di Valerio Todeschini
“Abba vive”
È evidente come oggi l’immigrazione sia un fenomeno con cui sempre più bisogna confrontarsi e che acquista sempre maggiore valenza sociale. A questo fenomeno si possono riscontrare diversi tipi di reazioni tra la popolazione, tra cui la nascita di associazioni con lo scopo di favorire l’integrazione e programmi politici profondamente avversi.
Riprendendo Simmel lo straniero è un elemento instabile e ambivalente nella società: esso ha in se sia il concetto della vicinanza (spaziale) e della lontananza (culturale). Questo appunto crea sentimenti contrastanti di attrazione o di repulsione, fino ad arrivare al coinvolgimento emotivo e quindi alla nascita di vere e proprie forme di razzismo.
Quest’ultimo oggi più che in passato fa leva su caratteristiche culturali, essendo assodata l’infondatezza dell’esistenza di razze diverse (almeno sotto il punto di vista biologico). Questo non vuol dire che non esistono più discriminazioni etniche, ma bisogna ridefinirne il senso: l’etnia non è più immutabile perché dovuta a precise caratteristiche biologiche, ma subisce un processo di etnicizzazione. Se intesa in questi termini l’identità etnica è il frutto di un processo di costruzione simbolica che avviene in precise circostanze storiche, sociali e politiche. Quest’ultime non devono essere per forza dettate da un governo o da un’amministrazione, ma da qualsiasi potere in grado di creare un frame consono a precise capacità di accesso alle risorse economiche. Ne è esempio lampante la propaganda politica della Lega Nord, che sfrutta nella propria comunicazione politica l’immagine stereotipata dell’immigrato come soggetto arrivato per rubare il lavoro agli autoctoni. La categoria di immigrato nello stereotipo leghista assume infatti sia un criterio etnico (la provenienza) che di classe (essere relegati ai margini del processo produttivo).
La comunicazione mediatica concorre a questo processo di costruzione identitaria, anzi, è uno dei canali con cui si normalizza il messaggio e si creano più a facilmente a livello di massa dei frame cognitivi condivisi. Questo significa che soprattutto prodotti comunicativi per accezione comune neutri (come nel caso della pubblicità, o di una notizia di cronaca) nel momento in cui fa riferimento a specifici linguaggi tendenti alla replicazione degli stereotipi già presenti in strati della popolazione, non solo li amplifica: li rende naturali. In questo modo influisce direttamente nei comportamenti reali.
Esempi nei media ce ne sono parecchi in cui si utilizza il soggetto migrante come immagine stereotipata: dalla definizione etnica come caratteristica del soggetto di cronaca nera, alle pubblicità che sfruttano l’immagine del migrante (ovviamente non occidentale) come soggetto povero e come minaccia (si pensi alla pubblicità ritirata da Trenitalia che relegava la famiglia di migranti in 4a classe o a quella dell’Unione Europea che combatte contro l’invasione di un cinese, un arabo e un africano, anch’essa ritirata tra le polemiche).
Il prodotto mediatico agisce infatti sui corpi sia della dell’oggetto dello stereotipo che del ricevente del messaggio: rafforza la naturalità del migrante come ultimo soggetto nella piramide sociale e la divisione con gli autoctoni presenti nelle altre classi superiori. Esso quindi agisce nel livello biopolitico riproponendo alcuni schemi del potere sui corpi: il corpo del migrante visto come elemento di differenza sociale sia a livello economico che etnico. Riproduce la volontà di controllare la vita delle persone: mette barriere culturali all’emancipazione dei soggetti di classe più deboli, ma altresì nei gruppi dominanti accresce la possibilità di poter costruirsi un’identità su basi di alterità con un soggetto estraneo e considerato più in basso nella piramide sociale. Nella società questo messaggio stereotipato rafforza quindi quelle pratiche escludenti che condizionano la vita degli individui sia dal punto di vista materiale che dei diritti. In questo modo i media riproducono le relazioni di potere, disciplinando i corpi e i ruoli da occupare nella società.
