Presentato al Senato il decimo rapporto annuale Federculture. Si tagliano i fondi, crollano gli investimenti privati, la legge di stabilità aumenta le tasse. Ma la cultura resta il “petrolio d’Italia”, il marchio “made in Italy” da vendere nel mondo. Più turismo, più commercio mentre l’austerità divora risorse pubbliche, sponsor, fondazioni, privati
Il culto del marchio «Made in Italy» è inversamente proporzionale alla realtà dell’istruzione, della produzione culturale e del finanziamento pubblico alla cultura in Italia. Tanto più è forte l’evocazione del primo, legato ad esempio all’enogastronomia «chic» e «slow» o alla mitologia delle start up tecnologiche o ad una generica «imprenditoria giovanile», tanto più forti sono le conseguenze dei tagli ai fondi pubblici. L’evocazione del capitale simbolico cancella gli effetti reali della crisi, ma non una contraddizione di fondo che nell’era renziana si è fatta ancora più potente.
Anche perché, come ha fatto notare ieri al Senato il presidente di Federculture Roberto Grossi durante la presentazione del decimo rapporto dell’associazione, la prossima legge di stabilità rischia di minare alla base la governance pubblico-privata che tiene ancora in piedi i beni culturali. Il regime fiscale agevolato che permette alle fondazioni bancarie di erogare fondi per attività culturali verrà messo in crisi dall’aumento dal 5% al 77,74% della quota imponibile degli utili. Il sistema pubblico-privato vagheggiato ancora ieri dal ministro dei beni culturali (Mibact) Dario Franceschini resterà al palo. In virtù della mossa del suo governo, nei prossimi anni saranno possibili tagli anche del 15–20%. Secondo Federculture, le erogazioni delle fondazioni bancarie sono crollate del 31,2% dal 2006 e il 2011, e del 9% nel 2012 quando i contributi erano pari a 305 milioni. Quelle dei privati sono calate del 26,6% (-45,3 milioni di euro). Le sponsorizzazioni del 41% (da 269 a 159 milioni di euro) tra il 2008 e il 2013.
Un altro colpo al sistema a gestione mista, con il quale lo Stato italiano ha cercato di rimediare al taglio del 23,7% dello stanziamento per il Mibact in cinque anni (dal 2008 al 2013), verrà dai tagli agli enti locali. Sono quelli contenuti nella legge di stabilità per i comuni, a cui si aggiungono i fondi tagliati alle province (-45,8%) e i 52 milioni delle Camere di Commercio, istituzioni abolite e ristrutturate. Così facendo, ha detto un paio di settimane fa il direttore del Piccolo Teatro di Milano Sergio Escobar, il governo sta mettendo a rischio anche la produzione teatrale in Italia.
In uno scenario recessivo per la produzione culturale, il teatro è il settore che se la passa peggio. La fruizione è crollata dell’8% nel 2013, la spesa delle famiglie per vedere uno spettacolo del 15,5%. Negli ultimi due anni, è diminuita del 7%. I dati parlano da soli: dal 2005 al 2012 i fondi sono stati tagliati del 26%, passando da 2,6 miliardi a 1.935 miliardi di euro. Siamo così arrivati a un circolo vizioso: il governo stritola fiscalmente e finanziariamente regioni e comuni che sono i principali sostenitori della cultura teatrale in Italia, ma allo stesso tempo auspica un rafforzamento della governance tra loro e i privati che non investono più.
Al tempo di Berlusconi, lo Stato ha pensato di fare il biscazziere per rimediare ai suoi tagli. Il Lotto però non è più la miniera d’oro di una volta. Per Federculture i proventi stornati alla cultura sono crollati del 78%, passando da 134 milioni a 29 milioni di euro tra il 2008 e il 2013.
La recessione che ha travolto i beni culturali e la produzione immateriale è duplice: da un lato, c’è quella indotta dallo Stato con la sua austerità; dall’altro c’è il crollo della spesa culturale (-3% nel 2013) dovuto alla disintegrazione dei salari e alla disoccupazione di massa. In mezzo c’è l’avanzato processo di deculturazione e l’analfabetismo di ritorno indotto dai tagli alla spesa pubblica per l’istruzione (-4,2%); l’alto tasso di abbandono scolastico (il 17%); la scomparsa di 68 mila immatricolati all’università; il basso tasso di laureati (21,7% tra i 30-34enni). Tutti eventi registrati dall’inizio della crisi che hanno aggravato problemi strutturali sui quali si è abbattuta la valanga dell’austerità.
I rimedi prospettati ieri sono pannicelli caldi. Si è parlato di «crowdfunding» (i casi singolari dei Musei Civici di Venezia o il museo egizio di Torino che si autofinanziano); «defiscalizzare i consumi culturali delle famiglie»; «facilitare» le start up giovanili senza aggravi per le casse dello Stato. Si punta cioè su bonus, finanziamenti a pioggia e auto-impresa, e non sullo sblocco dei finanziamenti, del turn-over e di una nuova gestione pubblica della cultura.
Il presidente del Senato Grasso ha sintetizzato così l’orientamento neoliberale: la cultura deve «guardare alla logica dei mercati per modulare la sua offerta. Senza dimenticare che l’Italia è un Paese fondato sulla bellezza». Questa è la base del «patto per la cultura» con il quale il ministro Franceschini vuole «integrare cultura e turismo». Un altro modo per rafforzare gli equivoci del «made in Italy» (il «petrolio d’Italia») senza affrontare le sue contraddizioni di fondo.
Musei: la caduta vertiginosa della Roma artistica
I musei romani, nel corso del 2013, hanno perso «appeal», con una emorragia di 5,7% dei visitatori, un calo iniziato già nel 2012 dopo anni di crescita di pubblico: agli inizi del terzo millennio, si era segnato addirittura un +57% che lasciava ben sperare. È un dato chiarissimo: la politica dei tagli e dell’austerity sulla cultura non paga, anxi, più ritiri fondi, più perdi in economia, arrivando a un vero e proprio crollo. Emblematico il Macro, museo di arte contemporanea su cui si è speso e puntato moltissimo, oggi ridotto a veder scendere il proprio pubblico del 52%. Meglio vanno il Maxxi (+43%, ma forse è aiutato da iniziative spesso bislacche e non certo dalle grandi mostre di un tempo) e l’Ara Pacis (+37%).
ROBERTO CICCARELLI
da il manifesto