I GIORNI CANTATI DI PETE SEEGER

di Alessandro Portelli – il manifesto 

Dicono che l’umanità non soprav­vi­verà a lungo, ma io vor­rei sapere che cos’è che li fa essere così sicuri. L’ora più buia è sem­pre quella prima dell’alba, si sta facendo mat­tino, e io so che pos­siamo ancora avere sin­ging tomor­rows», domani fatti di musica, «giorni can­tati». Così can­tava Pete See­ger, e que­sta è stata la sua lezione per quasi ottant’anni di musica e di impe­gno. Nel corso della sua vita ha can­tato le can­zoni dei mina­tori e degli ope­rai(Which Side are You On?), gli spi­ri­tual di lotta del movi­mento per i diritti civili (We Shall Over­come), la pro­te­sta con­tro la guerra del Viet­nam (Waist Deep in the Big Muddy), la mobi­li­ta­zione per la sal­vezza dell’aria e dell’acqua della sua terra (My Dirty Stream); ha com­po­sto memo­ra­bili can­zoni di libertà e spe­ranza (If I Had a Ham­mer, Where Have all the Flo­wers Gone). Ma il senso poli­tico della sua opera era ancora più radi­cale: stava nella pro­fonda fidu­cia, così pro­fon­da­mente ame­ri­cana e così intrin­se­ca­mente clas­si­sta, in quell’umanità di lavo­ra­tori, ope­rai, con­ta­dini, gente comune che ha inven­tato la musica popo­lare e che costi­tui­sce la vera spe­ranza di un futuro mat­tino dopo que­ste notti di tenebra.

Per que­sto, faceva poli­tica anche se can­tava le can­zon­cine per bam­bini, le bal­late epico-liriche affon­date nel Medio Evo, o quei canti reli­giosi fatti per essere can­tati insieme, da cui poi è venuta fuori tanta can­zone ope­raia e sin­da­cale. Faceva poli­tica in primo luogo per­ché riba­diva la dignità e la pre­senza sto­rica di coloro che ave­vano creato e tra­smesso quei canti. Ma faceva poli­tica anche per­ché voleva che quei canti, sovra­stati dal rumore media­tico, ridi­ven­tas­sero bene comune, e ce li inse­gnava. Musi­ci­sta sofi­sti­cato, li ripro­po­neva in forma appa­ren­te­mente sem­plice, che ti faceva sen­tire che tutto som­mato avre­sti potuto can­tarli anche tu; e in tutti i suoi con­certi inse­gnava le can­zoni e le faceva can­tare, non per una reto­rica di «audience par­ti­ci­pa­tion» ma per­ché chi le aveva can­tate con lui in con­certo se le sarebbe ripor­tate a casa e le avrebbe con­ser­vate in sé. Il suo primo libro era un manuale per inse­gnare a suo­nare il banjo: la musica, insomma, era qual­cosa da fare, non solo ascol­tare; ed era un modo per ritro­vare, tutti, la pro­pria voce e farsi sentire.

La prima volta che l’ho incon­trato, Pete See­ger mi aveva dato appun­ta­mento a un’assemblea della War Resi­sters’ Lea­gue, una delle più anti­che orga­niz­za­zioni paci­fi­ste ame­ri­cane. Era forse il più anziano dei pre­senti, e certo il più illu­stre; ma a riu­nione finita fu lui a pren­dere la scopa, pulire il pavi­mento e rimet­tere a posto le sedie. L’ultima volta, tre mesi prima dell’11 set­tem­bre, era pro­prio davanti al World Trade Cen­ter – aveva quasi novant’anni, era accom­pa­gnato e soste­nuto da suo nipote Tayo — e can­tava Money Makes the World Go Round, i soldi fanno girare il mondo. Fra que­sti due incon­tri, ne ram­mento un altro: a metà anni ’80, a Law­rence, Mas­sa­chu­setts, dove si ricor­dava il memo­ra­bile scio­pero del 1912 degli ope­rai e delle ope­raie tes­sili immi­grati da quasi trenta paesi, divisi da lin­gue e cul­ture e uniti dalla lotta. Sul palco, Pete disse: «Adesso vi canto una can­zone che vi può un po’ sor­pren­dere. Ma vi prego di igno­rare gli usi che ne sono stati fatti, gli ste­reo­tipi che ci si sono incro­stati addosso, e di ascol­tare sem­pli­ce­mente quello che dice.» Cantò L’Internazionale, e fu come se non l’avessimo mai sen­tita prima.

