Segnalo e consiglio vivamente la lettura di questo reportage uscito sul Manifesto. Quando alcuni anni fa, dopo il congresso di Chianciano del 2008, abbiamo iniziato a lavorare sulle prospettiva della costruzione del partito sociale che era stata una delle indicazioni strategiche uscite da quel congresso, ricevemmo molte critiche e plateale disinteresse condito da ironie di ogni genere da parte dell’area del PRC più politicista e non solo da quella a dire il vero. Si sosteneva che con le pratiche sociali noi non prendevamo voti, che il ruolo di un partito era un altro ecc. ecc. Nonostante queste critiche, e nonostante la difficoltà della fase in questi anni abbiamo lavorato in questa direzione cercando di capire come, nella crisi dell’azione collettiva, costruire pratiche sociali in grado di connettersi con i settori popolari più colpiti dalla crisi cercando di essere utili e solidali. Questo reportage di Angelo Mastrandrea, che racconta l’esperienza greca di Syriza ci dice di come l’intuizione che avevamo avuto, nel tentativo di costruire una rete di mutuo soccorso, sia stata giusta e che meritava l’impegno corale del partito. Ma un’intuizione seppur positiva deve misurarsi con la realtà concreta della società, e noi seppur con molte difficoltà abbiamo provato a farlo, nelle emergenze ambientali come in quelle sociali. Ora occorre avere il coraggio di fare un salto in avanti, e di mettere a disposizione queste pratiche sociali che abbiamo sperimentato in uno spazio più largo, nel quale dismettere ogni settarismo senza dismettere la nostra radicalità. Non dobbiamo quindi prendere solo esempio da Syriza e dalle sue pratiche sociali, ma organizzare il partito sociale in un campo più largo di quello che siamo stati fino ad ora. Concepirlo come processo aperto nel quale misurarsi su tutti i livelli, come un motore di un processo che sia in grado di riannodare i fili della solidarietà popolare. Per questo è necessario valorizzare le esperienze che in questi anni abbiamo portato avanti cercando di connetterle con le altre forme di autorganizzazione sociale, come una delle articolazioni essenziali della ricostruzione di una sinistra anticapitalista e antiliberista nel nostro paese capace di combattere il neoliberismo e arginare la barbarie.
FRANCESCO PIOBBICHI, Direzione nazionale PRC
Nella sala d’attesa della Kifa alle spalle del Municipio di Atene ogni paziente rimane ad aspettare il suo turno disciplinatamente. C’è chi aspetta di presentare la prescrizione medica e prendere i farmaci che gli spettano, chi è in fila per una visita odontoiatrica e chi per una consulenza psicologica. Caterina si occupa di smistare il traffico, indirizzando i pazienti là dove serve. Snocciola qualche cifra: «Da quando abbiamo aperto, nel gennaio del 2013, sono state effettuate 2.364 operazioni dentistiche, 5.580 visite, 2.500 medicazioni e una ventina di operazioni ambulatoriali». A prima vista sembra di essere finiti in un ambulatorio medico come tanti altri, ricavato in un confortevole appartamento del centro della città. Invece si tratta di una Kifa, un acronimo che indica una clinica e farmacia sociale. Qui arrivano a farsi visitare o a prendere medicinali, a frotte, gli esclusi dalla sanità pubblica.
Sedute ad attendere il loro turno, due signore confabulano fra loro, alcuni anziani rimangono in silenziosa aspettativa. In un angolo, un signore magro, con la barbetta bianca, ha voglia di parlare. Racconta di essere espatriato al tempo dei colonnelli e, dopo una vita tra Stati Uniti e Canada, una decina d’anni fa è tornato in Grecia. In tempo per assistere al crollo. «È normale che siamo andati a finire così, colpa dei governi ma pure del popolo. Abbiamo vissuto troppo al di sopra delle nostre possibilità e ora rischiamo di tornare indietro di cinquant’anni», dice.
