di Luca Celada
Lo sguardo retrospettivo e introspettivo sull’antagonismo delle idee ha coinvolto anche la sezione documentaria del Toronto Film Festival dove si è visto anche Free Angela and All Political Prisoners. Il documentario di Shola Lynch passato in prima mondiale al Roy Thomson Hall, narra del processo nel 1971 contro Angela Davis e rievoca il movimento mondiale a suo favore. Davis era una «figlia del sud» secondo la tradizione biografica afroamericana di quella generazione, figlia di genitori illuminati, insegnanti e attivi nel Southern Negro Congress organizzazione per i diritti civili di ambiente sindacale, che nella Birmingham (Alabama) profondamente segregata spinsero i figli verso lo studio.
Angela Davis però non restò a Birmingham abbastanza a lungo per vedere la città trasformata nell’epicentro nazionale del movimento di Martin Luther King; poco prima che cominciassero le proteste e la feroce repressione, la giovane Angela infatti era partita con una borsa di studio per un liceo del Greenwich Village a New York da dove proseguì per la prestigiosa università di Brandeis. Studentessa di francese, è qui che conosce Herbert Marcuse e la passione per la critica dialettica della scuola di Francoforte dove finirà per seguire il suo maestro. Si trova ancora in Europa quando il movimento per i diritti civili si contamina con quello studentesco e evolve in quello della Black Power e sarà solo dopo Parigi e Berlino che tornerà in patria, all’università di San Diego. L’America è un paese in pochi anni profondamente trasformato e la giovane brillante assistente di filosofia, un po’ secchiona,vuole mettere in pratica la critica dialettica dei suoi studi. Si trova però a criticare da sinistra la militanza eccessivamente «nazionalista» (e maschilista) delle Pantere Nere e finisce per gravitare verso il club Che Lumumba, sezione «terzomondista» dei giovani comunisti universitari.
La svolta la segna profondamente anche perché assunta poco dopo come docente di teoria marxista dalla facoltà di filosofia di Ucla, viene quasi immediatamente licenziata dopo essere stata denunciata come «sovversiva comunista» dal governatore Ronald Reagan che in quegli anni sullo sfondo della protesta giovanile ormai dilagante, getta le basi per la sua futura carriera di populista reazionario. Il caso, reso possibile dalla vigliaccheria dell’università (ma la legge che permette di licenziare i comunisti dalle scuole esiste ancora oggi negli statuti della Califonia) la rende universalmente popolare spingendola sempre più verso l’impegno politico in particolare contro la repressione genocida promossa dal programma Cointelpro dell’Fbi per annientare i militanti neri. Per espressa volontà di J Edgar Hoover le Pantere Nere vengono in quei mesi prese di mira in tutte la maggiori città americane mediante l’eliminazione diretta in sparatorie e con sistematici arresti. Il movimento Black Power trova così nelle carceri il suo naturale punto di scontro con le autorità e anche Angela Davis diventa molto attiva a favore dei prigionieri politici.
Uno di questi è George Jackson, ragazzo dei ghetti californiani condannato diciottenne, per un furto di 70 dollari ai danni di un benzinaio, ad una pena «esemplare» di «un anno fino all’ergastolo». Nei penitenziari californiani di San Quentin e Soledad, Jackson entra in contatto con le Pantere incarcerate, studia, si radicalizza e diventa organizzatore della resistenza politica dei prigionieri oltre che autore di una articolata epistolaria raccolta nel libro Soledad Brother che diventa un classico manifesto della letteratura di movimento. Jackson è preso di mira come sobillatore dalle autorità carcerarie e viene accusato con due compagni dell’uccisione di un secondino in seguito ad una rivolta di detenuti a Soledad. Il caso diventa una cause celebre e Angela Davis fa parte della mobilitazione per la liberazione dei tre, gli eventi prendono però il sopravvento quando il fratello diciassettenne di Jackson tenta di liberare i tre imputati dal tribunale di Marin County dando luogo ad una sparatoria in cui rimangono uccisi i militanti ed il giudice che era stato preso in ostaggio. Risulterà dalle indagini che le armi usate nell’azione erano state acquistate da Angela Davis, viene spiccato un mandato di cattura e lei si dà alla clandestinità prima di venire catturata qualche settimana dopo e imputata con tre capi d’accusa che prevedono la pena di morte.
I fatti vorticosi vengono documentati con dovizia di testimonianze e archivi nel film della Lynch, che come i film di Assayas e Redford riapre alcune pagine fondamentali del movimento e del momento politico di 40 anni fa. Ne emerge il ritratto di una «celebrità» che risulta anche abbastanza lontana dall’immagine plasmata dagli slogan e dall’iconografia del tempo: della celebre silhouette con l’afro dei manifesti dell’epoca rimane la capigliatura, ma la Davis che ci restituisce questo film è una pensatrice tenace ma più pacata che barricadera, spinta quasi dalla storia verso un ruolo che non necessariamente le si confaceva ma che accetta di buon grado e ben presto con l’attitudine di una leader. Il processo contro di lei – a San Josè, con una giuria interamente bianca – durerà quasi due anni tra le forti pressioni di Reagan, di Nixon e dell’establishment che reclama di fare esempio di questa giovane donna esile di cui tutto: la pelle, la bellezza, la gioventù e le idee, è un affronto allo status quo. Ma sullo sfondo dell’escalation in Vietnam e della radicalizzazione della repressione poliziesca, il movimento internazionale adotta la causa di Free Angela (e tutti i prigionieri politici) in un’ondata di fervore che contro i pronostici riuscirà a liberarla. Nel film le oceaniche manifestazioni in Europa, Parigi, Stoccolma, Roma, a Cuba e in Africa che alla fine alzeranno troppo il prezzo della condanna di una donna diventata simbolo di un decennio di ingiustizia.
Angela verrà prosciolta e a nulla varranno le imprecazioni di Nixon «intercettate» su una serie di bobine registrate.
Una vittoria assolutamente politica più che giuridica, un happy Ending fra le tante tragedie di cui fecero le spese all’epoca i militanti neri, che dimostrò al movimento la sua propria forza. Il film è un «dietro le quinte» che contiene anche qualche sorpresa: nei giorni in cui entrambi, brevemente, erano imputati nello stesso tribunale, Davis e Jackson riuscirono, per intercessione degli avvocati, a consumare una singola volta l’amore che fin lì aveva vissuto solo tramite le idee e le lettere, guadagnandone ulteriori ennesimi prolungamenti dell’isolamento punitivo in cui erano confinati, ma anche, si intuisce, l’atto in qualche modo più potente e sovversivo della loro ribellione. Poche settimane dopo Jackson giaceva in una pozza di sangue sul pavimento di San Quentin dopo l’ennesima «provocazione» ai secondini che da tempo gliela avevano giurata e Angela Davis avrebbe ripreso una lotta durata fino ad oggi a favore di tutti i prigionieri. Quando l’abbiamo incrociata sul tappeto rosso di Toronto, accompagnata dalla regista e da Will e Jada Pinkett Smith (quest’ultima ha finanziato il film assieme a Canal+) abbiamo avuto il tempo di chiederle: «Ha mai avuto qualche rimpianto?» «No. Mai nemmeno uno solo!».
LUCA CELADA
da il manifesto del 16 settembre 2012