di Frida Nacinovich :: intervista a Marco Revelli
Roma è ancora in piedi, professor Revelli. Non doveva esserci la calata degli Unni?
Credo che quelle di venerdì e sabato siano state due giornate veramente importanti, per diverse ragioni. La prima è che sono riuscite a far entrare in campo quella parte di Italia che la politica in generale, la politica ufficiale non quota alla propria Borsa. Quelli che nella sfera pubblica ufficiale – e dentro la sfera metto anche i quotidiani e le televisioni con le loro leggi – non fanno narrazione. Enri De Luca l’ha definito il piano basso della nostra società, quelli che abitano al pian terreno, al livello del suolo, invisibili a chi sta dentro Bisanzio, nel cerchio magico della politica politicante. E invece sono quelli la cui narrazione è più preziosa, perché raccontano un paese reale. Un bagno di realtà, che è l’esatto opposto del chiacchiericcio mediatico politico televisivo.
Radio, giornali e televisioni hanno annunciato la manifestazione del 19 ottobre come un mattinale della questura. Doveva essere la fine del mondo…
La seconda osservazione che vorrei fare, appunto, è che i manifestanti hanno rivelato la miseria della nostra informazione. Hanno riempito la piazza smentendo i profeti di sventura. Ed è un piccolo miracolo che in decine di migliaia abbiano scelto di scendere in piazza nonostante il clima di allarme, a cominciare dalla misura estrema dello spostamento della partita Roma-Napoli. Sono riusciti a cambiare un quadro che era già stato tratteggiato, a dimostrazione – ed è il terzo aspetto che mi preme sottolineare – che quando l’apparato pubblico della forza, la polizia, sceglie un atteggiamento che dovrebbe essere normale e cioè di non giocare allo scontro, di non fomentarlo, ma di contenerlo per le parti minoritarie che lo hanno cercato, le cose non degenerano. Sappiamo tutti che a Genova nel 2001, così come in altre giornate, non è stata scelta la stessa linea da parte dello Stato.
Decine e decine di migliaia di giovani, di migranti, di donne e di militanti dei movimenti sociali, di quelli ambientali, di pensionati: sabato in piazza c’era la prima linea su cui si è abbattuta la crisi.
Si è dimostrato che si può scendere in piazza da indignati senza avere come sfondo scene di devastazione. E bisogna anche dire che ci sono decine di migliaia di sofferenti che hanno tutte le ragioni per essere fortemente arrabbiati. Eppure hanno dato prova di straordinaria educazione, anche nella tendopoli di Porta Pia. Lo ripeto, avrebbero mille ragioni per essere furibondi ma si sono contenuti in forme di protesta civile e tollerante.
Gli annunci di scontri, devastazioni e tafferugli avrebbero potuto scoraggiare la partecipazione. Invece non è successo.
Metterei questo ragionamento all’interno del secondo punto della nostra chiacchierata, cioè nella malattia del sistema mediatico-politico, che poi funziona come un circuito integrato. Faccio una quarta osservazione: le due giornate di venerdì e sabato offrono una geografia dell’Italia dolente, quella che paga i maggiori prezzi alla crisi. E vedendo i numeri delle vittime della crisi, uno si potrebbe aspettare milioni di persone in piazza, non decine di migliaia.
Perché la protesta in piazza viene espressa solo da una minoranza, quando sono milioni le persone sempre più in stato di disagio?
Il rapporto della Coldiretti parla di quattro milioni e mezzo di persone che non possono procurarsi cibo e devono ricorrere ad aiuti alimentari. Mentre il 41% delle famiglie censite dall’Istat non potrebbe sopportare un aumento di spesa di 670 euro l’anno. Il 41% significa più di venti milioni di persone. Per non parlare dei migranti, dei territori massacrati dalla furia del fare di chi ha prodotto la crisi, penso alla Val di Susa, ai No Dal Molin, ai No Muos, esclusi, umiliati da una politica che non li ascolta. Il presidente Napolitano si è addirittura rifiutato di ricevere i sindaci della val di Susa con la fascia tricolore al petto che avevano chiesto di parlare con lui. La risposta è semplice, anche se deprimente. Una parte consistente delle vittime della crisi, così come titola il libro che ha vinto il premio Strega, è convinta che resistere non serva a niente. E non perché sono dei disfattisti, ma perché hanno sbattuto il naso su un muro di gomma che è poi diventato muro di pietra. Le proteste ci sono state ma non hanno trovato orecchie disposte ad ascoltarle. Si fa spazio la triste consapevolezza di essere incardinati dentro un sistema europeo, di aver di fronte un potere continentale per non dire globale che gli strumenti tradizionali della rappresentanza del conflitto sociale non riescono a intaccare.
Insisto: qual è la sua chiave di lettura rispetto a quello che abbiamo visto sia sabato scorso che il sabato precedente a Roma? Perché manifestano solo le avanguardie?
Occorrerebbe una straordinaria creatività politica e organizzativa. Cosa che al livello di territorio già avviene. Penso all’esperienza della val di Susa, alla resistenza di un’intera popolazione. L’esperienza di territorio non manca, ma c’è anche un’estrema difficoltà – come si sarebbe detto una volta – a fare sintesi, per riuscire a intaccare i meccanismi del potere più lontani e più astratti. Fino alla fine anni ‘70 bastava che a Mirafiori bloccassero le linee di montaggio per fare cadere i governi. Oggi i governi non cadono neppure se blocchi gli aeroporti.
E infatti il governo non sembra aver nessuna intenzione di ascoltare le proteste che arrivano dalla Val di Susa.
Per fortuna tutto il paese sa che quella valle è occupata ma non conquistata.
Cosa resterà di questa due giorni romana? Che fare adesso?
Due giornate che avranno un seguito anche sul terreno concreto della riflessione su quanto resta da fare per superare l’impasse dei movimenti. Ci sono state l’esperienza degli Indignados, di Occupy wall street, il movimento altermondialista. Eppure sembra di essere stretti in una tenaglia. Chi si muove all’interno della politica istituzionale, si corrompe alla velocità della luce, viene incorporato in quella commedia dell’arte. Chi sta fuori da Bisanzio rischia invece l’invisibilità e l’inefficacia, di salva se stesso e la propria identità, di conserva la carica antagonista, senza però riuscire a trovare un perno che sia leva di modificazioni significative.
Insomma, il problema è sempre il solito: come fare per essere ascoltati?
Credo che un terreno di sutura di questi due livelli sia stato quello della Costituzione. Penso alla manifestazione dello scorso 12 ottobre. Il radicalismo costituzionale è terreno sul quale in termini reali resistenza sociale e iniziativa politica si incontrano. Devo però dire che siamo rimasti a metà del guado. Le manifestazioni del 12 e del 19 più che una successione indicano due emisferi ancora separati di iniziativa culturale e resistenza sociale. Restano due piazze anche generazionalmente molto diverse. Il 12 l’età media dei manifestanti era quasi l’età della Costituzione. La piazza del 19 era quella del mondo giovane, della rivolta sociale. Bisogna trovare il modo di saldarle queste cose. Lo dico come constatazione di buon senso: se il radicalismo costituzionale si convincesse di non aver bisogno dei giovani o peggio ne avesse paura, oppure se la rivolta giovanile non sentisse il bisogno della Costituzione si sarebbe fatta una frittata storica. Spero si ragioni in questi termini. Ci saranno le elezioni europee, il terreno elettorale non è mai stato favorevole ai movimenti, ma forse è un terreno dal quale non ci si può astrarre, l’elezione di un fronte transnazionale alternativo potrebbe essere una bella occasione.
FRIDA NACINOVICH