di Wu Ming
[Un montaggio di cose scritte (non solo da noi WM) in diversi post e interviste, utile a riprendere e mostrare il filo della questione. Prendetelo come il nostro contributo alla fine della campagna elettorale più brutta e angosciante dal 1946 a oggi. I link alle fonti sono nei “cancelletti”.]
# Le categorie di «destra» e «sinistra», nate durante la Rivoluzione francese, furono date per morte già sotto il Direttorio, nel periodo 1795-1799. Non si contano le volte in cui si è detto che i due concetti erano superati, eppure, nonostante queste litanie, si sono sempre riaffermati come polarità dei discorsi e del pensiero politico. Con maggior foga li si nega e rimuove, con maggiore violenza ritornano. Tra i movimenti che si sono dichiarati «né di destra, né di sinistra» non ce n’è uno che non si sia rivelato di destra o di sinistra (più spesso di destra, va detto). In Italia, il penultimo è stato la Lega.
La divisione destra-sinistra ha basi cognitive profonde, se ne occupano anche le neuroscienze. Al fondo, «destra» e «sinistra» sono i nomi convenzionali di due mentalità, due diversi modi di leggere il conflitto sociale. Descrivendoli, automaticamente si iniziano a dare le “coordinate” su cosa dovrebbe tornare a pensare la sinistra.
Tagliando con l’accetta, «di sinistra» è chi pensa che la società sia costitutivamente divisa, perché al suo interno giocano sempre interessi contrapposti, prodotti da contraddizioni intrinseche. Ci sono i ricchi e i poveri, gli sfruttatori e gli sfruttati, gli uomini e le donne. Da questa premessa generale, che vale per tutta la sinistra, discendono tante visioni macrostrategiche, anche molto lontane tra loro: socialdemocratica, comunista, anarchica, ma tutte si basano sulla convinzione che la società sia in partenza divisa e diseguale e che le cause della diseguaglianza siano profonde e, soprattutto, endogene.
«Di destra», invece, è chi pensa che la nazione sarebbe – e un tempo era – unita, armoniosa, concorde, e se non lo è (più) la colpa è di forze estranee, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati e, se possibile, espulsi, così la comunità tornerà unita. Tutte le destre partono da questa premessa, che può essere ritrovata a monte di discorsi e movimenti in apparenza molto diversi, da Breivik al Tea Party, dalla Lega Nord ai Tory inglesi, da Casapound agli «anarcocapitalisti» alla Ayn Rand. Per capire se un movimento è di destra o di sinistra, basta vedere come descrive la provenienza dei nemici. Invariabilmente, i nemici vengono «da fuori», o almeno vengono da fuori le idee dei nemici.
A seconda dei momenti e delle fasi storiche, ce la si prende col musulmano o con l’ebreo, con il negro o con lo slavo, con lo zingaro o col comunista che «tifa» per potenze straniere, con i liberal di una «East Coast» americana più mitica che reale, con Obama che «in realtà è nato in Kenya e quindi la sua presidenza è illegale» etc. Rientrano in questo schema anche la «Casta» descritta come altro rispetto al popolo che l’ha votata ed eletta, «Roma ladrona», la finanza ridotta alle manovre di «speculatori stranieri», «l’Europa»…
Non c’è dubbio che nell’Italia di oggi il discorso egemone, anche tra persone che si pensano e dichiarano di sinistra, sia quello di destra. Che attecchisce facilmente, perché è più semplicistico e consolatorio, e asseconda la spinta a pensare con le viscere. Per questo molte persone con un background di sinistra si precipiteranno a frotte alle urne per votare un movimento che non abbiamo remore a definire fondamentalmente di destra, cioè il grillismo. D’altronde, la colpa di questo è delle sinistre, che fanno di tutto per risultare invotabili.
# Ogni essere umano dotato dell’uso del linguaggio si esprime attraverso «frame», cioè quadri di riferimento, insiemi di immagini e relazioni tra concetti che strutturano il nostro pensiero, alcuni sin dalla primissima infanzia […] Nella comunicazione politica non c’è parola o frase che non inquadri un dato problema secondo la prospettiva ideologica di chi la usa. Ogni vocabolo porta con sé un mondo. Per esempio, imporre l’uso di «centrodestra» e «centrosinistra» al posto di «destra» e «sinistra» è stata un’operazione di framing che ha avuto conseguenze devastanti: a destra l’eufemismo è servito a legittimare soggetti lercissimi e fascisti nemmeno ripuliti; a sinistra ha imposto la credenza nella necessità di «spostarsi al centro» altrimenti… «non si vince». Solo che, nella realtà concreta, il «centro» non esiste. Chi si dice «di centro» è in realtà di destra e fa cose di destra, vedi Casini, Monti, Montezemolo, adesso addirittura il postfascista Fini… E poi: chi «vince»? Per fare cosa? «Spostandosi al centro» non si fa altro che andare a destra (in cerca dei fantomatici «moderati”) e di certo non si faranno politiche di sinistra.
