Non succede solo oggi che le esperienze artistiche più avanzate e politicamente trasgressive suscitino biasimo e incomprensioni, e siano censurate, ostacolate, se non represse. Da sempre, la libera espressività comporta reazioni sprezzanti. Il caso del Teatro Valle di Roma ne è la plastica riprova. Un’occupazione che va avanti da tre anni ha strappato quell’opaco sipario dietro il quale si era stratificata una politica culturale pigra e attardata, compiacente con il potere politico, subalterna al mercato.
In una città che ripropone all’infinito materiale repertoriale e antologico, dove il contemporaneo (quando c’è) viene relegato in qualche angoletto residuale, l’avvento di quest’esperienza avventata e sgrammaticata ha improvvisamente (e impietosamente) rivelato l’angustia della programmazione teatrale pubblica. Di fronte allo slancio creativo, alla ricerca artistica, all’azzardo politico del Valle, tutto il resto si è palesato per quel che è: sfiorito, appesantito, ripetitivo.
Un esempio? Solo l’ultimo della serie. La Carmen dell’Orchestra di Piazza Vittorio ha ottenuto una sola data nelle stagione estiva del Teatro dell’Opera. Era l’unica interpretazione originale dell’intero Cartellone: ovviamente, bisognava comprimerla. Pazienza se poi i biglietti si sono esauriti in mezza giornata e si è stati felicemente costretti ad allestire una prova generale aperta al pubblico. E stiamo parlando dell’Orchestra di Piazza Vittorio, la più vivace e significativa realtà artistica nel panorama romano degli ultimi anni. Apprezzata e corteggiata in mezzo mondo, ma qui da noi appena tollerata.
Anche il Valle vive la stessa condizione d’isolamento, al cospetto delle consorterie culturali dominanti, dei sonnolenti consigli d’amministrazione, delle boriose direzioni artistiche, di manager scattanti e occhiuti consulenti. E infatti riceve premi e riconoscimenti solo all’estero, oltreché inchieste e paginoni sulle più prestigiose riviste internazionali. Del resto, a Roma c’è San Pietro e il Colosseo, Caravaggio e Michelangelo, forse Fellini e la dolce vita, forse Pasolini e i ragazzi di vita. E poi? E poi c’è il vuoto della contemporaneità.
Un’esperienza come il Valle uno se la dovrebbe inventare, per dare un po’ di smalto a una città in declino. A Berlino, a Barcellona, a Parigi, questo genere di realtà vengono non solo accolte e favorite, ma perfino finanziate. Il valore immateriale che ne deriva è straordinariamente magnetico, crea un’affascinante suggestione, stimola l’immaginario, dà prestigio e autorevolezza. Il sindaco Marino dovrebbe ringraziarli, i ragazzi e le ragazze del Valle, per quello che fanno e per quello che semplicemente suscitano. Con loro Roma è migliore e, suo malgrado, può contare su un’eccellenza culturale che diversamente non avrebbe.
E invece?
Il sindaco Marino alza il sopracciglio, abbozza un sorriso e invita a «rendere disponibili i locali illegalmente occupati». Della serie: o ve ne andate con le buone o sarò costretto a sgomberarvi. Fantastico, ha capito tutto. Ha intenzione di chiudere l’unico teatro cittadino conosciuto nel mondo, che programma quel che di meglio si produce, che detiene il record di spettatori (e di spettacoli), l’unico aperto anche d’estate, che in secoli di storia non ha mai visto tanta gente e tanto interesse. A volte, si ha l’impressione che davvero non capisca bene dove si trovi e cosa succeda intorno a lui. O che non capisca che la realtà è qualcosa di più ampio e complesso di aridi principi e regole polverose.
C’è un’insorgenza generalizzata di nuove forme dell’agire sociale che nascono dai bisogni, materiali e immateriali. Forme che difficilmente si allineano all’attuale intelaiatura politica e giuridica. Hanno a che fare con il bene comune, che è qualcosa di più e di meglio del bene pubblico, e che infatti non è né pubblico né privato. E’ la tensione a riappropriarsi di ciò che è proprio, di quel patrimonio collettivo che la politica non garantisce più e che per questo va sottratto al mercato e restituito alla società perché legittimamente ne goda.
Qui non si tratta di stabilire se e quanto sia legale occupare uno stabile abbandonato per riconvertirlo a un uso sociale o culturale. Qui si tratta di schierarsi. O si sta con i bisogni o si sta con gli interessi.
SANDRO MEDICI
da il manifesto