La clinica sociale si regge sul volontariato. Ventotto dentisti si alternano gratis, fuori dal loro orario di lavoro, a garantire cure per tutti, e lo stesso fanno psichiatri, psicologi, pediatri. Tra i danni più gravi provocati dall’austerità imposta alla Grecia, quelli alla salute delle persone sono probabilmente i più pesanti. Solo ad Atene hanno chiuso otto ospedali, mentre la spesa pubblica per la sanità in Grecia è stata ridotta del 25 per cento tra il 2008 e il 2012. L’assicurazione sanitaria è garantita solo a chi lavora e con la disoccupazione che affligge più di un terzo della popolazione questo è diventato un problema socialmente devastante. Ecco spiegato perché le cliniche sociali sono affollate come e più di un qualsiasi ambulatorio privato o pronto soccorso pubblico: nelle Kifa si viene per ritirare medicine altrimenti troppo costose o per visite specialistiche altrimenti fuori portata dalle tasche di una fascia di popolazione espulsa dal mondo del lavoro o con redditi ormai da fame. Su undici milioni di greci, si stima che almeno tre milioni oggi siano senza copertura sanitaria, quasi uno su quattro. «Ma ci sono anche tanti che, pur avendo la copertura, non riescono a pagarsi cure specialistiche o le medicine, visto che persino un esame del sangue arriva a costare un centinaio di euro», spiega Caterina.
Questo spiega il proliferare di forme di autorganizzazione sociale. La rete di mutuo soccorso è estesa e opera come una sorta di welfare parallelo, spesso clandestino. Oltre alle cliniche sociali, «ci sono medici che accettano di visitare gratis i pazienti nel loro studio e altri che fanno piccoli interventi chirurgici. Quando sono necessari esami particolari, indirizziamo i pazienti in ospedali dove abbiamo dottori amici che li fanno di nascosto». La situazione è così tragica che alle cliniche sociali si vede davvero di tutto: «Pensa che qui si sono presentati persino detenuti in manette, accompagnati dalla polizia». E i farmaci? «Ci arrivano attraverso la rete Solidarity4all, che li raccoglie e poi li smista alle cliniche e farmacie sociali. Altri ci vengono portati dalla gente. Spesso si tratta di donazioni dei familiari di persone che muoiono».
Quella che ho sotto gli occhi è una sorta di resistenza silenziosa, sotterranea, che si affianca e in molti casi ha preso il posto della rivolta di piazza che tra il 2008 e il 2009 incendiò piazza Syntagma e il quartiere di Exarchia, e che di tanto in tanto riesplode con forza. Come un paio di settimane fa, quando lo sciopero della fame di un giovane anarchico appena ventunenne, Nikos Romanos, che protestava per l’elementare diritto a sostenere un esame all’università, ha rischiato di togliere il coperchio a una pentola ancora in ebollizione.
Attorno al Politecnico ci sono ancora i resti della battaglia. Marmi divelti tutt’attorno ai resti dell’ingresso sfondato dai tank dei colonnelli, il 17 novembre del 1973, quasi a mantenere un filo tra la rivolta di allora e quelle di oggi. Negozi sbarrati e un’aria da ribellione «no future», nonostante i locali della movida giovanile di Exarchia siano frequentati come al solito. La lapide che ricorda l’uccisione di Alexis Grigoropoulos è circondata di murales, di tanto in tanto qualcuno passa, sosta, fotografa, lascia una scritta. La strada è stata reintitolata al giovane ucciso, come la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Alexis aveva 16 anni e si accasciò tra le braccia del suo grande amico Nikos Romanos, la sera dell’8 dicembre del 2008, fulminato dalla pallottola di un poliziotto.
