di Roberto Ciccarelli – il manifesto
Intervista. L’Europa e gli Stati Uniti versano in una stagnazione che durerà anni, serve una trasformazione politica e un altro paradigma per la crescita e l’occupazione. «Uscire dall’Euro è un’idea insensata, occorre ridiscutere i trattati Ue e lo Statuto della Bce, riportare la finanza al servizio dell’economia reale»
Nel 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% e nel 2014 il Pil sarà all’8,2%. Gli Usa arriveranno a +2,9%. Il Pil crescerà dello zero virgola in Europa.
Professor Gallino, la crisi è finita?
Per nulla. La Cina è un caso a parte, mentre la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge. L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli «scoraggiati» o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri. Gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia, ma i risultati sono stati abbastanza modesti. Il piano di riduzione degli stimoli monetari (tapering, ndr.) è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda. A settembre c’è stato un calo dal 7,3% al 7,2%, ma c’è stato anche un calo dei posti di lavoro rispetto a quelli previsti (148 mila contro 188 mila). Sul mercato del lavoro sono entrate quindi meno persone di quelle stimate. Questo significa che il tasso di disoccupazione è più alto. Oltre 100 milioni di persone vivono in condizioni di povertà, per proteggerle non basta nemmeno il salario minimo che Obama intende aumentare a 10 dollari all’ora. Il salario è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno reddito per le famiglie che hanno dovuto mettere al lavoro tutti, nonni e figli compresi.
L’ex segretario Usa al Tesoro Lawrence Summers parla di «stagnazione secolare». Tutto fa pensare che riguardi anche l’Eurozona.
Per un vecchio neoliberale come Summers è strano sentirlo rispolverare un concetto che ha più di 70 anni. Lui dice che senza stimoli forti dall’esterno, una frustrata, il sistema capitalistico è tendenzialmente propenso alla stagnazione alla quale oggi contribuiscono molti fattori, dalla globalizzazione alla creazione di nuove tecnologie e alle delocalizzazioni. Ciò ha portato al paradosso per cui gli Usa contribuiscono alla crescita della Cina ma non alla propria. La stagnazione caratterizza anche l’Europa e allarga le diseguaglianze in tutti i suoi paesi. Non si dice mai che in Germania esiste una parte della popolazione che ha inflitto costi umani e sociali elevati alla maggioranza e ne prende grandi vantaggi. In questo meccanismo ha influito negativamente sui bilanci degli altri paesi il suo eccesso di esportazioni. Siamo nel pieno di una stagnazione che durerà molti anni perchè non si vede bene cosa fare per uscirne.
Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avvenire con il rilancio della produzione e dei consumi di massa identici a quelli del «trentennio glorioso», tra il 1945 e 1973?
Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà. Non credo a questa prospettiva. E se mai questo avvenisse sarebbe un vero disastro, perchè la crisi non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi. Rischiamo inoltre di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo.
L’Ocse avverte che la crescita tornerà, ma non produrrà nuova occupazione stabile. Senza considerare che i milioni di posti fissi bruciati nella crisi sono irrecuperabili. Visto che la creazione di occupazione è la premessa per ogni tipo di crescita, come la si può finanziare oggi in Italia e in Europa?
Bisogna ridiscutere i trattati europei e modificare lo statuto della Banca Centrale Europea, innanzitutto. Non si tiene conto abbastanza di quanto la legislazione dei nostri paesi sia fortemente condizionata da questi trattati. In Italia esistono 300 mila leggi e il calcolo è difficile. In Francia o in Germania, dove ce ne sono 9 o 10 mila, si pensa che l’80 per cento di quelle in vigore siano ispirate dai trattati o dalle direttive. Se non si passa di lì, penso che sia molto difficile fare politiche economiche che non siano quelle sconsiderate fatte negli ultimi tre anni. I governi continueranno a battere i tacchi e a firmare qualsiasi cosa che Bruxelles, la Bce o l’Fmi gli propongono.
Nonostante tutto il presidente della Bce Mario Draghi sollecita i governi a continuare le «riforme» anche nel 2014…
Così facendo non si farà molta strada per affrontare seriamente la crisi. Trovo scandaloso che il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e lo statuto della Bce ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione. L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali. È un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del Trattato. È difficile modificarlo a causa della contrarietà dei tedeschi che attaccano Draghi. È curioso però notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario. Cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di stato, di cui 103 italiani. Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera.
Che cosa ha fatto Draghi per la crescita?
Ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni. Si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche. In realtà questi soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni. Senza risorse, le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.
Molti economisti, come la Banca Mondiale, ritengono che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la crescita. E propongono altri indicatori per misurare il tasso di sviluppo umano. Come renderli vincolanti?
Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica. In questa fase mancano le premesse politiche per realizzarla. I discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, sono di un’ottusità incomparabile. Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro. La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero.
La «green economy», o «crescita verde» come la definisce l’Ocse, rappresentano un’alternativa a quello che lei definisce il «totalitarismo neoliberale»?
Il cambiamento di paradigma produttivo si misura anche a partire dalla necessità di rompere la subordinazione al calcolo economico di qualsiasi azione, quella che Michel Foucault definiva la «ratio» del neoliberalismo. In questa chiave, queste idee potrebbero aprire nuovi settori di intervento caratterizzati da un’alta intensità di lavoro. Questo non significa creare piantagioni di cotone dove la macchina fa il lavoro di cento braccianti. Bisogna pensare a settori dove il lavoro umano è molto attrezzato. La ricerca bioalimentare, al di là dei famigerati Ogm, è sicuramente una di questi. C’è la ricerca medica, i beni culturali. Invece di produrre beni di sostituzione di tipo tradizionale, o gadget come i cellulari, bisogna pensare all’ambiente, alla scuola, ai servizi pubblici nel senso ampio del termine, alla riqualificazione idrogeologica dei nostri territori.
Il caso dell’Ilva dimostra la difficoltà di conciliare l’esigenza dell’occupazione con un modello produttivo compatibile con l’ambiente e la salute. Come governare quella che si definisce una transizione?
Il caso dell’Ilva è indicativo di quello che non bisogna fare. Ho studiato a lungo questi stabilimenti a Taranto. Quando furono costruiti rappresentarono un grande successo industriale, ma dovevano essere riconvertiti almeno vent’anni fa, quando la produzione siderurgica è radicalmente cambiata. Bisognava concordare con la proprietà una transizione, abbattere l’inquinamento, mettere in grado la produzione di far fronte esigenze industriali sempre più complesse. Lo hanno fatto in Germania, in Giappone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille caratteristiche diverse a seconda della destinazione dei suoi prodotti. E ci vogliono stabilimenti più piccoli. In questo modo è anche possibile aumentare l’occupazione.
Uscire dall’euro è una risposta adeguata per contrastare le politiche di austerità?
Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze. L’euro è un problema, ma non bisogna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insensata. Il Marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Italia e in Europa.