Un altro esempio è il discorso sulla «sicurezza»: se, come accade ogni giorno, un politico usa nella stessa frase le parole «sicurezza» e «immigrazione», sta evocando nella mente di chi ascolta una comunità omogenea minacciata da una differenza proveniente dall’esterno, e questo è il quintessenziale framing di tutte le destre, in primis di quella fascista.
# Basta guardare contro chi si sono scagliati quelli che si sono riempiti la bocca e ci hanno riempito le teste di narrazioni tossiche sul «libero mercato», dalla Thatcher a Reagan e tutti i repubblicani USA, fino ai Tea Party etc.
Oggi tutto andrebbe per il meglio se il mercato fosse stato lasciato al suo andamento naturale, e vivremmo in una comunità sana, giustamente basata sulla competizione che premia i migliori, e una società che premia i migliori fa il bene di tutti quanti.
Un tempo era così, quando c’erano i «pionieri», poi però c’è stata una frattura: la sinistra e le minoranze, i liberal statalisti e i «rossi» nutriti di false idee provenienti da fuori, hanno turbato quest’equilibrio con rivendicazioni che hanno turbato il funzionamento del mercato, aiutando gli autoproclamati «deboli», espandendo il ruolo dello stato in settori dai quali dovrebbe stare fuori, negoziando il costo del lavoro secondo criteri che ledevano gli interessi degli imprenditori (che sono gli «eroi» della storiella).
Questo è il frame di tutta la controrivoluzione capitalista iniziata all’inizio degli anni Ottanta. Anche qui c’è un’armonia turbata da forze «esterne», a conferma che questa narrazione è intrinsecamente di destra e una «sinistra liberista» non può esistere.
Se ci fai caso, nella propaganda dei repubblicani USA, dei Tea Party etc., il nemico è sempre riferito a un «altrove»: New York, la East Coast, l’Europa, il Canada, e ovviamente gli stati-canaglia. Quando, prima della visita in Cina, chiesero a Nixon se fosse mai stato in un paese socialista, rispose: «Sì, in Massachusetts». Per un repubblicano, all’epoca, il New England era l’altrove.
Non esiste un nemico «interno», cioè generato dalle contraddizioni interne del sistema; se è «all’interno», è perché si è insinuato tra noi.
Il frame viene attivato continuamente in politica estera: ci siamo «noi» (l’occidente, le democrazie basate sul libero mercato) e ci sono i nemici di turno («l’impero del male» dell’URSS e dei suoi satelliti, le guerriglie che agitano il «cortile di casa» latinoamericano, il terrorismo che minaccia i nostri valori etc.). Quella dello «scontro di civiltà» è la massima espressione del frame della «comunità armoniosa che si difende».
# I liberisti ci hanno insegnato a ritenere il fascismo una destra completamente diversa dalla loro, addirittura in odore di sinistra in quanto presuntamente antiliberista e statalista.
Dietro questo punto di vista, che è molto diffuso, c’è una buona dose di mistificazione. Usando la lente della «comunità armoniosa che viene disturbata dall’intruso» vediamo come il fascismo abbia sempre usato anche la versione liberista di questo frame. Il fascismo delle origini, e cioè lo squadrismo, giustificava sé stesso proprio come difesa armata della «mano invisibile» e dell’armonia tra le classi sociali. L’olio di ricino e le uccisioni dei «sovversivi» ripristinavano la libertà d’impresa, la libertà di commercio e il funzionamento «normale» dell’economia capitalistica. Per esempio è famoso questo poster propagandistico fascista:
Il fascismo toglie i grilli dalle teste dei lavoratori e rimette gli sfruttati al loro posto. *Mettiamoci* di buona lena e *fatevi* il culo.
