di Eleonora Corace
Non sono dei black bloc”. Si sfoga così l’avvocato che ha seguito Dario e Ines, i due messinesi condannati il 13 luglio dalla Corte di Cassazione, insieme ad altre otto persone, per i fatti accaduti a Genova nel corso del G8 del 2001. Dopo decine e decine di articoli, libri, documentari e film, parlare del G8 di Genova resta difficile. Riassumerlo ancora di più. Quello che è successo nel 2001 nel capoluogo ligure è tristemente noto: giorni e giorni di scontri durissimi tra manifestanti e forze dell’ordine, la morte di Carlo Giuliani, il pestaggio della Scuola Diaz, le sevizie della caserma di Bolzaneto. Pagine nerissime della storia del nostro paese, paragonabili solo, forse, agli anni di piombo. Amnesty International definì quello che successe a Genova nel 2001: “la più grave violazione dei diritti umani avvenuta in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Tutto questo è storia. La settimana scorsa, il capitolo del G8 di Genova si è chiuso formalmente, essendo l’iter giuridico arrivato al suo capolinea: le sentenze di cassazione per i poliziotti accusati di lesioni e falso in atto pubblico – niente di più, dal momento che in Italia non sussiste il reato di tortura, previsto dalla Convenzione dell’Onu e in vigore in altri paesi europei – e per i manifestanti no global rei, secondo l’accusa, di devastazione e saccheggio. Anche quella giudiziaria, ormai è storia vecchia: poco più di tre anni ai poliziotti, da scontare nei servizi sociali – essendo il reato di lesioni ormai caduto in prescrizione – e dai 10 ai 15 anni ai manifestanti. A nulla è valsa la campagna 10×100 anni di carcere, che dal 12 giugno ha coinvolto cittadini e personaggi dello spettacolo per evitare una sentenza così dura. Se questo ormai è storia, meno si sa, però, dei nostri due concittadini condannati, del reato loro imputato, degli altri messinesi che hanno partecipato al G8. Andiamo per ordine.
Dario e Ines. Undici anni dopo.
Dario Ursino e Ines Morasca, classe ’78 e ’70, messinesi, sono stati identificati nelle foto scattate durante gli scontri del luglio genovese di 11 anni fa. Lei è stata riconosciuta per il tatuaggio, lui in seguito al ritrovamento dello stesso paio di pantaloni dopo una perquisizione. Ma le foto non testimoniano la loro partecipazione negli atti imputati, solo che si trovavano lì mentre avvenivano. “Non c’è una sola foto che dimostra che siano stati responsabili di una devastazione o di un furto”. Spiega l’avvocato che li ha seguiti fino alla sentenza di primo grado, che li descrive come: “Due persone pacifiche e buone che negli ultimi dieci anni hanno avuto una figlia e hanno pensato soprattutto a lei. Dario è una persona capace di lavorare dieci ore al giorno. La loro punizione appare assurda proprio perché in questi dieci anni hanno condotto una vita assolutamente pacifica”. I tempi giudiziari, si sa, sono molto lunghi, ma solitamente nelle sentenze si tiene conto del periodo interposto tra i fatti e il verdetto, dei cambiamenti avvenuti e del comportamento degli imputati. Questa volta, evidentemente, non è andata così. Del “fattore tempo” ne parla Pietro Saitta, sociologo e ricercatore dell’Università di Messina, che non sembra avere dubbi sulla logica del capro espiatorio: “Un verdetto così tanto tempo dopo significa avere la determinazione di portare a fondo una processo contro delle persone che incarnano una colpa simbolica e pagano loro dieci per diverse migliaia”.
