di Matteo Iannitti
Il 15 ottobre a Roma, nella rivoluzione in Val di Susa, nelle battaglie dei precari della scuola, dentro un centro sociale minacciato da uno sgombero, nelle occupazioni delle scuole e delle università, in centinaia di manifestazioni abbiamo sempre camminato accanto a coloro che, per opporsi al Sistema, hanno disobbedito allo Stato e alle sue leggi. Le leggi che ti perseguitano se fai un blocco stradale ma non colpiscono un padrone che licenzia, che ti inseguono quando occupi una scuola ma non puniscono chi taglia miliardi all’istruzione pubblica, che ti impediscono di usare uno spazio come luogo di aggregazione ma non costringono le istituzioni a non trasformare interi quartieri in deserti della socialità. In tanti anni abbiamo sempre visto la legge difendere i più forti e condannare gli ultimi. Polizia, carabinieri e magistratura da una parte, diritti e dignità dall’altra.
Eppure, a sparigliare le carte, a scardinare il semplicismo di alcuni ragionamenti, a compromettere la logica manichea dei buoni e dei cattivi, negli ultimi anni è stata la lotta alla mafia. La battaglia difficile, troppo spesso osteggiata, contro la borghesia mafiosa, gli assassini in cravatta, i corruttori in doppio petto, gli spacciatori col SUV. Mentre alcuni combattevano il berlusconismo per le sue ripercussioni economiche e sociali, altri lo attaccavano per i suoi legami con la criminalità organizzata, per il sistema di corruzione e clientele che lo alimentava, per il danno irreversibile che stava causando alla democrazia del Paese. Allo stesso modo il Governo Monti-Napolitano ha visto due opposizioni, solidali ma divise, sui temi sociali, sulla democrazia, sull’economia e sull’antimafia.
Queste battaglie, queste opposizioni hanno scaturito, entrambe, l’esigenza politica e sociale di costruire una presenza politico-elettorale alternativa al Governo Monti, al berlusconismo, a tutti coloro che hanno sostenuto, ieri e oggi, il sistema di potere che ha governato l’Italia negli ultimi anni.
Non è scontato però che rivendicazioni, storie, culture diverse, pur con nemici comuni possano e debbano incontrarsi. Cosa c’entra un magistrato con un occupante di un’Università? Cosa possono avere in comune un manifestante anti G8 e un uomo dello Stato che a Genova si è schierato con chi ha insabbiato la Costituzione repubblicana? Cosa può unire il sogno di un mondo senza sfruttamento con l’idea di rivoluzionare la giustizia in Italia?
La risposta univoca e assoluta a queste domande, dense di contraddizioni, non può esistere. Può tuttavia proporsi, nel dibattito politico italiano, nel solco della “rifondazione” comunista, nella discussione orizzontale sulla ricostruzione della sinistra, una nuova ambizione, un nuovo tentativo di sintesi. Un impegno arduo, certamente agevolato dalle leggi elettorali, che tuttavia può volgere la discussione politica su percorsi ben più interessanti e utili della semplice contesa sul posizionamento elettorale e sulle alleanze. Argomento certamente importante ma che ha inebetito l’intellettuale collettivo per troppi anni.
Non soltanto la sfida elettorale con Berlusconi, Monti e Bersani è obiettivo della candidatura di Ingroia e della lista della “Rivoluzione civile”, c’è dell’altro. C’è il tentativo, importante, di un’impresa costituente che crei una comune idea di società. Abbiamo imparato da un popolo rivoluzionario a “camminare domandando”, non possiamo essere noi a rifiutare questa sfida.
La coesistenza di due percorsi, finora distinti, all’interno di una proposta politico-elettorale unitaria richiede uno sforzo comune, una cessione di sovranità reciproca, una messa in discussione trasversale. Né l’arroganza di chi crede che alcuni siano inutili, né la pretesa di avere sempre e comunque l’unica formula per la liberazione.
La sfida attuale è mettere insieme legalità e giustizia sociale, lotta alla corruzione e lotta allo sfruttamento, riforma della giustizia e abolizione della precarietà. Scindere disobbedienza e illegalità, legalità e giustizialismo. Rendere compatibile la sacrosanta lotta per la dignità e i diritti nelle carceri, con l’esigenza di assicurare la reintegrazione sociale di chi delinque.
La “Rivoluzione civile” deve unire Peppino Impastato e Giovanni Falcone, chi è in trincea sul tetto di una fabbrica e dentro un palazzo di giustizia. Per questo Antonio Ingroia non basta, servono i soggetti che in questi anni hanno rappresentato un’alternativa allo stato di cose presente, gli eroi anonimi che hanno animato il conflitto sociale nelle città italiane, nei luoghi di studio e di lavoro. Servono le donne e gli uomini che non si sono arrese/i quando eliminavano diritti, licenziavano, perseguitavano e ghettizzavano.
Con Antonio Ingroia ci devono essere le lotte, i conflitti, l’idea di un mondo diverso. Altrimenti resta solo un magistrato, troppo simile a chi in questi anni ci ha represso, arrestato, criminalizzato. Sappiamo che può esserci una strada diversa, inclusiva e unitaria, l’abbiamo chiamata “Rivoluzione Civile”. Ora basta soltanto percorrerla. Senza lasciare niente e nessuno indietro.
MATTEO IANNITI
3 gennaio 2013