L’affluenza alle urne in calo non è una novità, e non è una tragedia. I Partiti di massa sono ormai del tutto scomparsi, la politica organizzata riguarda soltanto una piccola parte di cittadini, tutti gli altri vivono le contraddizioni della vita quotidiana attivandosi perlopiù solo di fronte alla necessità individuale.
La passività del rito elettorale è un elemento insito nel sistema rappresentativo stesso fin dalla sua nascita, scalfito soltanto dai partiti socialisti, comunisti e popolari del ‘900. La farsa elettorale premia la fazione più potente secondo i parametri del mercato comunicativo e del controllo sociale, tanto più che in una fase di profonda crisi economica il voto assume più facilmente i connotati di favore di scambio, che di esercizio democratico. Nel novero soverchiante di astenuti c’è di tutto.
Se la trasformazione, o pure il governo, dell’esistente non coinvolge direttamente e quotidianamente la partecipazione popolare, perché questa dovrebbe miracolosamente suscitarsi ogni 5 anni dietro pedante richiesta dei media di regime? Certo, i media riescono a incanalare la legittimazione delle urne verso questo o quel comitato d’affari, il PD oggi, il M5S ieri, la “nuova” Lega forse domani, e oggi come ieri la cosca malavitosa locale, ma non possono di certo spingere volutamente milioni di persone a interessarsi della cosa pubblica: ci vorrebbero troppe informazioni, sarebbe troppo rischioso.
La Confindustria governa con o senza elezioni, che votino tutti o che non voti nessuno, la differenza di certo non la fa la democrazia liberale: fintanto che il potere economico e politico resta saldo nelle mani delle classi borghesi, saranno queste a contendersi la gestione dello Stato, con qualunque mezzo. Le classi popolari e lavoratrici non sono organizzate, tantomeno lo sono per la presa del potere: ecco perché che votino o che non votino, il risultato cambia di poco.
Certo, è più facile ora svergognare il potere costituito, nemmeno più in grado di giustificarsi con la vittoria alle urne, ma è anche sempre più assente la longa mano del controllo popolare dalle istituzioni statali. Se Atene piange, Sparta non ride. Questo è il modello ideale di gestione politica borghese: gli sfruttati si lasciano sfruttare mentre i capitalisti si spartiscono il potere, anche istituzionale.
La colpa non è del PD, o meglio, non c’è colpa. Il PD è il Partito del grande capitale, ne fa gli interessi generali mentre raccoglie un consenso trasversale. Sarebbe ipocrita accorgersene solo ora, e sarebbe davvero minoritario pretendere di assegnare le intere sorti del Paese a un Partito che ne rappresenta solo una minima parte. Mentre il PD smantella lo Stato, dove sono i comunisti? A ben vedere, forse, è più colpa nostra che d’altri.
La giostra politica è interna a quel triangolo di potere economico-finanziario, potere statale e pensiero dominante che si autodetermina secondo l’equilibrio di forze esistente. Governa il neoliberismo perché governano i grandi monopolisti, nella piena complementarietà abilmente manovrata tra consenso sfacciato, quello del PD ad esempio, e falso dissenso, quello dello sciovinismo neofascista tanto quello socialdemocratico riformista.
A Renzi interessano 600 persone da 1.000€ a cena, non 20.000 persone da 30€ a tessera. Fa bene a rallegrarsi del risultato elettorale, inutile per noi rinfacciargli la bassissima affluenza.
Se venissimo ai nostri dati elettorali, del resto, noteremmo subito che rispetto alle scorse regionali Rifondazione ha perso 14mila voti in Emilia Romagna e 31mila in Calabria, mentre SEL è rimasta pressoché invariata. Insieme, le due sinistre, perdono rispetto alle recenti europee più di 10mila voti in entrambe le regioni in cui SEL, come da copione universale, resta nell’accogliente alveo democratico.
Certo, questa volta ci siamo presentati ovunque nella stessa forma (noi di Rifondazione, mascherati da “Altra…”), stesso simbolo e stessa collocazione, e in Emilia Romagna abbiamo persino superato lo sbarramento, proprio grazie alla bassa affluenza, eleggendo un compagno. Ma continuiamo a perdere radicamento, a mancare di visione complessiva e organica del mondo e a rinunciare a indicare obiettivi più alti, difficili, lontani che il superamento del 3% uniti a sinistra: come sappiamo che fare di un eletto, se non sappiamo cosa fare senza eletti?
Se il nostro obiettivo è la rivoluzione parlamentare, ne siamo tanto distanti quanto dalla rivoluzione armata. Ma anche se il nostro obiettivo fosse, più saggiamente, l’utilizzo dell’arena parlamentare per amplificare e rafforzare le nostre posizioni nella società.
Ora, di certo, non si tratta di mettere in discussione un processo ormai avanzato di aggregazione a sinistra, che fortunatamente si pone in alternativa e contro il centro democratico, ma di tornare a riflettere sul senso e l’utilità dei comunisti. Iniziando dalla ricostruzione ideologica e dalla ricomposizione organizzativa.
Uniti a sinistra non può bastare. Non solo perché non si sta unendo tutta la sinistra, e non è ancora del tutto chiaro a sinistra di chi e di cosa ci si pone, ma perché persino il risultato elettorale non è lusinghiero (parametro che pare essere fondante delle analisi di fase dei nostri dirigenti politici da ormai troppi anni).
L’urgenza profonda è l’organizzazione delle classi lavoratrici su basi non solo economiche ma anche politiche, e a ciò è inevitabile e necessaria la rifondazione di un Partito Comunista conseguente. Dirigere i conflitti, e non solo aderirvi, attivare la partecipazione quotidiana, e non solo chiedere un consenso passivo, costruire scientificamente coscienza di classe, e non solo proporre ipotesi opinabili di riforma del sistema.
Le elezioni non per forza fotografano i rapporti di classe esistenti, ma di certo possono aiutare a delinearli. Con un’astensione al 60% diventa però più complicato, se non altro perché ad astenersi sono masse di lavoratori i cui indirizzi, i comunisti, quantomeno dovrebbero essere in grado di prevedere, se non di influenzare. Se è l’esito di una tornata elettorale regionale a spiazzarci, figuriamoci la lotta di classe.
Il Comitato Politico Nazionale del PRC ha appena arrestato una precipitazione organizzativa verso la liquefazione dei comunisti nella “sinistra unita”, secondo un principio di doppio tesseramento e voto individuale che, ora come ora, avrebbe significato lo svuotamento del Partito rendendone inutile ogni funzionamento interno (dalla democrazia interna alla formazione politica, dalle campagne di massa alle iniziative di radicamento) a completo vantaggio del “soggetto unitario”, in aggiunta con l’adozione acritica del “manifesto Revelli” e la cessione completa di sovranità in materia elettorale.
Per gli iscritti e militanti di Rifondazione si tratta ora di operare affinché i comunisti siano protagonisti veri, e consapevoli, dell’aggregazione della sinistra nel vivo delle contraddizioni sociali, dei conflitti, delle lotte. Il comitato elettorale della sinistra postideologica e anticomunista non ci interessa, l’organizzazione del fronte popolare per la costruzione di un’alternativa di società ci vedrà protagonisti in ogni fabbrica, in ogni scuola, in ogni quartiere.
Valiamo molto di più del 3% del 30%. Basta smetterla di agognare le briciole, e tornare a lottare per rovesciare il tavolo.
MARCO NEBULONI
Comitato politico nazionale – Rifondazione Comunista
da Collettivo Stella Rossa.it