Il ragazzo che amava un colore “proibito”

di Anna Belligero

Togliersi la vita a 15 anni e rompere il silenzio. Rompere il silenzio di una società atrofizzata dal pensiero unico dominante, di una scuola che sempre più spesso si trasforma in luogo di diseducazione, di una politica incapace di rispondere ai bisogni. Togliersi la vita a 15 anni, per il dolore di un peso insopportabile, nell’età in cui la leggerezza è, giustamente, la cifra dell’esistenza. Cosa sia accaduto al piccolo A. per arrivare a tanto è, drammaticamente facile da scoprire, impossibile da comprendere. Era gay? Era eterosessuale? Era A., un ragazzo di 15 anni che frequentava il suo liceo, aveva degli amici, una famiglia, degli interessi, un’intelligenza, un corpo. Era un ragazzo che amava un colore proibito al suo genere, che si divertiva a smaltarsi le unghie, che, probabilmente, era più gentile e fragile dei suoi coetanei maschi di azzurro vestiti. Il punto, però, non è quale fosse il suo orientamento sessuale o perché amasse il rosa, ma perché adesso non c’è più. Indipendentemente da tutto questo, che è solo l’epifenomeno, il cuore della questione è un altro, e cioè perché alcuni utilizzano parole come gay, lesbica, transessuale, cioè orientamenti, scelte di vita, vissuti di milioni di persone nel mondo, al posto degli insulti, e lo possano fare impunemente.

Alla luce di questo è necessario trovare degli scudi per difendere la prossima vittima, e degli strumenti per modificare radicalmente queste abitudini criminali. E questo, ovviamente, spetta alla politica, a quella stessa politica che poco meno di due settimane fa ha affossato in Parlamento la Legge sull’omofobia, che non ritiene di dover dare gli stessi diritti a tutte le cittadine e a tutti i cittadini dello Stato, che non si preoccupa dell’imbarbarimento della società che è chiamata a rappresentare. Ma forse questo è proprio il frutto della barbarie dei rappresentanti, che ha infettato anche i rappresentati.

Come si può pensare di vivere in un Paese in cui l’altrui esistenza diventa un insulto? Come si può pensare una democrazia senza i diritti civili elementari? Come si può formare una generazione, il cui tempo è il futuro, nella barbarie del presente?

La civiltà non è un fatto individuale, ma collettivo, e la responsabilità dunque della barbarie non è solo di chi la compie ma anche di chi non la combatte.

C’era un tempo in cui in questo Paese la scuola pubblica era un volano d’emancipazione, di incivilimento, di educazione al miglioramento delle proprie condizioni di partenza e dei propri limiti. Oggi, invece, la scuola è diventata una palestra di conformismo e di competizione, un luogo in cui si devono nascondere le differenze e alimentare le solitudini, e che non è previsto che formi cittadini consapevoli.

Viene da chiedersi, con un pizzico di angoscia, cosa insegnino nelle scuole oggi, quale sia l’idea di rispetto che propugnano, quale il senso di collettività e di scoperta che fanno praticare a queste ragazze e a questi ragazzi. E, aggiungendo un pizzico di retropensiero, viene da chiedersi che relazione ci sia tra i soldi salvati sempre e solo per le scuole private, il fatto che queste ultime siano troppo spesso di proprietà della Chiesa o di qualche ente affine, e il tipo di educazione che si insegna nelle scuole, spesso anche in quelle pubbliche. Quando diciamo che vogliamo una scuola pubblica, democratica e laica, diciamo che non vogliamo che l’educazione del nostro futuro venga subordinata ad una qualche religione e ai suoi precetti, ma che sia libera, e rispettosa delle vite di tutti nel profondo, delle vite materiali fatte delle loro differenze, dei loro vissuti, delle loro scelte.

Come definire una scuola in cui gli studenti scherniscono, offendono, vessano un compagno, e gli insegnanti non lavorano per mettere fine a tutto questo? L’immagine più difficile da metabolizzare, quella che davvero non lascia spazio a nessun sentimento positivo, è quella di un insegnante che si unisce al coro, ammonendo un ragazzo, e umiliandolo, perché ha lo smalto sulle unghie. E’ l’immagine dello sfacelo, del deterioramento della scuola e del suo significato più profondo. Immaginare che, dopo l’intolleranza dei quindicenni, bisogna subire anche quella di chi dovrebbe educare quegli stessi quindicenni alla tolleranza, al rispetto delle differenze, alla bellezza e al potere dell’amore, per il sapere e per gli esseri umani, è davvero insostenibile. La politica, il Governo, devono interrogarsi su questo, e non lasciare che altri amici, genitori, innamorati, perdano qualcuno che gli è caro perché ucciso dalle umiliazioni e dalla barbarie. E’ importante, fondamentale, improrogabile, che il nostro Paese si doti di una legge che punisca e quindi prevenga il reato di omofobia, perché in caso contrario saranno tutti complici, anche dell’assassinio o del suicidio della prossima vittima, che sarà, come A., vittima non di violenze private ma di una continua violenza pubblica, dello Stato e di chi lo rappresenta, fatta ai danni di tante e tanti.

