«Siamo nella Champions League dell’economia mondiale»: è una delle frasi dell’ex premier José Luís Rodríguez Zapatero rimaste più celebri. Era il novembre 2007, e il governo socialista celebrava gli ottimi dati macroeconomici: crescita al 3,8%, disoccupazione all’8,6%, rapporto debito/pil al 36,4%, surplus di bilancio. La Spagna si sentiva sana, sicura di sé: non più debole e «periferica», ma vincente, proprio come l’imbattibile Barcellona di quel periodo.
Poi, nel volgere di tre anni, il crollo: dalla Champions League alla zona retrocessione del «rischio fallimento» con lo spread oltre i 600 punti base. Evidentemente, quei numeri non dicevano tutta la verità. Sotto la superficie di conti così in ordine si nascondeva un modello di «sviluppo» fragile. Che il governo Zapatero non volle vedere, nonostante si fosse accorto del peso eccessivo che il settore della costruzione aveva nell’economia del Paese. Ma per «sgonfiare la bolla immobiliare» fece poco, e con troppo ritardo.
Il 12 maggio 2010 è la data-chiave che segna la decisiva svolta politica a Madrid: Zapatero abbandona ogni velleità di rispondere alla crisi con misure keynesiane e dà il via alle «riforme strutturali» che suggeriscono Berlino, Francoforte e Bruxelles – compreso il pareggio di bilancio nella Costituzione. Un suicidio per il Partito socialista, che alle elezioni del novembre 2011 cede il testimone ai conservatori dell’attuale premier Mariano Rajoy. Il Partido popular continua nell’opera iniziata da Zapatero, ma pigiando ancora di più sull’acceleratore: pioggia di denaro alle banche, tagli del welfare e aggressione al diritto del lavoro, con riduzione di tutele per i licenziamenti ingiustificati e ridimensionamento dei contratti nazionali. Nel frattempo, i numeri della disoccupazione e del debito diventano sempre più drammatici, ma ciò non induce ad alcun ripensamento: al contrario, si rincara la dose delle «riforme», ci si applica di più nei «compiti a casa» assegnati da Angela Merkel e Mario Draghi. Oggi i senza lavoro sono il 26%, tasso doppio fra i giovani. E il rapporto debito/pil è al 93,4%.
Di fronte a tutto ciò, la società spagnola non rimane inerte. Dall’autunno 2010 i sindacati proclamano quattro scioperi generali e un’infinità di mobilitazioni. Si distinguono in particolare i settori del lavoro pubblico, dai quali nascono le cosiddette mareas, le «maree» di persone che invadono le piazze, dandosi ciascuna un colore specifico: verde per la difesa di scuole e università pubbliche, bianco per la sanità. Poi arriva anche il viola, scelto dalle femministe per simboleggiare il «no» alla controriforma dell’aborto, che un Rajoy in crisi di consenso vuol dare in pasto all’elettorato più conservatore. Si organizzano anche le principali vittime dello scoppio della bolla immobiliare: le persone che, perdendo il lavoro, hanno smesso di pagare il mutuo e hanno di conseguenza subito uno sfratto. Determinante per infondere entusiasmo, stabilire reti, diffondere contro-informazione, far crescere la partecipazione si rivela il multiforme movimento degli indignados che si presenta sulla scena della madrilena Puerta del Sol il 15 maggio 2011.
A poco più di un mese dal voto europeo, con il dibattito sull’indipendentismo catalano a fare da «arma di distrazione di massa», l’esecutivo Rajoy e la Commissione europea tentano di accreditare l’idea che in Spagna «la crisi sia alle spalle». Ma la maggioranza dei cittadini sembra pensarla diversamente: i sondaggi indicano un arretramento del partito al governo (25,7%), il sorpasso dei socialisti (29%) e una buona affermazione di Izquierda unida (14%), la forza che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras. A differenza della Grecia, l’estrema destra non attecchisce. L’indignazione sembra poter dare buoni frutti.
JACOPO ROSATELLI
da il manifesto