I media come strumento di controllo dei corpi quindi: essi sono il mezzo e gli strumenti per la replicazione dei discorsi (intesi nel senso foucaultiano di pratiche del potere). Amplificano e possono potenzialmente fare in modo che un giudizio, una definizione possa essere propagandata uguale a tutti i soggetti sociali. Come nella campagna lanciata da Trenitalia, nella naturalità con cui replica lo stereotipo sopra può consolidare o favorire nel ricevente la convinzione che effettivamente tutti i migranti siano poveri. La divisione in classi inoltre chiarisce in quale strato sociale essi devono collocarsi, definendo così nella realtà la percezione che una persona o un gruppo avrà rispetto ai migranti. Risulta evidente la non neutralità del messaggio lanciato, tanto più pericoloso nel momento che viene percepito come tale: nel momento in cui risulta naturale vedere come ultima classe gli stranieri il messaggio si connota di conseguenza come affermazione vera, rafforzando in questo modo la relazione di dominio.
Nella riproduzione dei discorsi la comunicazione svolge quindi un ruolo strategico in tutti gli snodi della relazione sociale. I media contribuendo alla creazione dell’identità singola e collettiva agiscono come strumento per il coinvolgimento delle soggettività. Essi quindi sono mezzi che permettono di creare rituali e identità condivise, favorendo il consenso verso il potere stesso.
Nella società della globalizzazione dei capitali, delle merci e delle persone le identità stesse sono messe in discussione. Un mondo in cui tutto è diventato globale ha provocato la crisi delle identità locali. Mentre capitali si spostano alla velocità di un click fabbriche vengono chiuse in nome della concorrenza globale. Con la crisi del fordismo entra in crisi la fabbrica come elemento di socializzazione e di creazione identitaria: alla dicotomia lavoratori e datori di lavoro incomincia a farsi strada un rifugio identitario fondato sull’etnia di provenienza. Nel momento in cui il destino delle persone viene deciso dall’altra parte del mondo la risposta è stata il rifugiarsi nel localismo e nella costruzione dell’identità in opposizione all’esterno. La stessa crisi degli stati nazionali ne è un esempio, nel momento in cui non possono più governare i processi economici reali. Un potere che agisce sempre più su un piano sovranazionale che si emancipa dai legami territoriali anche grazie alle nuove tecnologie sul piano dell’economia materiale, mentre immagini simboliche globali influenzano sempre più i soggetti locali con i nuovi mezzi di comunicazione.
Una crisi dell’identità collettiva che lascia spazio all’individualizzazione: si fanno sempre più strada rivendicazioni economiche verso lo stato nazionale di trasferimento di risorse sul territorio, mentre dal punto di vista culturale si formano identità basate sul riconoscimento di una tradizione (non importa quanto fittizia) comune di zone adiacenti e sulla costruzione in rapporto all’alterità. Quindi assieme a un livello macro che si muove su un livello globale economico e di produzione di simboli nel micro si assiste a una chiusura identitaria anche individuale che lotta per l’accaparramento delle risorse.
Dentro questa dicotomia agisce l’egemonia del potere: essa crea consenso verso l’attuale globalizzazione neoliberista propagandata come inevitabile e come risorsa. Inevitabile come processo storico che grazie alle nuove tecnologie mette in relazione potenziale ogni angolo del pianeta, quindi risorsa per poter agire su scala globale. Questo è riprodotto a livello simbolico nei media dove sempre maggiori sono i programmi e prodotti in cui si propaganda la capacità degli imprenditori italiani di far successo all’estero; le stesse Olimpiadi moderne sono un vettore di propaganda delle abilità di un popolo in concorrenza verso altri (non a caso nel 1936 furono usate dai nazisti per ribadire la supremazia della razza ariana).
Una rappresentazione della globalizzazione positiva in cui secondo il principio della concorrenza chi è più bravo acquista maggiori fette di mercato, chi non può o non riesce a competere viene relegato ai margini del mondo: è destinato non solo ad occupare l’ultimo gradino della scala globale economica, ma a livello simbolico e percettivo appare naturale che debba essere così
Sul piano delle comunità locali la globalizzazione attraverso il continuo spostamento di capitali e di risorse, come si è già accennato, scardina meccanismi sociali sedimentati negli anni: l’espropriazione di potere da una scala nazionale e controllabile dalle aree locali agli organismi internazionali ha creato un vuoto e una ridefinizione identitaria nei soggetti sociali. Con l’aumento dell’insicurezza sociale e una ridefinizione moderna dei rapporti economici è avvenuta una ridefinizione identitaria su base territoriale e di alterità verso l’esterno.
