di Tommaso Di Francesco
L’arroganza e l’impunità dello stato israeliano sembrano davvero ben rappresentate dalla sentenza di ieri su Rachel Corrie della Corte di giustizia di Haifa che ha dichiarato: «Si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato».
Così lo stato e il governo israeliani archiviando il caso internazionale dietro il paravento della giustizia sommaria per uno stato in guerra che occupa un altro territorio e sottomette un altro popolo, si autoassolvono, dopo nove anni e mezzo dall’uccisione della pacifista americana dell’Internationl Solidarity Movement – come Vittorio Arrigoni. Tentando di cancellare insieme alla giustizia, il nome di Rachel Corrie e ancora una volta la stessa resistenza palestinese.
Rachel venne barbaramente schiacciata il 16 marzo del 2003 da un bulldozer dell’esercito israeliano mentre cercava d’impedire, con la sola intermediazione non violenta del suo corpo e della sua voce scandida da un megafono, la scientifica demolizione di migliaia di case palestinesi. Cercava Rachel di fermare quel terrorismo di stato, condannato anche dall’Onu e in particolare dall’Unrwa-Agenzia per i Rifugiati, che lasciò senza casa 17 mila famiglia palestinesi e che venne però giustificato per «fermare i terroristi» ed edificare al posto delle abitazioni civili un altro muro alla frontiera con l’Egitto. Il tribunale così ha respinto il ricorso della famiglia che aveva accusato lo Stato isrealiano di essere responsabile dell’uccisione della figlia e di avere scientemente evitato indagini accurate.
Ora l’esercito è assolto. Non solo. La colpevole sembra essere proprio Rachel che con il suo strabordante coraggio ha osato sovrastare e «schiacciare» l’operazione «umanitaria» dei bulldozer di Tel Aviv. Lei che, solo pochi giorni prima di venire assassinata, in una e-mail agli amici, aveva denunciato: «Abbattono le case anche se si trova della gente dentro. Non hanno rispetto di niente né di nessuno».
Non hanno avuto rispetto di niente e di nessuno anche con questa sentenza. Al punto da diventare come una seconda uccisione. Quella denunciata dall’attrice Vanessa Redgrave ogni volta che sul nome di Rachel Corrie in Occidente e negli Stati uniti scende il velo della censura. Perché il pacifismo attivo e diretto che si frappone alla guerra è stato, proprio nell’anno della morte di Rachel Corrie, il grande sconfitto dalla guerra infinita di Bush. Come è sconfitto, silenzioso e inattivo, ogni giorno che la deriva integralista delle primavere arabe è degenerata e degenera in quotidiani bagni di sangue, come in Siria.
Difficile cancellare la memoria di Rachel Corrie la cui immagine torna sempre nelle piazze con Occupy. Naomi Klein ha recentemente ricordato che nei Territori occupati e nella Striscia di Gaza, ovunque ci sono bambine chiamate Rachel in suo onore. La storia di Rachel è viva, nonostante il cuore dei palestinesi, dopo la morte di Arafat, sia spezzato nelle due anime per ora non facilmente conciliabili, di Hamas e Fatah. Perché, qual è l’essenza della solidarietà di Rachel Corrie? «Avvertire la consistenza della storia vivente del popolo palestinese – ha scritto Edward Said – come comunità nazionale e non semplicemente come un gruppo di poveri rifugiati».
TOMMASO DI FRANCESCO
da il manifesto del 29 agosto 2012