Il neoliberismo contro la democrazia

«La dittatura dello spread» di Alessandro Somma per DeriveApprodi. La ricerca delle origini dell’ideologia neoliberista portano alla crisi tedesca degli anni Trenta. La democrazia e la classe operaia erano il nemico interno che andava combattuto da uno stato forte

Immagine19Nel noto saggio, Le origini culturali del Terzo Reich, pubblicato nel 1968, lo storico tedesco, naturalizzato statunitense, George Lachmann Mosse, analizzando il processo di incubazione della cultura nazionalista del Volk del XIX secolo che sarebbe sfociata poi nell’ideologia nazista, scriveva: «la rivoluzione nazista fu la rivoluzione borghese “ideale”, in quanto “rivoluzione dell’anima”, che in effetti non suonò minaccia per nessuno dei legittimi interessi economici della classe media; al contrario, l’ideologia nazional-patriottica aveva di mira, all’interno, un altro nemico».

Il bel libro di Alessandro Somma La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito (Derive&Approdi, euro 20), pur nella differenza disciplinare (Somma è un giurista, docente di Diritto comparato europeo a Ferrara), sembra ripercorrere lo stesso iter di analisi. Il ponderoso e denso saggio (300 pagine), indaga le origine culturali dell’unificazione europea sino all’attuale moneta unica, a partire dal punto di vista dell’evoluzione del pensiero politico tedesco.
La storia ha inizio con un’approfondita analisi del pensiero ordoliberista degli anni Trenta: decennio cruciale che segna una cesura con la tradizione liberale e influenza in modo determinante il futuro pensiero della seconda metà del Novecento. Come già analizzato da Michel Foucault nella Nascita della Biopolitica, il pensiero ordoliberale ha accompagnato l’ascesa del nazismo, in una sorta di complicità complessa (Alexander Rustow e Jörg Rupke abbandonano la Germania nazista, emigrando entrambi a Istambul, Ludwick Ehrard rimane in Germania sino a diventare ministro dell’economia con Adenauer per poi succedergli). Il pensiero ordoliberale, infatti, giustificava la necessità di uno Stato forte (sino a contrastarne le forme democratiche) a vantaggio di un sistema economico in grado esprimere la propria potenza concorrenziale, senza il vincolo posto dal conflitto capitale-lavoro («il nemico interno»). Il mantenimento dell’ordine proprietario portava a privilegiare la libertà economica a scapito delle libertà politiche.

IN CONTINUITÀ CON IL NAZISMO

Dopo l’avvento e la caduta del nazismo, la rinascita economica tedesca doveva per forza svolgersi all’interno di un contesto formalmente democratico, sia per contrapporsi al modello sovietico sia per favorire il sostegno economico statunitense. Due sono stati i pilastri della crescita economica della Germania occidentale: la riforma monetaria voluta da Adenauer e applicata dall’allora ministro dell’economia Ludwick Ehrard e il lancio della cosiddetta «economia sociale di mercato», che pose le basi per lo sviluppo della governance del lavoro (Mitbestimmung).
Il libro di Somma analizza in dettaglio le origini culturali del modello sociale tedesco, definendone l’ordinamento socio-economico già nel 1938 al Colloquio Walter Lippmann in previsione della caduta del nazismo: alcune di quelle linee-guida post-nazismo sarà proprio il nazismo a stravolgerle. Come sottolineato da Dardot e Laval ne La nuova ragione del mondo è in questo momento storico che si mettono le basi per la nuova razionalità neoliberista. Somma sottolinea come tale fondazione abbia origine nel periodo nazista.

