Università. Pubblicato il XVI rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati: senza lavoro un giovane su quattro a un anno dal titolo, ma dopo cinque la laurea è utile per garantirsi un futuro. Nella recessione i «dottori» disoccupati sono tuttavia aumentati del 15%. L’Italia resta fanalino di coda tra i paesi Ocse per numero di laureati. Investiamo solo l’1% del Pil in istruzione
Bisogna usare con cura i dati sulla condizione occupazionale dei laureati diffusi ieri a Bologna da Almalaurea, il consorzio interuniversitario che riunisce 64 atenei italiani. Nel XVI rapporto che ha coinvolto quasi 450 mila laureati post-riforma emergono due elementi fondamentali: il primo è che, rispetto al quinquennio 2008–2013, la crisi ha colpito i laureati triennali non iscritti ad un altro corso di laurea, tra i quali la disoccupazione è cresciuta di quasi quattro punti percentuali, dal 23% al 26,5%.
La recessione ha fatto una strage tra i neodiplomati tra i 18 e i 29 anni (+14,8% disoccupati), 5,8% tra i diplomati «più anziani», mentre tra i neolaureati è al 6,5% e tra i laureati +2,9%. Tra il 2007 e il 2013 il differenziale tra la disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti a favore dei primi a 11,9 punti percentuali.
Il secondo dato è che, dopo cinque anni, la laurea diventa un argine contro la disoccupazione dilagante, anche se è meno efficace rispetto ad altri paesi. La condizione occupazionale dei laureati tende infatti a migliorare, la stabilità del lavoro e il reddito registra un miglioramento, pur attestandosi su 1400 euro mensili (1358 euro per i triennali,1383 per i magistrali), una media modesta ma comune ai salari italiani. Se invece si misura l’occupazione dopo un anno dalla laurea i dati sono ben più drammatici e dimostrano l’ostilità del mercato del lavoro rispetto ai più giovani. Lo si capisce dalle retribuzioni ad un anno dalla laurea che si attestano sui mille euro netti mensili (1003 per il primo livello, 1038 per i magistrali, 970 per i magistrali a ciclo unico).
Più si è precari e qualificati, meno si viene pagati, dunque. La contrazione salariale è pari al 5% tra i triennali, al 3% fra i magistrali biennali, al 6% per il ciclo unico. Si spiega anche così l’insistenza sulla «garanzia giovani» degli ultimi governi, una misura che dovrebbe sostenere tramite un apprendistato il lavoro dei giovani entro 4 mesi dalla laurea.
Almalaurea sostiene che all’inizio della «carriera» lavorativa la laurea non permette la coincidenza tra le competenze e il lavoro svolto, tra salario e mansione.
In seguito la qualifica, e eventuali percorsi formativi o professionali, permettono di erigere un argine contro la precarietà e la svalutazione dei salari, mentre diminuisce il divario tra gli occupati a Nord e a Sud che resta grave: il differenziale tra i guadagni è del 20% (1385 euro a Nord, 1150 a Sud). Tutto questo non risolve la precarietà. I contratti a tempo indeterminato sono infatti crollati del 15% tra i laureati triennali, 8 tra i magistrali, 5 a ciclo unico.
Cresce anche il lavoro nero o informale che nel 2013 ha riguardato l’8% dei laureati di primo livello, il 9% dei magistrali, il 13% a ciclo unico. Un’analisi comparata condotta sulle ultime sei generazioni, permette di dimostrare che con il dilatarsi del tempo dal conseguimento del titolo, l’occupazione migliora tra i laureati post-riforma, mentre peggiora tra quelli a «ciclo unico», Giurisprudenza, Medicina, Veterinaria o Architettura, che continuano a studiare, magari lavorano da precari o gratis, in attesa di conquistare la laurea.
La tesi di Almalaurea è in controtendenza rispetto all’enfasi delle classi dominanti sulla rivalutazione della formazione primaria contro quella terziaria universitaria. Ministri (l’indimenticata Fornero o il suo vice Martone, Gelmini come l’attuale ministro dell’Istruzione Giannini) o imprenditori (il nipote di Gianni Agnelli e presidente Fiat-Fca Elkann, da ultimo) premono per l’alternanza scuola-lavoro sul modello «tedesco», formazione professionale, prevalenza della «manualità» contro l’«intellettualismo» dei laureati «choosy», «bamboccioni» e «fuoricorso». In apparenza è un invito a lasciare gli studi universitari, a cui oggi si iscrive una percentuale bassissima di 19enni: solo il 30%.
Fonti ufficiali come l’Ocse o l’Istat, afferma il presidente Almalaurea Andrea Cammelli, sostengono invece che i laureati presentano un tasso di occupazione di 13 punti maggiore rispetto ai diplomati (75,7% contro il 62,6%). Fra i 25–64 anni l’occupazione è più elevata del 48% rispetto ai diplomati, in linea con la Francia ma più bassa rispetto a Regno Unito e Germania.
Resta però intatta la realtà italiana. Basso il livello di scolarizzazione della popolazione (abbiamo i manager più ignoranti d’Europa, solo il 27,7% ha la scuola dell’obbligo, i laureati sono il 24% contro una media del 53%). l’Italia, infine, è il paese Ocse che ha tagliato 10 miliardi di euro all’anno all’istruzione. Una scelta suicida, che non aiuterà ad aumentare il numero dei laureati. Il governo italiano ha ammesso il fallimento della riforma Berlinguer-Zecchino. La commissione Ue si attende dal nostro paese il 26–27% dei laureati, contro il 40% del libro dei sogni. Pochi, malpagati ma resistenti i laureati italiani.
ROBERTO CICCARELLI
da il manifesto