Se sia mai stato tes­se­rato comu­ni­sta, pre­fe­riva glis­sare; ma quando fu con­vo­cato dal Comi­tato per la atti­vità non-americane durante la cac­cia alle stre­ghe degli anni ’50, si rifiutò di col­la­bo­rare, di fare nomi, di dis­so­ciarsi. Con Woody Guth­rie, Lee Hayes, Bes­sie Hawes e altri, aveva fon­dato prima della guerra gli Alma­nac Sin­gers che per primi ave­vano ripor­tato agli ope­rai dei sin­da­cati pro­gres­si­sti la loro stessa tra­di­zione di canti di lotta. «La can­zone popo­lare cre­sce se cre­sce il movi­mento ope­raio,» aveva scritto allora Woody Guth­rie; Pete See­ger decli­nava que­sta mas­sima in forma più ampia: la can­zone popo­lare vive e cre­sce se cre­scono i movi­menti popo­lari. Così, quando il movi­mento sin­da­cale si alli­neò all’isteria anti­co­mu­ni­sta degli anni ’50 ed espulse la sua ala pro­gres­si­sta, Pete See­ger non si fece ridurre al silen­zio: trovò subito un altro movi­mento, e fu il grande media­tore che ripor­tava le can­zoni del Sud in lotta al pub­blico urbano e pro­gres­si­sta delle grandi città. Quando il Black Power emar­ginò i bian­chi, lui era già in prima linea in un altro movi­mento, quello con­tro la guerra; e finita la guerra, inventò let­te­ral­mente un movi­mento ambien­ta­li­sta che riu­scì a ripu­lire l’inquinato fiume Hud­son e resti­tuirlo alle sue comu­nità: radi­cale e inter­na­zio­na­li­sta, non sde­gnava le bat­ta­glie locali, le pic­cole pre­ziose vit­to­rie. Passa attra­verso scon­fitte, e non è mai vinto.

La can­zone sulla notte e sull’alba fini­sce dicendo: «E quando le tue mani non ce la faranno più, lascia la tua chi­tarra a qual­cuno più gio­vane e più forte». Quella sera, dopo l’assemblea della War Resisters’League, disse una cosa che mi sor­prese: «Lo stru­mento della musica popo­lare del futuro è la chi­tarra elet­trica.» Lui la chi­tarra elet­trica non l’ha mai presa in mano: non era di quelli che si affan­nano ad essere aggior­nati, i suoi stru­menti erano altri. Ma vedeva il futuro, e lo vedeva in modo non dog­ma­tico, e comun­que diverso da sé. L’ultima memo­ra­bile imma­gine che abbiamo di lui è sul palco accanto a Bruce Spring­steen, il giorno dell’inaugurazione di Barak Obama. Pete See­ger non ha mai preso in mano la chi­tarra elet­trica, Bruce Spring­steen non ha mai preso in mano il banjo; ma quel giorno era pro­prio come se la sim­bo­lica chi­tarra di Pete See­ger fosse pas­sata di mano. Can­ta­vano This Land Is Your Land, la grande bistrat­tata e malin­tesa can­zone di Woody Guth­rie, resti­tuendo nel più solenne momento isti­tu­zio­nale le cen­su­rate strofe di pro­te­sta. Era come se Pete See­ger – bol­lato come nemico della patria e agente stra­niero mezzo secolo fa – si pren­desse la sua grande rivin­cita sui suoi per­se­cu­tori di mezzo secolo da fa: loro sono dimen­ti­cati, lui era ancora qui, e l’America migliore, quella della spe­ranza e dell’alba, era la sua, non la loro. E sono dav­vero chi­tarre elet­tri­che, come quella di Ani DiFranco (che ama defi­nirsi folk sin­ger) o di Tom Morello, o i rap­per latini di Los Ange­les, a rac­con­tare oggi le lotte, la rab­bia e la speranza.

Però: Pete See­ger ci ha inse­gnato che prima di tutto ven­gono le voci, le voci dei ribelli, degli sfrut­tati, degli emar­gi­nati che si uni­scono per can­tare insieme. Sono sicuro che si sia com­mosso e con­so­lato sen­tendo che, nei giorni intensi di Occupy Wall Stret, le due can­zoni che si can­ta­vano per la strada erano pro­prio Which Side Are You On e We Shall Over­come. Due can­zoni che, anche se tanti di quei ragazzi non lo sape­vano, ce le aveva inse­gnate lui.

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