«Quel giorno ha cambiato la storia della Grecia, perché la battaglia di quei giorni ha costituito il propellente che ha trasformato Syriza, in brevissimo tempo, da un partitino del 3 per cento alla principale forza politica del Paese», sostiene Adamos Zachariades, seduto davanti al suo computer nella redazione di Epohi, un settimanale di sinistra che, pur indipendente come la gran parte delle cliniche sociali e delle altre forme di autorganizzazione greche, costituisce una delle stampelle del partito della sinistra radicale che terrorizza l’Europa. Zachariades è un notista politico, racconta sorridendo di venire da uno dei tanti gruppetti della sinistra extraparlamentare confluiti nel ventre di Syriza («eravamo non più di duecento, ci chiamavamo Rosa», con un chiaro riferimento a Rosa Luxembourg) e insieme riavvolgiamo il nastro degli ultimi dieci anni, per provare a raccontare l’evoluzione di un modello che dal sociale sale alla politica e non viceversa, senza tralasciare la cultura e l’informazione. «Le radici di Syriza sono nel movimento altermondialista. Gli attuali dirigenti si sono formati tutti nei social forum, lì hanno avuto modo di confrontarsi e stringere relazioni in tutta Europa. Un’intera generazione di greci è figlia di quella stagione. In seguito, nel 2006 c’è stato un fortissimo movimento studentesco contro la privatizzazione e Syriza è stato l’unico partito a supportarlo. Ma il punto di svolta vero è stato la rivolta del 2008», spiega Zachariades. L’uccisione di Alexis fece da detonatore a un malessere sociale che covava da tempo: quella che scendeva in strada a scontrarsi con la polizia fu definita da giornali e tv come la «generazione 800 euro». Pochi soldi, maledetti e soprattutto precari, mentre il resto del Paese sprofondava sotto il peso del debito pubblico, della corruzione e dell’evasione fiscale, e l’Europa non trovava di meglio che sostenere quelle forze che avevano contribuito a creare tutto ciò.
Sei anni dopo, chi guadagna 800 euro al mese può considerarsi fortunato. Davanti al ministero dell’Economia mi imbatto in una protesta tutta al femminile. Il palazzo è tappezzato di striscioni e un gruppetto di donne di mezza età è seduto davanti all’ingresso. Una di loro fa la maglia ed è la stessa ritratta a muso duro di fronte a un poliziotto, in una sequenza di foto affisse al muro che testimoniano di uno sgombero. Sono lì da sei mesi, da quando sono state dismesse perché l’appalto per le pulizie è stato aggiudicato a un’altra ditta, a costi inferiori. Si definiscono «vittime della deregulation». Chiedo loro quanto guadagnavano. «Tra i 500 e i 600 euro al mese, dipende dai giorni di lavoro». Sono state mandate via in 595, per un periodo hanno avuto un sussidio equivalente al 70 per cento del salario, ora più nulla. Domando anche chi le abbia supportate, finora: «Syriza, il Kke, gli Indipendenti Greci», una formazione politica di centrodestra nata da una scissione di Nea Democrazia del premier delle larghe intese Antonis Samaras, al quale hanno tolto il sostegno politico.
Proteste del genere non sono una rarità in Grecia. Il malcontento sociale è esondato dai giovani costretti a emigrare alla working class, la classe media è stata spazzata via dalla crisi e il consenso va cercato su questo terreno. Finora, chi è riuscito a trarne giovamento più di tutti è Syriza, grazie alla lezione appresa, a loro dire, nei social forum dove si sono formati i quadri dirigenti: orizzontalità nelle decisioni, supporto alle lotte sociali ma senza bandiere, assistenza materiale e presenza sul territorio. Nel quartiere di Neos Cosmos la vecchia sede del partito è stata riadattata in mensa per i nuovi poveri: «Non c’era mai nessuno, venivano solo gli iscritti per qualche riunione», racconta Argyris Panagopoulos, abitante del quartiere e braccio destro di Alexis Tsipras nelle trasferte italiane (nonché vecchio amico del manifesto). E allora, via le bandiere e cibo per tutti: a ora di pranzo c’è la fila per un piatto caldo.