Alla presa del potere, Mussolini dichiarò: «Il governo fascista accorderà piena libertà all’impresa privata ed abbandonerà ogni intervento nell’economia privata». Per anni i fascisti (saliti al potere in coalizione coi liberali, non sarà un caso) condussero una politica economica liberista e solo in una fase successiva cominciarono ad applicare misure keynesiane ante litteram. Nei primi anni di governo, ci furono privatizzazioni (venne privatizzata addirittura la zecca, chissà cosa ne pensano i signoraggisti!), una politica monetaria restrittiva, un allentamento del carico fiscale (in particolare della tassazione progressiva).
Quando questo non rispondeva più alle necessità economiche del grande capitale industriale, in particolare cioè attorno alla crisi del ’29, si è passati ad una politica economica diversa, e si è adeguata la fraseologia propagandistica al culto dello Stato, alla lotta contro l’individualismo borghese e tutte quelle manfrine con cui ancora ci fracassano le palle i neofascisti. Anche i neofascisti, tuttavia, qualche volta si levano la maschera e parlano da liberisti. Per esempio, Forza Nuova a Genova aveva come primo punto del suo programma politico la lotta contro la Compagnia Unica dei camalli che secondo loro strangola la città impedendo la libertà d’impresa nel porto. CasaPound ha preso posizione sull’ILVA di Taranto (facendo scrivere un dossier alla nostra vecchia conoscenza, l’«Ing.» Di Stefano) prendendosela con gli ambientalisti che in combutta con oscuri potentati europei vogliono soffocare la siderurgia italiana.
Alla fine della fiera liberismo e fascismo hanno lo stesso eroe-simbolo: il crumiro.
# Il più grave problema di questo Paese, storicamente, è l’ignavia della piccola borghesia, che è la più becera d’Europa e oscilla perennemente tra l’indifferenza a tutto e la disponibilità a qualunque avventura autoritaria. Avventura «vicaria», naturalmente, vissuta per interposto Duce che sbraita. Giusto un brivido ogni tanto, per interrompere il tran tran, godersi l’endorfina e tornare al proprio posto.
Finché non sente il dolore, l’italico cetomediume rimane apatico. Quando inizia a sentirlo, non sa dire cosa gli sia successo, blatera incoerentemente, dà la colpa ai primi falsi nemici che gli vengono agitati davanti (a scelta: i migranti, gli zingari, i comunisti, quelli che scioperano, gli ebrei…) e cerca un Uomo Forte che li combatta.
In Italia come in poche altre nazioni, non c’è nulla di più facile che spingere l’impoverito a odiare il povero.
# L’alleanza storica e, per così dire, «naturale» dovrebbe essere tra impoveriti e poveri, proletarizzati e proletari. Ogni volta che i poteri costituiti riescono a scongiurare quest’alleanza, giocando sul fatto che il ceto medio retrocesso ha ancora i valori e disvalori di prima e si crede ancora appartenente alla classe di prima, ci perdiamo tutti quanti. Il punto è che in Italia questo giochetto dopo la prima guerra mondiale ha portato al fascismo, che era una falsa rivoluzione confezionata a uso e consumo dei ceti medi, che ha avuto carta bianca dai padroni e ha prodotto morte e distruzione. Da allora, di «false rivoluzioni a uso e consumo dei ceti medi» per impedire che la loro proletarizzazione avesse un esito indesiderato ne abbiamo viste altre, e forse una la stiamo vedendo anche adesso.
# In questo periodo sto leggendo un po’ di testi storiografici che evidenziano come la piccola borghesia del primo dopoguerra abbia costituito la «base di massa» del movimento fascista. Ci sono delle analogie abbastanza preoccupanti con la situazione odierna. Per esempio: Gaetano Salvemini, nel capitolo 10 del suo Le origini del fascismo in Italia, parla del «vivo sentimento di invidia e di odio per le classi lavoratrici» che si andò diffondendo nel ceto medio nel periodo 1919-20; sentimento che venne sapientemente alimentato e utilizzato per i propri fini dalle forze reazionarie.
