I suicidi reali di operai, artigiani, piccoli imprenditori depauperati sono atti disperati, grida di denuncia della brutalità di un edificio sociale che ormai ha messo al suo centro la sola dimensione economica. Intesa peraltro non come attività mirante ad una legittima produzione di reddito al servizio della creazione di una vita prospera, culturalmente ed eticamente intensa, bensì a consentire da un lato l’accumulo di ricchezze smisurate e di potere, da parte di pochi privilegiati e dall’altro lato ad impoverire le moltitudini di lavoratori, precari, semi occupati, disoccupati.
Ma non solo questi ultimi vengono ridotti a vivere una vita grama, ad essere privati di dignità. Sono privati anche di speranza, di orizzonte verso cui muoversi per dare un senso alle proprie vite.
In un contesto simile il suicidio cessa di essere atto estremo e diviene paradossalmente un modo di emanciparsi da una vita che cessa di essere tale perché essa è da tempo pura sopravvivenza e, per sovramercato, sopravvivenza schifosa. La tragedia è immane perché il dramma si stinge sul crinale di una possibile routine. L’operaio e l’operaia Fiat che si sono tolti la vita, perché non hanno potuto accettarsi come deiezioni umane è come una coltellata nelle anime e nei corpi dei loro colleghi che non possono, almeno in qualche misura, non vedersi nella decisione dei due suicidi.
Devono dunque reagire per non cedere, per ricomporre la loro identità di lavoratori e di esseri umani. Alcuni di loro lo hanno fatto inscenando un atto teatrale: la rappresentazione del suicidio, per rimorso, del Padrone. Di colui che da quando ha assunto il ruolo si è caratterizzato per totale insensibilità nei confronti della condizione del lavoro e persino per evidente ostilità.
La prova è che fra tutte le reazioni che l’azienda poteva scegliere per affrontare l’atto teatrale di quei dipendenti, peraltro in sofferenza lavorativa, ha scelto il più tetragono e ottuso: il licenziamento adducendo un presunto nocumento all’immagine della Fiat. Il licenziamento per la colpa di avere portato su un piano simbolico e provocatorio la disumanità dello sfruttamento farà molto più danno a un’azienda che avrebbe potuto cogliere l’occasione almeno per riflettere sulla natura delle sue relazioni con i lavoratori che sono soprattutto e prima di tutto esseri umani. Inoltre, punire una rappresentazione col pretesto della sua radicalità e della sua durezza è un attitudine bieca che ricorda quella dei regimi. Ma Sergio Marchionne che uomo è? L’imprenditore lo conosciamo, ma l’uomo?
Non faremo l’errore di tracciarne un profilo psicologico d’accatto, ma un paio di osservazioni possiamo tentarle. L’uomo pare sprovvisto di distanza ironica e di senso dell’umorismo, ma anche di quell’aleatorio ma provvidenziale sentimento scaramantico per il quale sai che quando si sogna, ovvero si rappresenta la morte di una persona, gli si allunga la vita.
MONI OVADIA
da il manifesto