A Nea Philadelphia, quartiere operaio a una quindicina di chilometri dal centro, il minisindaco di Syriza Aris Vassilopoulos ha trasformato un edificio pubblico in un centro di assistenza ai bisognosi. Vado a incontrarlo il giorno dell’inaugurazione. Nel giardino c’è una festa popolare, si solidarizza con cubani e venezuelani venuti fin qui a sostenere cause internazionaliste, poi tutti a pranzo come a una vecchia Festa dell’Unità. Vassilopoulos racconta i suoi trascorsi politici, dal G8 di Genova al Forum sociale europeo di Firenze («ci sembrava la rivoluzione», dice, non capacitandosi di quello che è accaduto in seguito in Italia), poi passa a elencare i problemi del quartiere, dalla «mafia dei rifiuti» che gli sta facendo la guerra al tentativo di fermare la speculazione per la costruzione del nuovo stadio dell’Aek Atene. Infine spiega che, se è vero che il partito ha accolto diversi transfughi del Pasok e questo fa storcere il naso a molti, la base è invece molto più intransigente: «Noi siamo molto radicali sulle questioni sociali, le persone votano Syriza non per ragioni ideologiche ma perché sostengono che la situazione è così grave che non possono fare altro». La domanda da un milione di dollari è però cosa accadrà se Syriza dovesse andare davvero al governo. Vassilopoulos non nasconde un certo timore che il grande sogno di una «rivoluzione greca» possa evaporare di fronte a una realpolitik fatta di alleanze politiche difficili da gestire, pressioni finanziarie internazionali e imposizioni di Bruxelles. Già nella situazione attuale non è semplice gestire un municipio di 35 mila residenti: «Da quando c’è il Memorandum i trasferimenti del governo sono diminuiti del 70 per cento. Abbiamo meno soldi e contemporaneamente più responsabilità». La soluzione adottata è ancora una volta l’autorganizzazione. Il Comune ha messo a disposizione la struttura, il resto lo fanno i volontari. Dafne Tricopoulos è una di questi. Lavora all’ospedale psichiatrico, guadagna 850 euro al mese “dopo 22 anni di anzianità” e rischia il licenziamento perché, pur non essendoci il corrispettivo greco della nostra legge Basaglia, il governo vuole chiudere i manicomi senza sapere che farne dei suoi ospiti. E nel tempo libero viene alla Solidarity Clinic a dare una mano. Gratis. “Qui c’è molto da fare, più che in altri quartieri. La chiusura delle fabbriche ha creato molti problemi psicologici e di depressione agli ex operai», dice. Giorgios Diamantis, che si definisce ammiratore di Gramsci, vive tutto ciò come un attacco ai lavoratori: «Sia chiaro, per noi quella che stiamo combattendo è una lotta di classe».
Il quartier generale della sinistra sociale è nella centrale via Akadimia. Al settimo piano di un palazzo come tanti altri c’è la sede di Solidarity for all, il network dei centri di mutuo soccorso, delle mense e cliniche social e dei centri di assistenza agli immigrati. In una stanza sono accatastate scatole di medicinali, un’altra è adibita a studio legale, un’altra ancora ospita gli attivisti che si occupano del sostegno al movimento cooperativo. Su un terrazzo dal quale si gode di una panoramica da brivido dello sprawl urbano ateniese sono poggiate alcune confezioni di sapone liquido prodotte dalla Vio.me di Salonicco, la fabbrica recuperata di Salonicco definita da Naomi Klein «un segnale di speranza critica» per l’Europa. Christos Giovannopoulos, uno dei responsabili della campagna, srotola una mappa dell’Attica sulla quale sono indicate le roccaforti della gauche ateniese: farmacie sociali, scuole per immigrati, centri sociali. Sono decine, una legenda spiega il nome e l’attività di ognuna. Ce n’è perfino una che si chiama Lacandona, zapatisti nella giungla urbana ateniese. «Abbiamo tre linee principali di azione: il cibo con le mense sociali e la distribuzione di viveri, la sanità con le cliniche e farmacie, e le cooperative», spiega Giovannopoulos. Solidarity for all aiuta i lavoratori a recuperare le aziende che chiudono: un fenomeno che è cominciato qualche anno fa alla Vio.me e attorno al quale si sta strutturando un vero e proprio movimento.
