di Davide Nota
Forse ha ragione chi sostiene che questa sia una fase della storia in cui non è possibile fare una vera militanza di sinistra, in Europa, se non nelle forme dell’avanguardia culturale e della testimonianza di una irriducibilità della vita e del sogno contro lo spleen del dogma, dell’eternamente uguale, della nevrotica alternanza tra “peggio moderato” e “peggio estremo”. Testimonianza, sì, compito generoso di chi sa che le provviste serviranno per il domani, quando noi non ci saremo.
Certo, come scrive Don DeLillo “sono i desideri su vasta scala a fare la Storia”. Di fronte alla grande mareggiata i testimoni vengono spazzati via contro gli scogli o respinti sulle aride spiagge dell’esilio ininfluente. È ciò che Vendola definisce: “scalare la montagna, per cantare alla luna”. È vero? Sì, è vero.
“Ma è anche vero che la testimonianza individuale è la premessa logica e storica delle successive aggregazioni vincenti.” (Costanzo Preve).
Come si risolve questo paradosso, della necessità storica di una sinistra di lotta e di utopia che non saboti la necessità contingente di una squadra che vada al governo, anche in posizioni di compromesso, per difendere i diritti dei senza diritto e dei mai difesi?
È possibile scegliere l’una cosa e l’altra? Scalare la montagna e “volere la luna”, senza servire alla reazione tecnocratica?
E viceversa è possibile ricoprire incarichi governativi senza per questo dover sabotare l’importanza di una lotta che trascenda e che contesti, anche, i limiti tecnici che ogni azione governativa necessariamente implica?
O la contingenza burocratica deve per forza soffocare tutto il pensiero, coprendo ogni orizzonte di speranza?
Il nostro è un paese allucinatorio, dove le ali estreme che il potere vuole “silenziare” sono quelle che propongono l’ovvio, soluzioni di civiltà condivisa che dovrebbero essere date a priori, mentre “riformista” è chi chiede l’abrogazione delle riforme più avanzate del Novecento in termini di diritti sociali e sul lavoro, che sono sempre diritti individuali perché consentono al lavoratore di essere considerato un uomo e non un ruolo.
Dire che un individuo non vive per lavorare ma lavora per vivere, dire che se il lavoro non serve la libertà la democrazia non ha più senso ed è una finzione, dovrebbe essere ovvio.
Ma nello spleen d’Italia l’ovvio è una preoccupante minaccia bolscevica e si organizzano congiure per evitare che il Partito Democratico, cioè un partito liberale di centro con una componente di minoranza socialdemocratica, possa vincere le elezioni senza il cappio al collo del commissario tecnico, e cioè della destra europea.
Se pure è vero che questa è la norma di un Paese schiacciato da dieci anni di guerra civile e da trent’anni di mobbing televisivo, siamo sicuri che sia giusto ed utile assecondare questa torsione ideologica della realtà?
Negli ultimi cinque anni ho creduto molto, per sete di nuova militanza e per fede, anche, nei confronti di una promessa nata a vent’anni per le strade di Genova e di Firenze, a quel progetto di aggiornamento radicale dei linguaggi e delle filosofie di riferimento del marxismo europeo ai paradigmi del Duemila e della società liquida, e quindi alla proposta del Movimento per la Sinistra guidato da Nichi Vendola.
La complessità biografica dell’uomo incarnava simbolicamente il senso di una nuova storia, dove il conflitto tra contraddizioni lasciava posto alla stratificazione di diversità. Era il diritto poetico alla molteplicità, l’eresia di Pasolini che finalmente trovava voce pubblica e orgogliosa. Ne fui entusiasta.
Le strade dei Social forum di pochi anni prima pulsavano di questa nuova vita così come la realtà plurale della strada, la linfa vitale del vero quotidiano, comunicava questo punto di vista inedito di sincretismo tra le più importanti culture popolari del secolo da poco scorso: il cristianesimo, il socialismo e la rivendicazione libertaria del diritto individuale.
Una nuova visione avrebbe potuto servire una vasta unità? Gli ultimi, le immense moltitudini del margine, i noi-tutti abitanti di quest’unica e indistinta periferia sociale e esistenziale schiacciata dal capitale che muore, il mondo dei precari, il popolo delle partite iva, non stavamo aspettando solamente un cenno per guardarci negli occhi? Un codice condiviso per riconoscerci?
Poi accade lentamente questo, che il Movimento per la Sinistra diventa SEL e che SEL diventa una specie di brand in cui una dirigenza politica precostituita si organizza una campagna elettorale per entrare in parlamento come propaggine della corrente socialdemocratica del PD.