Dal testo di Salvemini riporto la seguente citazione, che Salvemini riprende da un articolo del «Corriere della Sera» dell’8 aprile 1919:
«Oggi sono molti gli ingegneri professionisti od anche dirigenti di officine, moltissimi i professionisti, i funzionari pubblici, gli alti magistrati, presidenti di tribunali e di corti, professori ordinari di università, consiglieri di stato, i quali non sanno credere ai loro occhi. Vedono dei capi tecnici chiedere paghe, le quali (…) sono di 1000, 1250, 1625 e 2000 lire il mese (…). Che cosa dovremmo chiedere noi, si domandano tutti quegli alti magistrati, quei professori universitari, i quali hanno passato nello studio i più begli anni della vita per giungere sì e no verso i 35-40 anni a 600 lire di stipendio al mese ed i più anziani alle 1000 lire? La mortificazione nei ceti intellettuali è generale. I padri di famiglia si domandano se essi non hanno torto di far seguire ai loro figli corsi di studio lunghi 12 o 14 anni, dopo le scuole elementari; e se non sarebbe meglio di mandarli senz’altro in una officina.»
Va da sé che le cifre del Corsera non sono per nulla affidabili, e che (anche in quegli anni in cui gli operai cercavano, mediante gli scioperi, di adeguare i salari all’inflazione galoppante) il divario nei redditi, nelle condizioni di vita e di lavoro, rimaneva comunque a favore dei “ceti medi”. Ma ciò che soprattutto contava era l’ostinata volontà della piccola borghesia a credersi «superiore», a stabilire una distanza fra sé e la classe operaia, deprimendo se necessario quest’ultima.
Osserva Salvemini:
«In Europa il dopoguerra ha portato alle classi medie povertà e sofferenza, ma le classi medie, per quanto declassate dalla crisi economica, non intendono identificarsi con il proletariato. All’inizio il fascismo italiano e il nazismo tedesco furono essenzialmente movimenti composti di elementi impoveriti delle classi medie, decisi a non affondare sino al livello del proletariato, e che si dettero a strappare dalle mani delle classi inferiori quella parte della ricchezza nazionale che esse avevano vinto.»
Ecco, devo dire che oggi, bazzicando in Internet, vedo segni crescenti di invidia e di odio classista anti-operaio anche in ambienti «insospettabili», ad es. in certi blog di area PD.
Oggi come allora, la tendenza reale è quella verso la proletarizzazione del ceto medio; quindi, le dinamiche materiali del modo di produzione dovrebbero semmai indurre a un’alleanza fra sfruttati.
Scriveva Antonio Gramsci, su «L’Ordine Nuovo» dell’8 maggio 1920:
«Gli industriali continueranno nei tentativi di suscitare artificialmente la concorrenza tra gli operai, suddividendoli in categorie arbitrarie, quando il perfezionamento degli automatismi ha ucciso questa concorrenza; continueranno nei tentativi di inasprire i tecnici contro gli operai e gli operai contro i tecnici, quando i sistemi di lavoro tendono ad affratellare questi due fattori della produzione, e li spingono a unirsi politicamente…»
# Il fascismo è nato, esiste ed è continuamente reinventato e riutilizzato dai padroni proprio per offrire ai ceti medi proletarizzati un «falso evento» dopo l’altro, un falso bersaglio dopo l’altro, una finta rivoluzione dopo l’altra. Questo non succederebbe se la classe capitalistica considerasse i ceti medi per natura conservatori. Sa bene che, quando si proletarizzano e si impoveriscono, potrebbero «fare blocco» con gli operai e in generale coi lavoratori subordinati. Per impedire quest’alleanza, viene ogni volta scatenata una multiforme offensiva ideologica e propagandistica: ad esempio, si dice al piccolo borghese che il suo nemico sono i proletari «garantiti» e i sindacati, e al contempo, con il frame della «sicurezza», gli si dice che deve temere l’immigrato. Ma questo non basta, perché è un discorso tutto difensivo, ce ne vuole anche uno offensivo, «massimalista», pseudo-rivoluzionario. Oggi quel discorso è quello contro la «Ka$ta», e il suo massimo spacciatore è Grillo, che è un portatore – forse nemmeno del tutto consapevole – di un’ennesima variante di fascismo. Attenzione, quando parlo di «fascismo» non mi riferisco al fascismo storico, a quello che si incarnò nel regime fascista e poi nella RSI etc. Mi riferisco a quell’ur-fascismo di cui parlava Eco e che è già stato ricordato sopra.