Parlando di “spietatezza del Leviatano” ,Saitta interseca l’analisi sociologica sullo Stato moderno e la sua forte componente immunitaria con riflessioni che investono l’ambito relazionale e umano. “Un processo che si compie a distanza di undici anni non tiene conto delle profonde trasformazioni che hanno luogo nell’individuo, che viene cristallizzato dentro un’azione passata. Vedere quella che è la vita quotidiana dei condannati a distanza di un decennio è qualcosa di pietoso”. Per Ines, l’ordine di esecuzione è stato sospeso, in attesa che il Tribunale di Sorveglianza conceda gli arresti do micidiali. Il reato. Correva l’anno 1930. Il reato di devastazione e saccheggio è tanto particolare quanto poco usato nella storia della Repubblica. L’ultima sua applicazione risale agli anni settanta, in casi dove gli imputati furono, tra l’altro, assolti. Il reato fu sancito nel 1930. Nulla di inconsueto, dal momento che l’intero codice penale – noto come Codice Rocco – risale al Ventennio. Venne inserito quando il regime fascista aveva bisogno di punire con forza ogni subbuglio della piazza contro politiche particolarmente impopolari. Una sorta di legge marziale applicata in ambito civile e in tempi non sospetti, dunque. La particolarità del reato sta nel fatto che non sussiste se preso singolarmente, vale solo quando il furto, lo scasso e il danneggiamento di immobili avviene su vasta scala. Presupposto del reato è, dunque, un’azione collettiva in cui pesa anche la cosiddetta “compartecipazione psichica”. Come spiega l’avvocato Carmelo Picciotto: “Questo è il teorema che sta dietro: se vedi gente che commette reati ti devi allontanare”. Questo però implica larghi margini di incostituzionalità del reato stesso, dal momento che: “uno può essere responsabile, infatti, del singolo atto non di uno stato generale che si viene a creare. Se io rompo una vetrina rispondo di danneggiamento non di aver messo in pericolo l’ordine pubblico Questo è il lato più aberrante di tutta la faccenda”.
Genova, luglio 2001. Si chiamano ironicamente – me nemmeno tanto – “reduci del G8”.
Sono i messinesi che erano in quella blindata ed irriconoscibile Genova, nel luglio del 2001. Commentano, loro come tutti, le sentenze della scorsa settimana e quelle vicende che continuano a fare discutere, un decennio dopo. Ma i loro commenti spesso diventano testimonianza. Daniele David, Cgil, non esita a dichiarare che “le pene sono sproporzionate rispetto a eventi che non hanno colpito le persone”. L’impressione che i simboli del potere valgano più della cerne e del sangue della gente è forte. Per il sociologo Saitta è addirittura scontato: “Lo stato liberale è prima di tutto difesa della proprietà, poi della vita”. Motivo di discussione e di riflessione sono, tutt’oggi, le modalità di gestione di una situazione che si preannunciava in partenza esplosiva – basti pensare gli scontri avvenuti a Napoli poche settimane prima. I fatti accaduti a Genova continuano a sembrare assurdi, addirittura surreali nella loro brutale drammaticità.
Il primo giorno è stato una festa” – racconta Simone, dottorando nel nostro Ateneo – “Il secondo giorno, però, siamo scesi in piazza e non abbiamo mai raggiunto il corteo. Erano già iniziate le cariche”. La cosa che sopra tutte turba dei fatti del 2001, è il doppio binario giudiziario che vede da un lato processati dei manifestanti, dall’altro dei membri della polizia di Stato. Chi metteva in pericolo l’incolumità pubblica a Genova? Una domanda scomodissima, che aleggia perenne, un passo oltre ogni discussione sul G8 di Genova e trascina con sé immagini di guerriglia, della Diaz, di Piazza Alimonda… Sempre a proposito della storia giuridica scritta dalle sentenze sul G8 del 2001, alcune cariche da parte delle forze dell’ordine ai manifestanti sono state riconosciute dal Tribunale “illegittime”.
Particolari che fanno riflettere. “Scene da guerra civile” – così definisce quei gironi Simone – “c’erano elicotteri che sparavano lacrimogeni (poi riconosciuti non a norma) e sub che bloccavano chi si tuffava a mare per scappare”. Come si è arrivati a tanto? Il dottorando Simone non ha dubbi: “Se non sai dare risposte politiche a una manifestazione di tale entità, hai fallito come democrazia e sei ben riuscito come stato di polizia. Quella che si è giocata in Italia in quei giorni è stata una partita che ha visto vincere la strategia autoritaria.”. tra le 22 e la mezzanotte di oggi, undici anni fa, la polizia faceva irruzione nella scuola Diaz. Sempre undici anni fa, ieri, moriva Carlo Giugliani. Una settimana fa le sentenze che colpiscono dieci manifestanti su 300.000. Il manifesto della campagna 10×100 recita: Genova non è finita. Infatti, “resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita” (Guccini – Piazza Alimonda).
ELEONORA CORACE
da Tempo Stretto.it
22 luglio 2012