di Alessandro Pascale
E’ ormai un dato assodato che in Italia il problema principale è la classe politica: corrotta, inadeguata, impopolare, vecchia. Probabilmente mangia-bambini, drogata, cannibale, pedofila e qualunque altra cosa infamante che vi possa venire in mente.
Scherzi a parte il dato di fondo c’è ed è inequivocabile: esiste un problema di rappresentanza e di inadeguatezza politica, morale e ideologica dell’attuale ceto dirigente al potere. Ciò sta letteralmente distruggendo la democrazia liberale in Italia, degenerando lo sconforto, il pessimismo e il senso di impotenza presso sterminate masse rifugiatisi nel qualunquismo populista o nell’indifferenza apolitica. Questa è la sconfortante analisi reale della società italiana e dei suoi umori.
Tutto ciò però non è un fatto inedito, anzi, sembra costituire una costante nella storia italiana, e non solo repubblicana. Gli stessi fenomeni venivano segnalati già durante l’Italia “liberale” monarchica, poi attraverso i privilegi del regime fascista e successivamente con il monopolio dirigenziale dei governi democristiani, fino quindi alla famosa stagione di Tangentopoli che non fece altro che scoperchiare problemi presenti da decenni ma impediti dal fattore K.
I liberali tendono a dare la colpa ad un carattere storico “genetico” di noi italiani, che per tradizione saremmo arraffatori ed egoisti. Gramsci però la pensava diversamente, e denunciava a spron battuto come la corruzione morale e culturale di una società (e della sua élite dirigenziale) non potesse che aumentare all’interno di una struttura economica degradante quale quella capitalistica.
In un articolo del 1919 l’ordinovista Gramsci scrive così, in un discorso sorprendentemente adatto per la nostra epoca:
“La demagogia, l’illusione, la menzogna, la corruzione della società capitalistica non sono accidenti secondari della sua struttura, sono inerenti al disordine, allo scatenamento di brutali passioni, alla feroce concorrenza in cui e per cui la società capitalistica vive. Non possono essere abolite, senza abolire la struttura che la genera. Le prediche, gli stimoli, le moralità, i ragionamenti, la scienza, i «se…» sono inutili e ridicoli. La proprietà privata capitalistica dissolve ogni rapporto d’interesse generale, rende cieche e torbide le coscienze. Il lucro singolo finisce sempre col trionfare di ogni buon proposito, di ogni idealità superiore, di ogni programma morale; per guadagnare centomila lire si affama una città; per guadagnare un miliardo si distruggono venti milioni di vite umane e duemila miliardi di ricchezza. La vita degli uomini, le conquiste della civiltà, il presente, l’avvenire sono in continuo pericolo. Queste alee, questo correr sempre l’avventura, potrà soddisfare i dilettanti della vita e chi può mettersi in salvo coi suoi; ma la grande massa ne diventa schiava”
La domanda è posta per i profani: e se Gramsci, uno dei più grandi pensatori del Novecento, così spesso ammirato eppur così poco letto e conosciuto, avesse ragione? Se la crisi morale e democratica di un Paese non dipendesse semplicemente dall’inadeguatezza “caratteriale” di un popolo incapace di esprimere una degna classe dirigente, ma piuttosto dalle storture derivanti dal sistema capitalistico? Cancellare dalla questione il problema del capitalismo significa eliminare la concezione materialistica della storia, e quindi rimuovere la constatazione che la realtà sociale non è uniforme, bensì è divisa in classi. Ma così facendo non si corre il rischio di votare per partiti e persone che hanno interessi strutturalmente diversi da quelli dei cittadini che li eleggono? Come si può pensare che sia un membro (per censo o per appartenenza ideologica) della classe dominante a eliminare le storture del sistema capitalistico, ponendo fine una volta per tutte ad ogni tipo di “casta”?
Gramsci, dopo aver scosso il capo con passione, ci spiegherebbe l’insensatezza di pensare che un milionario possa lottare contro le storture della proprietà privata capitalistica. Tanto meno avrà interesse a svolgere un tale compito un qualsiasi liberal-liberista, incapace di ricondurre la crisi morale alle sue radici sociali, ma piuttosto bravo a imitare un buon prete nel predicare quell’onestà e quella coerenza etica che non si accorge nemmeno di infrangere ogni giorno, quando acconsente spesso inconsciamente allo sfruttamento dell’uomo su altri uomini e sull’ambiente.
ALESSANDRO PASCALE
da Il Becco
dicembre 2012