# Vorrei contribuire segnalando la prima questione che mi è saltata alla mente leggendo il tuo «devo dire che oggi, bazzicando in Internet, vedo segni crescenti di invidia e di odio classista anti-operaio anche in ambienti “insospettabili”, ad es. in certi blog di area PD.»: la polemica sul precariato intellettuale sollevata da Di Domenico che citava la figlia di Ichino… Io non sono per nulla dentro le dinamiche di quella polemica, sicuramente c’è qualcuno che le conosce meglio e può svelare “retroscena” o strumentalismi da me ignorati. Però ecco, quella vicenda per me è emblematica di quanto il PD sia un partito formato quasi esclusivamente da dirigenti e pensato per elettori che grossi problemi (lavorativi, economici ecc.) non ne hanno. Nelle reazioni dei commentatori e degli «intellettuali» de sinistra forte, fortissimo è stato il livore contro «l’invidia sociale» del precario (che diventa lavoratore mediocre), quasi unanime la difesa del bravo e onesto «figlio di» che ha fatto carriera solo ed esclusivamente per meriti personali.
Oggi pomeriggio Bersani sarà qui a Mirandola in una delle aziende più colpite dal terremoto (B-Braun, biomedicale), ma la maggior parte degli operai non lo voterà, come la maggior parte degli operai della Green Power di Mirano, l’azienda dove B. ha molestato un’impiegata, non se lo cagheranno di striscio e forse voteranno M5S.
# Sui ceti medi mi viene in mente quello che è successo in Argentina nel 2001. Quando i ceti popolari e quelli medi si sono uniti, il risultato è stato deflagrante: vedevi tizi in giacca e cravatta assaltare i bancomat, gli ospedali e le scuole autorganizzarsi, la logistica dei mercati di verdure prendere pieghe orizzontali e antigerarchiche… è durata per un paio di anni… quando sono andato io in Argentina, nel 2005, i ceti medi già si lamentavano dei piqueteros che tagliavano continuamente il traffico con i loro blocchi stradali… erano due mondi ormai distinti…. io non sono uno capace di grandi elaborazioni teoriche, sono un tipo che legge molto le cose a orecchio, però penso che sia importante capire il legame tra spirito conservatore e senso di insicurezza del ceto medio declassato… al tempo stesso se il grillismo può essere letto come uno stratagemma per allontanare i ceti medi dall’alleanza con i ceti popolari […] bisogna anche leggere fenomeni come il leghismo (o il vecchio squadrismo, o almeno la sua manodopera di base) come degli espedienti per deviare i ceti subalterni e esclusi dai loro interessi di classe (per ritrovarli alleati dei padroni o dei ceti medi nel cemento della patria o dell’identità territoriale di appartenenza).
# Sulla «egemonia culturale della sinistra»: in Italia non c’è mai stata. Anche prima del berlusconismo, il senso comune di massa lo hanno sempre prodotto tutt’altri agenti: la RAI democristiana, la chiesa, rotocalchi ad altissima tiratura come Oggi e Gente, la divulgazione pseudo-storica di Montanelli e Petacco… Per questi ultimi viatici è passata la strisciante riabilitazione del fascismo, come spiega molto bene Mimmo Franzinelli qui.
# Il paragone tra grillismo e fascismo è scivoloso, rischioso e difficile da maneggiare, ma inevitabile. Perché è la storia di questo paese, è la storia del difficile e controverso rapporto tra rabbia giusta e rancore distruttivo, tra rivoluzione e reazione. E’ un discorso che si può affrontare in alcuni contesti (come questo) nei quali si tende ad evitare slogan e non perdere la lucidità.
Mi limito al punto della composizione sociale. Nelle definizioni un po’ rigide ma secondo me efficaci di alcuni scienziati politici la differenza tra fascismi e populismi starebbe proprio nella discriminante della composizione di classe: il populismo organizza dall’alto masse in cerca di nuovi di diritti ed avanzamento sociale, il fascismo organizza le classi che devono difendersi dalla minaccia delle classi inferiori. Ora, a me pare che questa alternativa tra difesa e attacco, dopo venti anni di politiche liberiste, sia molto meno nitido che in passato. Ci sono senz’altro figli della classe media che godono di piccole rendite ma che sono senza diritti sul lavoro, ad esempio. O che non ne hanno mai avuto uno vero. Come li classifichiamo? Sono «in difesa» o «all’attacco»?
# Altra domanda: questo Paese, con il ceto medio che si ritrova, la mancanza di memoria storica che si ritrova, la sinistra che ha praticamente abbandonato il campo (e in ogni caso, senza la consapevolezza che la società è divisa in classi, «sinistra» diventa parola cialtrona e greve di merda)… Questo Paese, di fronte al rischio del fascismo, ha ancora qualche antiporco?
WU MING