L’EX CARCERIERE DI MANDELA RACCONTA…

di Franco Fracassi

«Incontrai Mandela il primo giorno di lavoro. Mi sentivo strano. Quello era il capo dei criminali e dei terroristi che mi avevano descritto durante l’addestramento. Ricordo che la guardia si rivolse a Mandela con disprezzo. Ma lui rispose: “Buongiorno, benvenuto a Robben Island”. A questo punto mi uscì dalla bocca una risposta insolita: “Buongiorno, io ti vedo”. Era la frase che avevo imparato da bambino, crescendo con gli zulu. Un saluto di amicizia».

È così che mi James Gregory mi raccontò il suo primo incontro con Nelson Mandela. Era il 1967, e il giovane ufficiale della polizia sudafricana Gregory era appena stato trasferito nell’isola prigione di Robben Island, a largo di Città del Capo. Una sorta di Alcatraz dell’apartheid. Gregory da allora, fino alla liberazione nel 1990, sarebbe stata la guardia personale di Mandela. Dopo la liberazione Gregory e Mandela rimasero grandi amici. Mandela pagò le spese universitarie ai due figli del poliziotto, Gregory votò per lui alle elezioni. Gregory è morto nel 2003.

Chi vi scrive ha incontrato Gregory più volte nella sua casa di Città del Capo. Una persona sempre gentile e di grande intelligenza. Una persona che, grazie allo studio e alla riflessione, aveva abbandonato la fede razzista, per divenire campione del multiculturalismo. La vicenda di Mandela e del suo carceriere è stata anche raccontata in un film (“I colori della libertà”). Gregory, probabilmente, è stato il più intenso e affascinante raccontatore dell’uomo Mandela.

Mandela come si comportava con lei?
«Non mi disse neppure una volta che avevo torto, o che i miei preconcetti erano sbagliati. Analizzava, invece, le vicende che avevano portato a formarmi quei pregiudizi».

Parlavate di politica?
«Sì. Io sostenevo sempre il punto di vista bianco. Quasi tutti i fine settimana, quando ero di turno, parlavamo. La discussione verteva sempre su un tema centrale: la nostra diversa interpretazione della storia. Così a un certo punto decisi che mi dovevo documentare. E presi ad andare nella biblioteca di Città del Capo quando avevo il giorno libero. Più leggevo e più ero affascinato e sconcertato. Cominciai a interessarmi al passato dell’African National Congress. E piano piano cominciai a realizzare che quello che Mandela mi stava dicendo era la verità. Questo cambiò radicalmente il mio atteggiamento nei suoi confronti».

«Mi sentivo un turista curioso in un Paese strano e interessante», ha ricordato Nelson Mandela a proposito di quanto accade nel 1988. Lo sapevate che Mandela iniziò a girare clandestinamente per il Sudafrica due anni prima di essere ufficialmente liberato? È accaduto davvero. È successo perché il governo sudafricano si era reso conto che il regime doveva trasformarsi in una democrazia e l’apartheid doveva cessare di esistere. Le sanzioni internazionali stavano facendo implodere il Paese. E così si decise di avviare colloqui segreti con Mandela e di permettere al leader nero di riabituarsi alla vita da uomo libero e a ricominciare a conoscere il suo Paese, che aveva abbandonato venticinque anni prima, quando venne sbattuto in carcere. L’uomo a cui venne affidata la responsabilità di questa transizione fu James Gregory, il carceriere di Mandela (e, curiosamente, suo grande amico). Chi vi scrive ha incontrato Gregory più volte prima che morisse (nel 2003). Ecco il suo racconto.

«Stavamo passeggiando sulla spiaggia, quando Nelson mi disse che doveva fare pipì. Mentre stava facendo il suo bisogno vidi un gruppo di turisti tedeschi che si dirigevano verso di noi, con delle macchine fotografiche a tracolla. I turisti ci raggiunsero e cominciarono a scattare foto del mare, delle barche da pesca, degli scogli e praticamente di tutto ciò che c’era da vedere. Ma ignorarono noi due. Mi gira verso Nelson e dissi: “Se solo questa gente sapesse chi sei.”. Nelson sogghignò: “Non sanno proprio che hanno perso lo scoop del secolo”. Alcune volte ci fermavamo nei bar a prendere dei the. A volte tentavo di capire se la gente lo riconosceva. Ma mi pareva di no. La sua ultima fotografia pubblicata risaliva al 1962».

