Finisce oggi il lungo corso del mandato presidenziale di Giorgio Napolitano, il presidente che volle farsi re o che lo diventò per investitura dei mercati, degli alti scranni della finanza europea, riconfermato proprio per garantire tanto a Bruxelles quanto al padronato italico un più sereno cammino dentro la crisi economica.
Finisce un periodo storico caratterizzato da un espressionismo autocratico della presidenza della Repubblica che ha fatto ricordare le ingerenze cossighiane messe in atto con la picconatura del ruolo del Parlamento a suo tempo, ed oggi con l’imposizione di governi “tecnici” di facciata e nella pratica politicissimi: Monti, Letta e il mai eletto nemmeno in Parlamento rispondente al nome di Matteo Renzi.
Sono finiti i tempi belli, più o meno costituzionali, in cui il capo del governo era un deputato o un senatore appena entrato in una delle due Camere. Con l’era del liberismo finanziario, archiviato (si fa per dire…) il ventennio berlusconiano, Giorgio Napolitano ha inaugurato l’epoca della gestione unilaterale del governo da parte del Quirinale. E ha trasformato l’alto ufficio della presidenza repubblicana in un semi-presidenzialismo tutto italiano, quindi pasticciato ma efficace; tanto che non ci poteva essere governo o maggioranza o ricorso alle urne senza il consenso del Colle più alto. Anche quando le urne erano l’unico, necessario, palese sbocco di una crisi di governo come quella dell’ultimo Berlusconi.
Napolitano l’ha lasciato indietro, al caldo, ad un calduccio ristoratore e gli ha permesso di riprendere quota proprio quando tutto era perduto e il Cavaliere nero di Arcore disperava di poter ancora mettere in moto una qualche macchina politica per riprendere consenso e, quindi, voti.
Ad una giornalista che, proprio in quel frangente, gli chiedeva spiegazioni sull’ “eventuale ricorso alle urne”, il presidente piccato rispondeva: “Ma non dica sciocchezze!” e proseguiva…
Perché ricorrere alle urne sarebbe stata una “sciocchezza”? Non è forse uno strumento costituzionale per ridare equilibrio alla politica del Paese e riconsegnargli un governo degno (?) di questo nome?
Forse era una “sciocchezza” perché avrebbe consentito la formazione di maggioranze diverse da quelle previste dalla Troika, dalla Merkel e dai tanti amici stimati di Giorgio Napolitano.
La consapevolezza dell’incostituzionalità della legge elettorale ogni tanto può far tremare le vene ai polsi anche a chi ha sempre pensato di voltarsi a rimirar le stelle e lasciare che il lavoro sporco lo facessero le “larghe intese”…
Napolitano è il padre anche di queste. Padre e padrone: lui le ha inventate e lui le ha condotte per mano, governo per governo, disastro dopo disastro, facendo crescere in tutta Italia un malessere incontenibile per la politica, distruggendo ogni confine di idealità, relegando nell’angolo più remoto di ogni mente la sensibile e tangibilissima divisione ancora esistente tra valori di progresso e di conservazione. Tra destra, centro e sinistra.
Da buon migliorista, ancora una volta, ha cercato di spostare più a destra possibile l’asse delle politiche economiche: liberismo mascherato da liberalismo, destrutturazione della Costituzione mascherata da grandi riforme virtuose perché lige alla consegna di colpire persino i tanto vituperati “sprechi” della casta e via, via fino alla benedizione dell’ultimo governo, quello di Renzi, nato per la mancanza di quella stabilità numerico – politica che le truffe elettorali dovrebbero garantire ora a questo ora a quel partito che è “maggiore” di altri.
Ciao ciao uguaglianza del voto per ogni singolo cittadino. Basta sentire la parola “premio” e tutti si ringalluzziscono, starnazzano forte per assicurarselo: un po’ di xenofobia a buon mercato rivalutata da un comico genovese, un po’ di populismo vuoto, privo di qualunque prospettiva, da parte di vecchie ruggini verdognole e in mezzo le proposte concrete di una sinistra afona o forse incapace di farsi sentire nella baraonda dei tanti “salvatori della Patria” che hanno spazio ovunque…
Napolitano non è intervenuto una sola volta per garantire le minoranze politiche. Mai.
E’ una “piccola” colpa? Può darsi, ma comunque si aggiunge al disastro del suo ultra-settennato.
Ultra, già… Perché, primo tra gli 11 presidenti della Repubblica fino ad oggi avuti dall’Italia, è stato rieletto. Una procedura non espressamente vietata dalla Costituzione, ma una praxis quasi britannica, una norma non scritta che decreta che il presidente è eletto per sette anni.
Tutti l’avevamo sempre interpretata così: è eletto per sette anni e poi basta.
C’era anche una bella canzonetta di Lotta Continua che faceva…: “Scade la ferma al Quirinale, ogni sette anni cambia m….”. I puntini servono perché Lotta Continua non c’è più e finirei per essere querelato io se continuassi a scrivere… Ma lascio a voi riempire i puntini di sospensione.
Invece, dopo essersi rifiutati di votare Stefano Rodotà, fondatore del PDS e per nulla bolscevico come noi, dopo aver riportato in auge Franco Marini prima e Romano Prodi poi (facendolo passare sotto l’ennesima forca caudina davvero immeritata…), dopo tutto questo, una processione di mendicanti (con tante scuse ai mendicanti se si sentono giustamente offesi) è salita al Quirinale per chiedere a lui, a colui che veniva definito ormai “re Giorgio” di rimanere, di non lasciarli soli nella difesa degli interessi capitalistici e merceologici.
E così è stato. Il settennato è diventato quasi un novennato. E ora il presidente rassegna le dimissioni. Se ne va.
La nave di Renzi ha passato le acque più procellose e un nuovo continuismo anche al Colle si può consolidare. Dopo Napolitano, chi? Mario Draghi ha già declinato l’invito. Emma Bonino (e le facciamo tantissimi auguroni!) è impegnata in altre vicende personali. Massimo D’Alema? Romano Prodi nuovamente? Giuliano Amato?
Il carosello di nomi è molto lungo. Ognuno ha i suoi preferiti.
Ecco, noi abbiamo tra i preferiti questi: Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e… perché no… anche il compagno Gianni Morandi. Tra il serio e il faceto, avrebbe fatto certamente molto meglio l’eterno ragazzo della canzone italiana dell’eterno (non proprio) ragazzo del migliorismo italiano.
MARCO SFERINI