In nome di Poulantzas
Chissà cosa avrebbe detto oggi Nicos Poulantzas se non si fosse lanciato dalla finestra dell’abitazione di un amico il 3 ottobre 1979 a Parigi, ad appena 43 anni. È quello che si chiedono all’Università Panteion, in un quartiere di palazzoni che non fanno rimpiangere la periferia romana. Il Poulantzas Institute, think thank intitolato al filosofo marxista greco allievo di Louis Althusser, ha organizzato due giorni di dibattito sulla crisi europea, alla quale partecipano studiosi e attivisti, soprattutto del nord Europa. La crisi greca ha provocato come effetto collaterale una riscoperta del Gramsci ellenico, che ebbe lo sguardo lungo sul futuro del continente. Poulantzas aveva già prefigurato un’Europa divisa tra centro e periferia, con i paesi mediterranei sopraffatti sia dal capitale internazionale che dalle avide borghesie nazionali. E sembra che ci abbia preso.
L’aspetto culturale non è secondario nel «modello Syriza». «Abbiamo studiato tanto in questi anni», dice Adamos Zachariades, che snocciola i riferimenti teorici del partito-coalizione che sta rivoluzionando la sinistra europea: da Etienne Balibar a Michel Foucault, passando per Cornelius Castoriadis e Giorgio Agamben.
Alexis Tsipras non è nella sede del partito. L’uomo più temuto d’Europa è in campagna elettorale permanente, impegnato a schivare gli eurosgambetti di Jean Claude Juncker e le spallate del premier Antonis Samaras. Da quando si è delineata l’ipotesi di un ritorno anticipato alle urne e dai sondaggi Syriza risulta il primo partito di Grecia, la temperatura politica del Paese è improvvisamente salita, in misura proporzionale al crollo della Borsa. Nel quartier generale del partito, in piazza Eleftheria, si denuncia il «terrorismo» delle élite interne e di quelle europee, le stesse che hanno ridotto il Paese allo stremo e ora annunciano scenari da Argentina 2001 a partire dal giorno dopo la vittoria dell’uomo che minaccia di ribaltare il dogma tedesco dell’austerità. «Il problema per Tsipras sarà gestire la transizione», dice un analista alla tv. Una fase di turbolenza è considerata quasi inevitabile, «ma noi siamo pronti a tutto», rispondono da Syriza. Dal 2008 per il partito della sinistra radicale un tempo fratello minore, e acerrimo rivale, dei comunisti del Kke, è stato un crescendo: gli ultimi sondaggi lo danno, in caso di probabili elezioni anticipate, tra il 25 e il 28 per cento. La battaglia si combatte nelle piazze e sui media. La galassia Syriza può contare sul quotidiano Avgì e radio Kokkino, nonché sul settimanale d’area Epohi e su istituti culturali come il Poulantzas. Ma non basta. Bisogna sfondare sui media mainstream ed è l’operazione più difficile, anche se qualche breccia si sta aprendo, se è vero che persino una Bibbia del capitalismo globalizzato come il Financial Times è stata costretta ad ammettere, sia pur a malincuore ma con onestà, che gli unici ad avere le idee chiare su come si possa uscire dalla crisi in Europa sono due partiti di fronte ai quali gli alfieri teutonici dell’ordoliberismo sbuffano come i tori come quando vedono rosso: Syriza, appunto, e lo spagnolo Podemos.
Altra stampella fondamentale sono le alleanze internazionali. Metà della sfida di Tsipras si gioca in Europa, e per questo nei convegni di Syriza politici e militanti di Podemos e della tedesca Linke sono di casa. «Ma c’è un problema: nessuna di queste forze è al potere», ricordano in molti., temendo che la sinistra greca possa trovarsi sola al governo, a sostenere una sfida più grande di lei . Il paradosso è che mentre Syriza è proiettata all’esterno, consapevole che la battaglia la si vince o si perde tutti insieme, in Europa molti guardano a Syriza con speranza, sì, ma come spettatori di una partita che si gioca altrove.
ANGELO MASTRANDREA
da il manifesto