di Alessandro Dal Lago
Nel XIX secolo, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Germania la ricerca e l’educazione tecnico-scientifica hanno iniziato lentamente a prevalere su quella umanistica. E tuttavia il modello humboldtiano — priorità delle discipline umanistiche rispetto a quelle scientifiche — sarebbe rimasto per molto tempo l’ideale globale di università. Ancora negli anni Sessanta del Novecento, un rapporto indipendente avrebbe stabilito come obiettivo del sistema universitario inglese «la promozione delle funzioni generali della mente, per produrre non solo specialisti, ma anche donne e uomini colti». Questa idea di università è stata ampiamente criticata, nel corso dell’ultimo secolo, per la sua impostazione umanistica, rivolta soprattutto alla tradizione e agli studi classici. L’idea di fondo era che facoltà scientifiche, tecno-scientifiche, professionalizzanti e umanistiche collaborassero insieme, senza gerarchie prefissate, e nella piena indipendenza del corpo docente, alla produzione di conoscenza per la collettività. Un bene, il sapere, considerato superiore a qualsiasi costo necessario per produrlo. Questa cultura dell’autorganizzazione è stata progressivamente erosa in tutto il mondo quando si sono affermate politiche economiche liberiste.
Divisione dei poteri
Nell’università italiana, l’augusto modello ottocentesco si è incarnato fin dalla fondazione dello stato unitario in una realtà molto più prosaica. Per cominciare, il ministero ha sempre controllato pedantemente l’operato delle sedi fino nei minimi dettagli procedurali; inoltre, il corpo docente ha gestito in piena autonomia il sistema del reclutamento e delle promozioni. In Italia, si può parlare di una sorta di patto tacito tra lo stato e le università. Il primo non ha mai speso troppo per la formazione superiore, lasciando al contempo al ceto accademico il pieno controllo del reclutamento e della promozione attraverso il sistema dei concorsi. La nomina elettiva delle commissioni ha inevitabilmente comportato la formazione di partiti accademici trasversali che, fino al recente sistema dei sorteggi, hanno dato vita a un potere difficilmente eliminabile. In questo senso, il vero ostacolo alla modernizzazione del sistema universitario, in nome dell’universalismo e della libertà d’accesso, non è dato tanto dai numerosi e documentati casi di nepotismo, quanto dai normali meccanismi di reclutamento.
Ben prima del cosiddetto processo di Bologna, l’università italiana ha cambiato modello di governo, riforma dopo riforma, legge dopo legge, decreto dopo decreto. Ora, non è il caso di riprendere qui la storia dei cambiamenti del sistema universitario italiano. La questione essenziale è che, dal 1989, con Antonio Ruberti e la cosiddetta «autonomia amministrativa», la leva finanziaria, cioè la riduzione dei finanziamenti statali, è stata considerata decisiva per «risolvere» il cronico indebitamento delle università italiane e soprattutto per imporre criteri razionali o «di merito» nella gestione delle risorse. Sarebbe sbagliato minimizzare la responsabilità del ceto accademico nella proliferazione delle cattedre, in certe fasi della riforma (come negli anni Novanta, all’epoca di Berlinguer e del ridisegno dei settori scientifico-disciplinari) e quindi in una crescita «irrazionale» del personale. Ma è anche vero che l’università italiana è cronicamente sottofinanziata, e il rapporto tra docenti e studenti uno dei più sfavorevoli in Europa. Il metodo Ruberti, seguito da quello dei successori senza troppa distinzione di colore politico, è consistito in sostanza nel premiare le sedi «virtuose» e nel punire quelle «viziose», con il risultato di scavare un fossato incolmabile tra le prime e le seconde, e di favorire quelle più capaci di procurarsi fondi nel mercato (per esempio, i politecnici).
La questione della valutazione della ricerca rientra in questo processo di progressivo dimagrimento dell’università italiana in nome dei superiori interessi del mercato. Prima di vederne i principi ispiratori e le procedure reali – e quindi l’ideologia soggiacente – è però il caso di ricordare che, come ogni attribuzione di valore, la valutazione non è una misurazione scientifica e imparziale di una prestazione, ma un tipo di classificazione che dipende dal «punto di vista», e dagli interessi, di chi valuta. E quindi anche gli strumenti della valutazione non possono che risentire di questa origine. La cultura quantitativa della valutazione (che si esprime in indici bibliometrici, ranking delle riviste, classifiche delle università, ecc.) adotta largamente quella cultura degli algoritmi che oggi domina la finanza e il mondo della rete. Questa cultura — presentata oggi come necessaria, inevitabile, oggettiva — è naturalmente funzionale agli scopi di chi trae vantaggio dalla classificazione quantitativa e quindi da una gerarchia meramente numerica.
Un futuro illusorio
La valutazione della ricerca non sfugge a questo tipo di logica a cascata. Se si stabilisce che la qualità (il «valore») della ricerca in un certo paese è definita da certi indici quantitativi, è del tutto consequenziale che la gerarchia che ne risulta acquisti, per così dire, un valore morale (un po’ come, in tedesco, il termine Schuld, «debito», significa anche «colpa»). Si consideri, per esempio, il perentorio invito di Francesco Giavazzi, uno dei teorici italiani della diminuzione della spesa pubblica a ogni costo, a chiudere alcune sedi universitarie: «A Bari, Messina e Urbino (…) la chiusura di quelle tre università (in fondo alla classifica Anvur) è nell’interesse dei loro figli (dei cittadini). Non è frequentando una fabbrica delle illusioni che si costruisce il futuro».
Con queste poche e semplici parole, l’autore ha chiarito una volta per tutte quale sia stato lo scopo ultimo della fondazione dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca e della classifica delle università, costruita in base alla misurazione delle prestazioni scientifiche. In breve, si tratta dell’applicazione al mondo della ricerca italiana della stessa cultura della punizione che si è affermata con la globalizzazione in campo economico. Ora, come è noto, la creazione dell’Agenzia e le sue procedure hanno dato vita negli ultimi anni a un vivace dibattito. Quello che è emerso, al di là del tono trionfalistico adottato solitamente dagli esponenti dell’anvur, è uno straordinario pressapochismo nell’applicazione dei criteri «oggettivi» e «scientifici» di valutazione. Proprio mentre nel resto del mondo, per esempio, gli indici bibliometrici venivano sottoposti a critiche spietate, e spesso rifiutati dalle istituzioni della ricerca e dalle associazioni di settore, i nostri valutatori li adottavano con un entusiasmo xenofilo paragonabile a quello di un certo personaggio filo-americano di Alberto Sordi.
Atto di forza
Ma quello che più di tutto è significativo, in Italia, è il decisionismo con cui, fino all’insediamento dell’Anvur, è stata promossa la valutazione. Un consiglio direttivo di nomina esclusivamente politica ha insediato «gruppi di esperti valutatori» senza alcuna procedura universalistica e trasparente di reclutamento. Con il risultato che i professori si sono messi a giudicare i professori, capovolgendo il senso della massima di Kant, solo per il fatto di essere stati nominati, spesso in base alla loro affiliazione accademica o confessionale. E spiace che, qua e là, anche docenti noti e stimati si siano prestati a questo atto di forza, un classico modello di interventismo politico-burocratico (per di più in nome dell’universalismo scientifico), il cui scopo ultimo è il cieco adeguamento alla cultura prevalente degli algoritmi. Nulla come il caso italiano dimostra come, decostruendo la cultura della valutazione, si arriva, in fondo, a una mera e arbitraria decisione politica.
ALESSANDRO DAL LAGO
da il manifesto