Ha scritto Mandela nella sue memorie: «Ai primi di dicembre del 1988 dovetti preparare i bagagli in gran fretta perché dovevamo partire. Mi trasferirono in un carcere che conoscevo di nome, il Victor Verster. Situato nella bella e antica cittadina olandese di Paarl. Il Victor Verster si trova a una cinquantina di chilometri a nord-est di Città del Capo».

Mandela passò in quella villa isolata all’interno del carcere gli ultimi due anni di prigionia. Il regime dell’apartheid era ormai in agonia.

Nelson Mandela e sua moglie Winnie esultano con il pugno alzato tenendosi per mano. La foto è entrata nella storia. È l’immagine che ha segnato la fine dell’apartheid. È l’immagine che ha dato speranza a centinaia di milioni di africani. È l’immagine che ha fatto pensare a tanti che un nuovo mondo è possibile. Era l’11 febbraio 1990. L’uomo che sarebbe diventato Presidente del Sudafrica democratica e, prima ancora, premio Nobel per la Pace, tornava libero dopo ventisette anni di prigionia.

La foto che vi abbiamo appena descritto è stata presa dal punto di vista dei giornalisti, degli spettatori di tutto il mondo. Ma c’è stato anche un altro punto di vista. Il punto di vista di chi quella mattina si trovava alle spalle dei coniugi Mandela. Il punto di vista di chi aveva passato gran parte di quei ventisette anni al fianco del leader dell’Anc, seppur come suo controllore e carceriere. Chi vi scrive ha incontrato quest’uomo più volte prima che morisse (nel 2003). James Gregory è stato prima nemico, poi interessato ascoltatore e, infine, grande amico di Mandela. Questo è il suo racconto di quel giorno. Questo è il suo punto di vista.

Racconta Gregory: «Mi venne comunicato che Nelson Mandela sarebbe stato scarcerato alle 10 in punto di domenica 11 febbraio. “Né cinque minuti prima, né cinque minuti dopo”. Mi dissero: “Alle 10 dovrà uscire dalla prigione come un uomo libero. Non ci devono essere intoppi. La stampa internazionale sarà tutta presente. Gli occhi del mondo saranno su di noi».

«Tutto filò liscio fino a quasi le 10. Quando Nelson mi disse: “Signor Gregory, spero che si ricorderà che non lascerò questa casa e questa prigione senza Winnie.”. Sua moglie, che doveva già essere arrivata, era scomparsa. Si venne a sapere solo qualche ora dopo che aveva perso l’aereo a Johannesburg. Il problema venne risolto facendola viaggiare su un jet dell’aviazione militare».

«Intanto si erano fatte le 3 del pomeriggio. Una folla immensa aspettava davanti ai cancelli della prigione, e il governo era fuori di sé. Presidente De Klerk compreso».

La liberazione venne allora fissata per le 4. Gregory ricorda con commozione: «Mentre uscivo dalla villetta, Nelson mi chiamò e mi porse una busta. Conteneva un cartoncino, su cui era scritto: “Le meravigliose ore che abbiamo passato insieme negli ultimi vent’anni terminano oggi. Ma tu sarai sempre nei miei pensieri. Intanto, porgo a te e alla sua famiglia il mio affettuoso saluto e i miei migliori auguri”. Senza una parola mi strinse la mano, e disse. “Questo è un addio”. “Sì. Addio e buona fortuna”, risposi con la gola secca. Mi guardò dritto negli occhi e vidi nei suoi le lacrime. Lasciò andare la mia mano, mi prese per le spalle e mi abbracciò. Poi mi disse: “No. Questo non è un addio. Ci rivedremo ancora”».

«Salii sulla prima vettura. Nelson, Winnie e i membri della sua famiglia presero posto sulle altre. Sbattevo le palpebre per scacciare le lacrime. E non mi importava che le altre guardie mi vedessero. Svoltammo a sinistra per gli ultimi cento metri, prima della libertà. Fermai la macchina sul bordo della strada e scesi. Dovevo fermarmi. Avevo gli occhi pieni di lacrime e non vedevo più dove andavo. Seguii con lo sguardo l’auto di Mandela che si allontanava lentamente. Il suo viso era vicino al finestrino e sorrideva. Gli rivolsi il saluto dell’Anc, con il pugno chiuso. Annuì, e mi restituì il saluto».

FRANCO FRACASSI

da Popoff.globalist.it

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