La campagna di sensibilizzazione e l’attivismo per contrastare la violenza contro le donne che negli ultimi tra anni ha lavorato su questo terreno in maniera instancabile, ha fallito. Ma come? E perché si è arrivati a tanto? Il progressivo declino dell’attenzione sulla questione violenza da parte delle istituzioni italiane di fronte alle continue sollecitazioni da parte della società civile, che ha avuto un picco nel 2012 per poi scemare non verso l’archiviazione ma una vera e propria distorsione, creerà seri danni a tutto il Paese. La dimostrazione di questa volontà di non affrontare in maniera adeguata il problema, è stata prima di tutto l’aver costretto alle dimissioni la ministra delle pari opportunità, Josefa Idem, che è stata l’unica ad aver iniziato un serio percorso di costruzione di dialogo che mettesse in collegamento chi della materia si occupa da tempo con professionalità, e le istituzioni. Un progetto che avrebbe coinvolto tutta la società civile “esperta” (tutta) ma che probabilmente avrebbe dato fastidio a chi ancora è al governo, un fastidio che ne ha decretato la fine. A questo, si è aggiunta la scelta dell’allora presidente del consiglio, Enrico Letta, di non nominare una nuova ministra delle pari opportunità ma di dare tutto in mano alla viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, che malgrado la buona volontà ha deciso di coinvolgere nei 7 tavoli creati per portare avanti il progetto lasciato in sospeso, solo alcune delle associazioni coinvolte dalla Idem con una forma di interlocuzione che ha avuto come conseguenza sia il malcontento di alcune organizzazioni che partecipavano a questi tavoli ma soprattutto hanno provocato una spaccatura all’interno della società civile che si era mossa fino a quel momento in maniera compatta, malgrado le differenze, producendo un lavoro pratico e culturale di alto livello, apprezzato anche all’estero. Una scelta che ha prodotto uno sfilacciamento interno e ridotto drasticamente l’impatto di questa battaglia di civiltà nei confronti delle istituzioni, come oggi dimostrano i fatti.
A quel punto il nuovo presidente del consiglio, Matteo Renzi, ha potuto tranquillamente fare quello che ha fatto: nominare 8 ministre su 16 senza una ministra delle pari opportunità che portasse avanti quel lavoro specifico – un lavoro che avrebbe migliorato il nostro Paese così arretrato sulle questioni di genere al di là dell’apparenza – e infine scegliere di non dare nessuna delega di quel ministero fermando questo percorso, immobilizzandolo. La conseguenza di tutto ciò è stato: un calo di attenzione generale nell’attesa, la possibilità di far passare in cavalleria le direttive Onu — sia Cedaw che della Special Rapporteur Rashida Manjoo — e soprattutto mettere nel cassetto la Convezione di Istanbul ratificata dal parlamento nel maggio dell’anno scorso, e che diventerà effettiva ad agosto con la ratifica di dieci Paesi. Oltre a questo, persone singole, organizzazioni, associazioni varie che non si sono mai occupate di femminicidio, se da una parte sono state sensibilizzate, dall’altra hanno visto un possibile business e improvvisando, hanno messo in piedi progetti e proposte che non tengono conto dell’esperienza di quelle associazioni e delle reti che con un lavoro sul campo di 20 anni lontano dai riflettori, hanno costruito alcune linee guida del contrasto alla violenza contro le donne in Italia, contribuendo al progresso del Paese malgrado finanziamenti sempre incerti e sul filo del rasoio.
La decisione quindi di far arrivare senza precise indicazioni e criteri chiari di assegnazione che rispettino il lavoro svolto finora, quei 17 milioni di euro stanziati per due anni nel pacchetto sicurezza varato nel 2013 — e in cui compaiono anche norme sul contrasto alla violenza sulle donne – nelle casse delle Regioni, sembra chiarire la vera intenzione di questo governo: il disinteresse totale nel contrastare il femminicidio in Italia. Ma soprattutto dimostra a chi sedeva a quei tavoli convocati dalla viceministra Guerra e pensava di aver risolto tutti problemi, che le battaglie si vincono insieme e che basta un attimo per essere spazzate via.
Pochi giorni fa, prima in un articolo apparso sul Sole 24 ORE (27 giugno 2014) e poi in un comunicato di DiRe (la rete che raggruppa numerosi centri antiviolenza in Italia), si fa presente che i soldi stanziati per contrastare la violenza contro le donne non solo saranno destinati alle Regioni senza direttive nazionali chiare ma che queste provvederanno a finanziare progetti su base di bandi e in base a una mappatura del territorio dai “criteri illeggibili”, e che di questi 17 milioni ai Centri Antiviolenza e Case Rifugio, toccheranno 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro in due anni, una cifra che porterà molte strutture che da tempo lavorano con esperienza collaudata, a chiudere e obbligherà molte italiane a rimanere a casa e a subire violenza fisica, sessuale, psicologica, economica (dato che l’80% in Italia è violenza domestica), o a rivolgersi a strutture che sperimenteranno su di loro come si opera quando una donna si rivolge a un centro. DiRe precisa che “tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati”, e che questa scelta del governo contravviene in modo netto alla “Convenzione per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica” (Istanbul 2011), che l’Italia ha ratificato e che prevede: “adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile (Articolo 8)”.
Si sottolinea cioè il fatto che mentre la Convenzione di Istanbul privilegia il lavoro dei centri e strutture indipendenti creati e gestiti dalle donne stesse e con un’esperienza solida alle spalle — che sono una garanzia per le donne che chiedono aiuto – il governo sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale, mettendo le basi per un controllo capillare di quello che succede nelle case italiane e per poter pilotare al meglio non l’uscita dalle donne dalla violenza e la loro indipendenza ma il ristabilimento dello status quo (siamo sempre un Paese con un forte impianto cattolico), tralasciando le cause e quindi impedendo un vero e proprio percorso di superamento della discriminazione di genere: un’idea che trapelava già da parte di alcune forze politiche all’interno del dibattito parlamentare, nonché dallo stesso pacchetto sicurezza approvato dalla maggioranza del parlamento, e fortemente voluto dal ministero degli interni dove come consigliera delle pari opportunità c’è Isabella Rauti.
I centri che già ci sono in Italia e che sono nati venti anni fa dalla volontà delle donne e della società civile per supplire al grave deficit istituzionale in materia di contrasto alla violenza contro le donne, hanno saputo nell’arco di tutto questo tempo, aggiornarsi a livello internazionale e portare avanti un dibattito profondo sulla discriminazione di genere che è indispensabile per affrontare il problema. E il pericolo è che sia le strutture istituzionali, che anche gli amici degli amici che approfittano del bando per mettere su uno affare, non solo non saranno in grado di rispondere alle domande delle donne vittime di violenza garantendo anonimato, ascolto competente e soprattutto il rispetto della volontà delle donne, ma che facciano tornare indietro un intero Paese che già non brilla in materia.
Per non dover tornare a un non augurabile Medioevo, l’unica via è quindi quella del confronto e del ricompattamento all’interno della stessa società civile e dell’attivismo, e di tutte quelle associazioni e organizzazioni che si erano ritrovate insieme nella conferenza indetta dall’allora ministra Idem, dove figuravano più di cento associazioni specificamente operanti sulla violenza contro le donne, e che oggi dovranno riprendere la parola in modo autorevole e determinante tutte insieme.
LUISA BETTI