Alla fine degli ani ’70 del secolo scorso arrivò al potere negli Usa un modesto attore di film western che divenne lo strumento con cui la grande finanza e le imprese multinazionali riuscirono in pochi anni a creare un altro modello economico: la Reaganomics. Non era un modello originale, ma l’estremizzazione di categorie rimaste confinate nel dibattito accademico. Negli anni ’70, infatti, scricchiolava e perdeva prestigio l’economia neokeynesiana per gli effetti della stagflazione, una crescita significativa dell’inflazione accompagnata a bassa crescita o stagnazione, unitamente ad un alto livello di disoccupazione.
Questo fenomeno metteva in difficoltà gli economisti: un tasso sostenuto di inflazione si era storicamente accompagnato alla crescita economica (eccetto i casi di iperinflazione) , allo stesso modo in cui la stagnazione economica era storicamente correlata ad una caduta dei prezzi. In sostanza, il mercato capitalistico non rispondeva più alle leggi della domanda e dell’offerta, per cui in presenza di un alto tasso di disoccupazione e crescita zero si doveva assistere ad un abbassamento del livello salariale, tale da permettere al sistema economico di riprendersi e riassorbire, nel medio-lungo periodo, una parte rilevante dei disoccupati.
Keynes negli anni ’30 aveva spiegato bene che i salari hanno una rigidità verso il basso dovuto a quella che lui definiva “l’illusione monetaria”, determinata per altro dalla presenza di forti organizzazioni sindacali. E proprio queste negli anni ’70 avevano determinato in tutto l’Occidente ondate di lotte sociali, dentro e fuori le fabbriche, che avevano portato a netti miglioramenti nel tenore di vita dei lavoratori.
Il sistema aveva retto finché non si era arrivati ad un alto livello di sovrapproduzione alla fine degli anni ’70. Ed è questo il momento in cui entra in scena Ronald Reagan che sposa la politica economica della scuola di Chicago di Milton Friedman, che individuava nell’eccesso di spesa sociale, di fisco punitivo per i redditi alti, di mercato del lavoro “rigido”, le cause della crisi. La terapia, pertanto, consisteva nel ridurre drasticamente le aliquote per i profitti ed i redditi alti, liberalizzare i movimenti di capitali, in un quadro di decentramento produttivo che portò in un decennio ad uno spostamento dell’industria manifatturiera statunitense fuori dal paese, indebolendo il momento sindacale ed il potere contrattuale dei lavoratori.
Se osserviamo la distribuzione del reddito negli Usa nel periodo 1950/1978 , divisa per quintili, vediamo che il quinto più povero della popolazione aveva aumentato il reddito reale del 140%, il quinto più ricco del 99%. Di contro nel periodo 1978-1993, con l’avvento della Reaganomics, il quinto più povero perde il 19% mentre il quinto più ricco guadagna il 18% in termini reali. Il cambiamento di rotta era stato netto. Per l’Italia questa inversione di tendenza arriva all’inizio degli anni ’90, con la crisi del ’92, la svalutazione del 30% della lira e l’indebolimento del movimento dei lavoratori.
E’ in questo contesto che bisogna inquadrare l’arrivo di Berlusconi al potere. Lui era un parvenu, che aveva fatto una grande fortuna in pochi anni grazie ai legami con il potere politico (Craxi) e le negoziazioni con le organizzazioni criminali (mafia siciliana). Era un nuovo tipo di borghese, che assomigliava tanto a quella “classe agiata” analizzata da Veblen, ignorante ed ingorda, ambiziosa e arrivista senza scrupoli morali, degli States alla fine del XIX secolo. Ed anche un nuovo tipo di imprenditore che aveva fatto la sua fortuna, non nella tradizionale industria manifatturiera, ma con i nuovi mezzi di comunicazione (la tv privata) dove economia, spettacolo ed ideologia, si intrecciano. La vecchia borghesia italiana, le grandi famiglie degli Agnelli, Pirelli, Costa, ecc., il salotto “buono” di Cuccia, all’inizio lo sottovalutarono o lo snobbarono, ma in pochi anni dovettero venire a patti con il nuovo padrone.
