Il recente articolo uscito sul Sole 24 Ore («Ecco perché l’accordo commerciale Ue-Usa ‘regala’ 545 euro a ogni famiglia europea») possiamo considerare ufficialmente inaugurata la campagna di propaganda a favore del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), l’accordo di libero scambio e investimento che Unione Europea e Stati Uniti stanno negoziando in gran segreto. A sentire l’autore – che cita uno studio realizzato dal Centre for Economic Policy Research (Cepr) di Londra per la Commissione Europea – il Ttip rappresenterebbe una manna dal cielo per le asfittiche economie Ue.
E naturalmente anche per quella italiana: più esportazioni per tutti (Pmi comprese); più crescita (addirittura 119 miliardi l’anno per l’Ue, pari a 545 euro per famiglia), non solo per l’Europa e per gli Usa ma per l’economia globale nel suo complesso; meno burocrazia e controlli; ecc.
Il messaggio è chiaro: col Ttip ci lasceremmo finalmente la crisi alle spalle. Peccato che tale ottimismo sia mentito anche dalla valutazione d’impatto sull’Italia commissionata dal governo all’istituto di ricerca Prometeia, che giudica positivamente l’accordo (e questo non sorprende) ma sottolinea che i benefici economici delle liberalizzazioni si manifesterebbero non prima di 3 anni dall’entrata in vigore, in una misura che va da un guadagno pari a zero in uno scenario di liberalizzazione limitata ad uno 0.5% di Pil in più in uno scenario – definito «ottimistico» ma improbabile dagli autori dello studio – di liberalizzazione totale. La conclusione è più o meno in linea con quella dei quattro studi “ufficiali” che hanno finora dettato il tono del dibattito pubblico in Europa, suggerendo che l’accordo apporterebbe numerosi benefici all’Ue, tanto più se lo scenario è quello di una «liberalizzazione profonda».
Gli studi in questione, perlopiù commissionati dalla Commissione Europea, sono quello sopracitato del Cepr, quello dell’Ecorys, quello del Cepii e quello di Bertelsmann/ifo. E le conclusioni sono più o meno le stesse di quelle enunciate nell’articolo del Sole: più crescita, più esportazioni, più occupazione, meno «lacci e lacciuoli», ecc. E gli eventuali effetti collaterali? Zero.
Diametralmente opposta, invece, è l’analisi del più recente studio finora realizzato sul Ttip, a cura dell’Öfse, uno dei più autorevoli centri di ricerca austriaci. Secondo il rapporto dell’istituto viennese, commissionato dal gruppo parlamentare europeo del Gue/Ngl, tutti gli studi pro-Ttip presentano gravi omissioni ed errori metodologici che enfatizzano i presunti benefici dell’accordo, ignorandone invece i rischi.
Partiamo dagli effetti sulla crescita. Gli aumenti in termini di Pil e di salari reali, secondo i quattro paper sopracitati, vanno dallo 0.3 all’1.3% nel corso di un «periodo di transizione» di 10–20 anni. Anche prendendo come valide queste stime, stiamo parlando di una crescita annuale che va dallo 0.03 allo 0.13% l’anno. Briciole. Sul fronte dell’impiego, gli studi «ufficiali» prevedono che la disoccupazione rimarrà stabile, o al massimo scenderà di uno 0,42%. Una stima (già poco allettante di suo) che l’Öfse definisce «del tutto irrealistica», prevedendo invece un aumento significativo della disoccupazione (anche a lungo termine) durante il periodo di transizione a causa della riorganizzazione dei mercati del lavoro nazionali.
Per quanto riguarda l’impatto del Ttip sul volume degli scambi commerciali, l’Öfse riconosce che è prevedibile un aumento delle esportazioni dell’Ue nel suo complesso, ma sottolinea che a beneficiare di questo incremento saranno soprattutto i grandi gruppi industriali, a scapito delle Pmi.
L’Italia è un caso esemplare: secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale del commercio le imprese italiane che esportano sono 210 mila, ma sono le prime dieci che detengono il 72% delle esportazioni nazionali – e che dunque beneficeranno maggiormente del Ttip. Gli autori, inoltre, prevedono che l’ingresso di prodotti statunitensi a basso costo sul mercato europeo ridurrà notevolmente il commercio intra-europeo (addirittura fino al 30%), a scapito soprattutto delle economie meno export-oriented, che subirebbero un probabile deterioramento delle loro bilance commerciali.
Viene inoltre categoricamente smentita la tesi, sostenuta anche dal Sole, secondo cui la liberalizzazione degli scambi tra Usa ed Ue «non avverrebbe a scapito del resto del mondo». Secondo l’Öfse, il Ttip impatterebbe negativamente le esportazioni e il Pil dei paesi meno sviluppati, in violazione degli impegni dell’Ue a promuovere la Coerenza delle Politiche per lo Sviluppo.
Ampio spazio è poi dedicato ai costi sociali ed economici derivanti dall’eliminazione delle cosiddette «barriere non tariffarie» – sarebbe a dire tutte le regole e gli standard che ci siamo dati in materia di normativa ambientale, diritti dei lavoratori, sicurezza alimentare, ecc. –, su cui si gioca effettivamente la partita del Ttip (visto che le barriere tariffarie tra Ue ed Usa sono già ai livelli minimi).
Tutti gli studi mainstream sul Ttip considerano l’eliminazione di queste «barriere» un fatto welfare-enhancing, di benessere per la società. «Ma questo è semplicemente falso», dice Werner Raza, uno degli autori del rapporto Öfse. «Queste regole sono state create precisamente per migliorare il benessere della collettività, e la loro eliminazione avrebbe un costo sociale molto alto».
Infine, lo studio dell’Öfse prende in considerazione un aspetto del tutto sottaciuto dagli altri istituti di ricerca: l’impatto che l’eliminazione degli introiti derivanti dalle barriere tariffarie rimanenti avrebbe sul budget europeo, pari a una perdita di 2,6 miliardi di euro l’anno. L’ultima cosa di cui l’Europa ha bisogno in un momento in cui le finanze pubbliche sono già messe a dura prova dalle politiche di austerity. «Pochi i benefici economici, molti i rischi e i costi potenziali» è in sostanza il giudizio che l’Öfse dà del Ttip. Impossibile allora non domandarsi: perché il nostro governo ha abbracciato il progetto con tanto entusiasmo?
THOMAS FAZI
da il manifesto