E poi è necessario che ci si faccia carico, una volta per tutte, dell’orizzonte di civiltà in cui vogliamo che crescano le giovani generazioni, attraverso maggiori e più costanti attenzioni nei confronti dei luoghi in cui i giovani si formano, come la scuola, e di coloro che sono designati a farlo, come gli insegnanti. Serve una maggiore formazione laica e non asservita a precetti cattolici per coloro che scelgono di educare i ragazzi e le ragazze, e serve che la rigidità, troppo spesso utilizzata da costoro per “normalizzare gli eccentrici”, venga utlizzata per isolare e “curare” i violenti, quelli che comunemente chiamiamo bulli. Non arginare costoro, non insegnare loro sin da ragazzini che prima di tutto esiste il rispetto inviolabile dell’altro da sé, significa rendersi complici delle sofferenze che oggi patisce un qualunque ragazzo o una qualunque ragazza a scuola, e che domani potrebbe trasformarsi in una violenza ben più grave e pericolosa. Non sarebbe di certo la prima volta che un bulletto tutto testosterone e spavalderia si trasformi poi in un maschio assassino, in uno che, qualche anno dopo, continua a esercitare la sua prepotenza sul corpo e sulla vita delle donne che hanno la sfortuna di incontrarlo. Esiste, purtroppo, una relazione fortissima e drammatica tra queste violenze, un filo conduttore che ha a che fare col nesso maschile-potere. E la violenza sulle donne, non è la conseguenza di questo, bensì la causa.

Luce Irigaray sottolinea come il tema delle differenze di genere, la piena comprensione di quelle esistenti tra uomo e donna, sia la base fondamentale per accettare l’altro/a, gli/le altre/i. Nell’ideologia dell’ordine simbolico, purtroppo ancora dominante, la donna è lo specchio attraverso cui l’uomo, guardandola come inferiore, sublima la sua condizione di superiorità. Ed ogni movimento, ogni azione che prova a infrangere quello specchio è un pericolo per il maschio dominante. Ogni manifestazione che metta in discussione questo “ordine (in)naturale delle cose” è dunque per l’uomo fonte di rabbia e violenza, poiché è inaccettabile che la superiorità e il dominio maschile sulla donna e sul tutto vengano messi in discussione.

E’ inaccettabile che una donna possa decidere di mettere fine a una relazione, che decida i tempi e le modalità della sua vita, che possa vivere le stesse opportunità di un uomo. E’ inaccettabile per un uomo vedere attraverso quello specchio non più la propria superiorità, ma l’immagine duale di cui la società si compone.

Inaccettabile per davvero è che in questa società non vengano presi dei provvedimenti specifici e urgenti per fermare lo sciame di violenze che si infrangono sulle donne e sulle differenze, sempre più spesso, purtroppo, causando vittime.

Il dramma, la piaga della società, questo è la violenza alle donne, che non fa distinzioni di etnia, religione, classe, titolo di studio. Gli uomini uccidono e fanno violenza alle donne in maniera del tutto trasversale, dal da chi non riesce a sbarcare il lunario all’avvocato ricco, dall’italiano al migrante, dal giovane al meno giovane. E la crescita, spaventosa, della violenza a giovani donne compiuta da giovani uomini è un campanello d’allarme inquietantissimo. Tra le giovani, infatti, cresce una consapevolezza sempre maggiore dei propri diritti, delle proprie aspettative, della propria libertà, che è un fatto splendido e straordinario per il nostro tempo, e se le istituzioni non saranno in grado di accompagnare questa crescita con delle politiche adeguate, ogni conquista ricadrà nell’oblio. Le giovani stanno avendo la forza di lottare, e le istituzioni devono rispondere adeguatamente. La scuola potrebbe avere un ruolo centrale e straordinario in questo, se solo si mettessero in pratica i programmi reali per l’insegnamento. Per esempio l’educazione sessuale, troppo spesso “dimenticata” più per un assurdo pudore che per incuria; l’educazione civica, che dovrebbe servire per formare appunto cittadini consapevoli, delle leggi e dei diritti che tutti hanno e devono avere nel proprio Paese, compresi i migranti per esempio; e perché no, gli studi sul genere, attraverso dei percorsi che portino le ragazze a concepirsi come donne libere, prive di timori, consapevoli del significato dell’essere donna, e i ragazzi a vivere questo come assolutamenti normale. Aiutando, inoltre, quegli stessi ragazzi a fare lo stesso percorso, scoprendosi uomini senza “l’aiuto” dello specchio che li faccia vedere come superiori, ma semplicemente altro dalla donna, diversi ma uguali nei diritti.

Lo Stato, dal canto suo, continua a mantenere un livello bassissimo di tutela e prevenzione dalla violenza. I centri antiviolenza continuano a chiudere, o quando va bene a vivere di stenti e volontariato, le leggi vengono applicate parzialmente, e soprattutto chi dovrebbe applicarle è ancora impreparato e a volte addirittura titubante. Siamo il penultimo Paese europeo ad avere firmato, da ventitresimo su 24, la Convenzione di Istanbul, che resta, come in tutti gli altri Paesi tranne che in Turchia, ancora da ratificare da parte dei Parlamenti, e dunque assolutamente inutilizzabile al fine di costituire l’Osservatorio europeo sulla violenza di genere.

Siamo in ritardo, ed ogni giorno che passa diventiamo complici di nuove violenze e di vite spezzate, spezzate dalla violenza di un maschile che diventa sempre più pericoloso e da un’inefficacia del lavoro delle istituzioni. Abbiamo bisogno di leggi, di chi le faccia rispettare, ma abbiamo tanto, tantissimo bisogno, di cambiare la cultura di fondo che permea la nostra società, maschilista, omofoba, criminale.

ANNA BELLIGERO

25 novembre 2012

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