L’ eco della notizia è relativo al costo dell’operazione. Facebook ha infatti annunciato che l’acquisto del servizio di messaggeria WhatsApp per 19 miliardi di dollari: 18 in più della proposta, mai confermata, ma neppure mai smentita, fatta da Google poco più di un anno fa. Al di là delle cifre riguardanti l’operazione, l’acquisto del servizio di messaggi da parte di Facebook è rilevante anche per un altro aspetto: è la prima fusione tra due imprese che operano in due settori trainanti della Rete: i social network e la cosiddetta economia delle app.
La cifra iperbolica dell’operazione renderà miliardario uno dei fondatori di WhatsApp, Jan Koum (3 miliardi di dollari e una poltrona nel consiglio di amministrazione di Facebook), mentre ai poco più 50 dipendenti andranno 12 miliardi di dollari in azioni del social network. Ma una volta che si sarà diradato il clamore sull’iperbolico costo dell’acquisto, il centro della scena sarà occupato dagli effetti di questa convergenza tra social network e application economy. Non che in alcuni paesi questo non sia già accaduto. La Cina, infatti, è un delle nazioni più dinamiche nell’integrazione tra social network e mondo delle app, ma sia Facebook che WhatsApp sono imprese globali, operano cioè in gran parte del mondo, mentre quelle cinesi no.
Il social network fondato da Mark Zuckeberg ha ormai 1 milardo e duecento milioni di utenti, mentre il servizio di messaggeria ha un numero di utilizzatori difficili da quantificare, perché variano di mese in mese. È stimato però che oltre 400 milioni lo usano regolarmente ogni mese. Inoltre sono due «modelli di business» differenti: quello di Facebook è basato sulla vendita di spazi pubblicitari e sul «commercio» dei dati dei profili individuali; quello di WhatsApp è basato sugli abbonamenti al servizio dopo un periodo di utilizzo gratuito (da qui il numero estremamente volatile degli utenti). La loro fusione consente non solo lo sviluppo di un big data paragonabile solo a quelli di Apple e Google, ma anche un’«integrazione verticale» che consente a Mark Zuckeberg di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ad altre imprese che hanno in cantiere strategie simili.
WhatsApp è stata fondata nello stesso periodo in cui esplodeva in tutta la sua gravità la crisi economica. Il suo fondatore, un ucraino che si è trasferito negli Stati Uniti poco più che maggiorenne, è cresciuto professionalmente nella Silicon Valley. Ha lavorato in Yahoo, ha provato a farsi assumere proprio da Facebook. Infine ha pensato di sviluppare un servizio di sms che consentisse la possibilità di costituire chat collettive. I primi a scaricare gratuitamente la App sono stati i giovanissimi. Dal 2009 al 2011, l’utente medio di WhatsApp era infatti un teen ager. Solo dal 2012, i «nativi digitali» sono stati affiancati, seppur marginalmente, dai loro padri e madri. Ma è proprio in quel periodo che per accedere al servizio di messaggeria è stato introdotto un abbonamento, seppur a prezzi molto bassi. Una situazione che ha favorito l’ascesa di altri servizi analoghi, come WeChat e SnapChat.
L’acquisizio di WhatsApp non prevede la scomparsa del marchio. L’impresa rimarrà «autonoma», anche se ci sarà integrazione con i prodotti e i servizi di Facebook. Difficile sapere se WhatsApp cominciarà a veicolare pubblicità, visto che una delle «mission» dell’azienda era di non prevedere intermezzi pubblicitari. Né è dato da sapere se Mark Zuckeberg intenda cambiare le tariffe di abbonamento. Sta di fatto che la fusione delle due imprese sembra smentire le analisi che guardano a Facebook come una imprese che ha raggiungo l’apice del suo sviluppo e che molti erano i segnali di una difficoltà a fronteggiare le critiche al social network, sempre più spesso accusato di violare la privacy e di essere troppo disinvolto ad «appropriarsi» dei profili individuali per «impacchettarli», «elaborarli» e venderli al miglio offerente. Sta di fatto che l’operazione rende Facebook un’impresa leader nel settore che ha conosciuto una crescita vertiginosa in tempi di crisi globale: quello dei big data.
BENEDETTO VECCHI
da il manifesto