Berlusconi portava avanti con la sua forza comunicativa e con i potenti mezzi di cui disponeva un nuovo credo: il denaro crea l’onore e la stima sociale, indipendentemente da come si è arrivati a possederlo. Non bisogna più vergognarsi di essere ricchi, anzi bisogna sfoggiare la ricchezza, e la ricchezza individuale è alla portata di tutti quelli che sono capaci “i vincenti”, e fa bene a tutto il paese perché genera nuovi consumi e posti di lavoro. In questa visione della realtà sociale, lo Stato diventa un parassita che va drasticamente ridotto, ma allo stesso tempo è la fonte di extraprofitti, che solo la mano pubblica può offrire. Questa nuova ideologia offriva una legittimazione politica a quel sentimento antistatale così diffuso nel nostro paese, unitamente al bisogno di trovare quel salvatore della patria, l’uomo della Provvidenza, che gli italiani continuano a sognare ciclicamente. Da qui la corsa verso un aumento del debito pubblico, unico strumento che permetteva contemporaneamente una grande evasione dei ceti medio-alti e un po’ di assistenza per mantenere il consenso, nonché il finanziamento delle Grandi Opere per garantire il cerchio magico dei Grandi Affari.
Il Cavaliere non ha abbassato le imposte, come aveva fatto Reagan per il ceto medio-alto, non ha smantellato bruscamente lo Sato sociale, come avevano fatto la coppia Tacher-Reagan, ma è riuscito a ridurre progressivamente lo Stato sociale ed i diritti, all’interno di un quadro di illegalità diffusa e capillare. Qui sta la profonda differenza con la Reaganomics, la versione berlusconiana del neoliberismo che si sposa con la via criminale al capitalismo. Negli States e nell’Inghilterra, l’ideologia neoliberista è passata attraverso le leggi e l’imposizione/repressione di uno Stato forte, la via italiana al neoliberismo è transitata dolcemente attraverso regole non scritte, uno smantellamento progressivo dello Stato di diritto, un’autostrada che è stata offerta alla borghesia criminale emergente.
La Berlusconomics è così diventata un modello sociale in cui il denaro si legittima da sé, la corruzione è la norma per fare affari, l’evasione fiscale un dovere per sottrarsi al furto di risorse da parte di uno Stato rapinatore e sciupone. E se dopo vent’anni, decine di scandali e frodi i sondaggi lo danno ancora come uno dei leader più forti è perché una parte degli italiani, che oserei stimare in oltre un terzo, condivide, pratica ed ha interiorizzato quel modello. Chi conosce dal di dentro il mondo delle imprese sa che sono rarissime le gare d’appalto che si vincono per meriti, senza pagare una “tangente” o aver negoziato uno scambio di favori. Chi conosce il mondo della piccola impresa sa quanto è diffuso il lavoro nero perché in questo paese la gran parte degli ispettori del lavoro sono corrotti o indulgenti. Chi conosce il mondo dei professionisti- avvocati, commercialisti, consulenti finanziari- sa come il loro reddito dipende in buona parte dalla capacità di aggirare le norme, di evadere le tasse, esportare i capitali nei paradisi fiscali.
C’è anche un rovescio della medaglia. Per chi vuole vivere nella legalità, il carico fiscale, soprattutto sulla piccola e media impresa, è diventato insopportabile. Nelle microimprese, artigianali o commerciali, se si rispettassero tutte le norme la gran parte potrebbe chiudere i battenti. Per chi subisce un torto e spera nella giustizia civile rischia di fallire prima che si concluda un processo. Per chi commette un reato penale, se non è amico della Cancellieri, rischia di restare in attesa di giudizio per anni.
Questo sfascio istituzionalizzato non ha fatto altro che far crescere la massa di coloro che si sono identificati, per rabbia o per necessità, nella Berlusconomics. Il sistema si è autoalimentato finché non è scoppiata la crisi finanziaria che si è riverberata sull’economia reale, ed il modello è andato in tilt. Ma, la Berlusconomics ha messo ormai radici profonde nel nostro paese e sarà difficile sradicarle nel medio periodo.
Il rischio è che chi verrà dopo di lui, faccia quello che hanno fatto Clinton o Blair: mantenere sostanzialmente il modello, spuntando solo le parti più indigeste. Il nostro Clinton è giovane e belloccio come Bill quando arrivò al potere, e come lui un buon comunicatore a trecentosessanta gradi, per piacere a tutti. Clinton non è riuscito a fare la riforma sanitaria e un fisco progressivo- come aveva promesso in campagna elettorale- ma ci ha regalato nel 1994 la liberazione della finanza, abrogando i vincoli creati da Roosevelt per impedire che si ripetesse il crac del ’29. Da meno di 100 miliardi di derivati finanziari del 1994 si è passati ai 600.000 miliardi di dollari del 2007, ed ai 650mila di oggi. Vediamo cosa sarà capace di fare il nostro Fonzie e gli amici finanzieri che lo sostengono.