stato interrotto troppo presto, da gruppi dirigenti che oggi chiedono la pacificazione con “l’altra Italia”.
Può esserci concordia tra interessi diversi? Può esserci reale sintonia tra capitale e lavoro, tra capitale e ambiente, tra privilegi e diritti?
Quello italiano è un popolo incapace di essere all’altezza della sua Costituzione?
DMITRIJ PALAGI
29 giugno 2012