Si creano dei processi di costruzione dell’identità escludenti: nella ridefinizione di identità collettive si definisce anche chi, in che grado e modo può accedere alle risorse economiche locali. In questo gli stranieri percepiti come estranei all’etnia autoctona (etnia intesa sempre come processo culturale) sono da un lato utili per la definizione identitaria di gruppo nella contrapposizione con l’outgroup appunto, ma considerati destabilizzanti in quanto portatori sia di interessi economici che caratteri culturali altri. In questo passaggio troviamo la seconda fase del processo egemonico: se nella prima si presenta un livello globale positivo come risorsa a cui attingere per il locale (costruzione simbolica classicamente etnocentrica), in quest’ultima, un prodotto della globalizzazione stessa come il soggetto migrante, viene usato per rafforzare l’identità etnocentrica e usato come soggetto su cui sfogare le proprie insicurezze sociali. In questo modo l’egemonia preserva consenso verso il sistema economico-politico, rafforzandolo indicando come sfogatoio delle pulsioni sociali l’altro vicino.
Il migrante nei media subisce questa dicotomia dell’egemonia: da un lato troviamo prodotti mediatici che rappresentano le culture nel mondo secondo costruzioni simboliche che sconfinano sempre più nell’orientalismo, quindi riproponendo la visione etnocentrica. È il caso di pubblicità turistiche che ripropongono immagini di posti esotici con una cultura stereotipata funzionale a il divertimento del turista occidentale.
Dall’altro lato abbiamo una rappresentazione del migrante nel qui ed ora spesso stereotipata come alterità da cui difenderci(come nel caso della pubblicità dell’UE), o rappresentato come ultimo soggetto nella scala sociale (come nel caso della pubblicità di Trenitialia) definendo (implicitamente ed esplicitamente) i ruoli sociali dei diversi attori etnici.
Così è evidente come i media partecipino nella produzione e riproduzione del discorso egemonico, creando consenso attorno a precisi frame che interpretano la realtà e stabiliscono la costruzione sia identitaria sia la qualità delle relazioni sociali. Un circolo comunicativo capace quindi, grazie a prodotti mediatici variegati, di indirizzare sia a livello di gruppi sia a livello individuale il processo di costruzione dell’identità costruendo cornici interpretative della realtà funzionali a i fondamenti del potere stesso e alla sua capacità di orientare e di governare la vita di tutti i giorni.
In conclusione oggi una campagna antirazzista non può prescindere da un’analisi dei prodotti comunicativi, quindi culturali, che concorrono alla creazione di senso. Di conseguenza anche la nostra azione politica deve essere conseguente: per sconfiggere il razzismo, che sempre più spesso diventa parte integrante della formazione identitaria singola e collettiva, dobbiamo avere la capacità di mettere in campo una proposta politica coerente ed efficace, che metta a critica la globalizzazione capitalistica come elemento di espropriazione reale di democrazia che annulla di fatto la nostra costituzione e come sistema che oggi più di ieri anche in occidente dimostra come sia un sistema economico che tende ad aumentare le disuguaglianze sociali, tra gli Stati e negli Stati. Che leghi la questione dei migranti a quella più generale del lavoro e dei diritti. Una proposta politica che sappia raccogliere intorno a se una massa critica tale che possa incominciare a lavorare per una lotta verso l’egemonia nella società: per fare questo serve creare quella sinergia che tenga assieme forze sociali e politiche, che riesca a penetrare a fondo nella società in modo da essa senso comune. Per quest’operazione però è evidente come serva un soggetto di sinistra nuovo e più grande, che metta fine alla continua tendenza alla frammentazione italiana: cioè bisogna incominciare un percorso di ricomposizione della sinistra politica e sociale, di cui la battaglia referendaria comune può essere un punto di partenza politico, che possa avere l’autorevolezza e la forza organizzativa per essere riferimento dei soggetti singoli e collettivi, che possa lanciare la sfida per una nuova società senza più sfruttati e sfruttatori, libera dal germe del razzismo.
VALERIO TODESCHINI
settembre 2012