Qualcuno inizia anche a formulare ipotesi di unità in vista di un prossimo ingresso, auspicato e previsto, nel PSE.
Sia chiaro, questo potrebbe anche essere un bene, come è sempre bene che si rafforzino le posizioni più avanzate in termini di diritto sociale in qualsiasi partito e coalizione.
E un centrosinistra in cui al centro liberale bersaniano faccia da contrappeso una rafforzata corrente socialista e neo-keynesiana, in grado, anche per ragioni anagrafiche, di stabilire una più sincera connessione con il nuovo popolo degli irregolari e dei precari, è senza dubbio una prospettiva auspicabile per l’intero paese.
Ma questa funzione rappresenta tutta la realtà? Comprende davvero il movimento sottocutaneo dei disagi e delle necessità in atto? Lo rappresenta sinceramente?
Non serve essere uno scienziato o avere letto tutto Marx per capire l’Abc della struttura: le marginalità politiche e sociali, i corpi senza posto, i laureati disoccupati come i precari sotto scacco, tutti i nuovi ultimi schiacciati o non contemplati dalle misure di emergenza imposte dai grandi patrimoni, non possono avere lo stesso sguardo di chi si rivolge loro con fare caritatevole, dal centro della Polis, in ragionevole dialogo con banchieri progressisti e filantropi del capitale.
I loro occhi non vedono la stessa cosa. Definire decaduta la teoria delle “due sinistre” non ha alcun senso. Ciò implicherebbe l’idea che le fasce più deboli della società possano essere rappresentate da chi ha interessi contrapposti, che un senza-diritto possa sentirsi compagno di chi guadagna reddito sull’assenza del suo diritto. Ciò non soltanto è illogico ma è una pericolosa riedizione, spostata a sinistra, dell’incubo veltroniano.
Invece occorre fare chiarezza. Chi è tenuto a rappresentare i dolori e i desideri di riscatto degli abitanti del margine ha tutto il diritto, e forse anche il dovere, di ipotizzare un’alleanza con la borghesia progressista allo scopo di fare argine alla peggiore reazione populista e tecnocratica che egemonizza questa fine d’epoca.
Ma se i due sguardi possono e devono convergere su un obiettivo comune, che sia anche duraturo ed epocale, essi devono restare inevitabilmente distinti.
Si può cioè dare un’alleanza strategica senza neutralizzare il conflitto storico.
Lo stato della sinistra in Italia, dopo la mutazione genetica del progetto di Nichi Vendola, è tornata al suo grado zero. La lista Ingroia è un cartello elettorale dall’ambiguo collante giustizialista, dove i massimalisti di Rifondazione si sono alleati con i populisti dell’IDV senza un valido motivo né l’ombra di una prospettiva storica sensata.
SEL nel frattempo è diventata una corrente esterna del PD, fondata su un leaderismo mediatico incontrollabile e respingente, che rende perlopiù impraticabile la partecipazione.
Insomma, il difetto è ovunque.
Eppure, sia nella prima formazione che nella seconda agiscono alcune delle migliori intelligenze che possa oggi esprimere una nuova sinistra in Italia. E solo da questo ponte tra la Fed e SEL potrà nascere una sintesi completa, la sinistra che manca.
Faccio un nome: Simone Oggionni, segretario dei Giovani comunisti, tra le migliori promesse che saranno forse in grado, domani, di raccogliere la giusta intuizione posta da Vendola nel 2008 senza le manie messianiche e le giravolte leaderistiche che hanno fatto precipitare un progetto importante nella solita sceneggiata italiana del gioco mediatico tra le parti.
Un altro esempio fondante: il laboratorio partecipativo del comune di Grottammare, in grado di candidare dopo tre lustri di buon governo un eccellente intellettuale di trentott’anni, Enrico Piergallini.
Ci sarà qualcuno in grado di pacificare realmente le regioni balcanizzate della sinistra in Italia e di traghettarle verso una nuova formula di eurocomunismo democratico e libertario, umanistico e razionale, non movimentista ma neanche conformato alla menzogna ultraborghese della fine postmoderna della storia?
Saranno indetti, prima o poi, degli Stati generali della sinistra in grado di disegnare una visione plurale ma omogenea della società da fare e non solo una federazione di micro-visioni parziali e protestatarie?
Potrà darsi una famiglia politica in grado di rifondare una struttura di elaborazione collettiva del pensiero e non solo un macchinario autoreferenziale di marketing elettorale?
Per ora, di tutto ciò, continua a sentirsene solo la grave mancanza.
DAVIDE NOTA
da Gli Altri
4 febbraio 2013