L’«economia sociale di mercato» del secondo dopoguerra si scontra inizialmente con la visione socialdemocratica della «democrazia economica». Tuttavia, dopo la svolta di Bad Godesberg (1959), le due visioni, entrambe volte a dare risposte in grado di annullare il conflitto tra capitale e lavoro (la prima tramite un welfare sociale subordinato alla libera concorrenza del mercato, il secondo tramite una cogestione nelle decisioni produttive tra sindacato e padronato), tendono a convergere in quello che oggi possiamo definire il modello tedesco: un forte welfare selettivo e fortemente condizionato (dove l’intrusione dello Stato nella sfera privata dei cittadini è particolarmente forte) congiunto alla piena libertà imprenditoriale sulla base del sistema di cogestione.
Ha ragione Somma quando afferma: «I modelli teorici e le pratiche ordoliberali, di cui l’economia sociale di mercato costituisce uno sviluppo, indicano una combinazione di riforma delle libertà economiche e compressione delle liberta politiche». E tale combinazione, che nel periodo tra le due guerre favorì in Europa la nascita dei totalitarismi nazista e fascista, non scompare nel dopoguerra. Il primato del nazionalismo economico prese piede anche oltreoceano, come testimonia il maccartismo in Usa. La posta in gioco diventa il delicato rapporto tra principi di equalitarismo e efficienza (presunta) dell’economia di libero mercato, ovvero tra libertà politiche e libertà economiche. Anche se lo sviluppo di un costituzionalismo incentrato sul principio di uguaglianza prende piede in molti paesi (la costituzione italiana ne è l’esempio più eclatante), tuttavia tale rapporto si declina in concreto e nella pratica, all’interno dei singoli Stati-nazione, a vantaggio delle seconde e a scapito delle prime.

Analizzando le differenze tra i diversi capitalismi, lo storico francese Michel Albert distingue tra «capitalismo renano» e «capitalismo neo-americano» (senza tener conto del «capitalismo familiare» tipico dei paesi del Sud Europa). Il primo, predominante in Germania, NordEuropa e Giappone si fonda sull’esistenza di un forte Stato in grado, tramite politiche sociali adeguate, di attutire gli effetti distorsivi del libero mercato, il secondo, esito dei processi di ristrutturazione in Usa e in Inghilterra di Reagan e Thatcher, si fonda sul primato del mercato, relegando lo Stato ad un ruolo minimo.

A tale riguardo, il processo di integrazione europea ha come intendimento l’individuazione di una «terza via», dove, secondo le parole di Mario Monti, si invoca una «maggior disponibilità degli Stati membri con una tradizione di economia sociale di mercato ad accogliere integralmente la concorrenza, e dei paesi di tradizione anglosassone a risolvere alcuni problemi sociali con misure mirate».

In realtà tale «terza via» si è rivelata una chimera. La governance europea che ne è scaturita è una versione di ordo-liberismo (compressione delle libertà politiche e delle istanze democratiche in nome della ragion di Stato) condito con una formale concorrenza di mercato comunque in grado di mantenere una struttura di potere nei gangli essenziali della valorizzazione capitalistica (materie prime e finanza, in primo luogo) e lo smantellamento progressivo dell’economia sociale di mercato in nome della privatizzazione del welfare sul modello anglosassone.

CONVERGENZE GLOBALI

La precarizzazione del mercato del lavoro in Germania inizia nei primi anni 2000, le politiche di austerity minano sempre più la struttura del welfare europeo, il processo di indebitamento privato europeo converge con quello anglosassone, le decisioni politiche ed economiche si concentrano sempre più in poche mani, sganciandosi da qualsiasi controllo democratico. Il primato delle gerarchie economiche si consolida sempre più sino a diventare un vero e proprio regime nel quale il monopolio della violenza non viene solo esercitato dall’ordine poliziesco ma soprattutto dall’ordine economico.

Parafrasando Mosse, possiamo quindi dire; «l’unificazione monetaria europea» è la rivoluzione borghese «ideale», in quanto «rivoluzione dell’anima», che non suona minaccia per nessuno dei legittimi interessi economici della nuova classe di rentier.

ANDREA FUMAGALLI

da il manifesto

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