Il 15 gennaio 1919 i Freikorps, sostenuti dal ministro della difesa socialdemocratico Noske, assassinavano Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Quello che segue è un saggio sulla Luxemburg pubblicato sulla rivista «Problemi del socialismo», gen.-feb. 1971, n. 1, pp. 40-65.
[…] “Rosa Luxemburg è stata spesso presentata come l’alfiere di un socialismo che, al contrario del socialismo autoritario che ha conosciuto l’URSS sotto Stalin, unirebbe la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte del proletariato alla libertà individuale. In realtà essa non faceva che riprendere e proseguire la battaglia di Marx: il trionfo del socialismo implica il pieno dispiegamento dell’individuo”, ha scritta un comunista francese, Gilbert Badia. Siamo d’accordo con lui nel ritenere che la concezione luxemburghiana del socialismo è in opposizione a quella che s’è venuta formando sotto Stalin nell’Unione Sovietica, e siamo d’accordo con lui anche nel ritenere che la concezione luxemburghiana discende direttamente da quella di Marx. Ma non ci limiteremo a vedere la caratteristica della concezione luxemburghiana nell’unire socializzazione dei mezzi di produzione e libertà individuale: più che di libertà nel senso corrente della parola, che è un problema che riguarda gli individui in quanto tali si tratta nella Luxemburg di autogestione collettiva della collettività, cioè, per quanto riguarda i singoli, di partecipazione cosciente e responsabile a quest’autogestione collettiva. È ovvio che una tale partecipazione implica anche la libertà (non può essere responsabile chi non è libero) ma non si esaurisce in essa, non però una libertà intesa nel senso dell’arbitrio di ciascuno di fare quello che gli piace, perché in tal caso verrebbe meno proprio la responsabilità. La società socialista è, per la Luxemburg, una collettività di uomini responsabili che si autogovernano ed è appunto questa interpretazione del socialismo che deriva direttamente da Marx.
Non c’è bisogno di ricorrere agli scritti giovanili di Marx per trovarne la conferma, perché quest’idea di un uomo cosciente e responsabile sottende tutta l’opera marxiana. Si ricordi l’accenno alla differenza fra l’ape e l’architetto: l’ape può costruire anche un alveare architettonicamente perfetto, ma la superiorità dell’uomo, anche del peggiore architetto, sta nel fatto che l’architetto costruisce nel suo cervello prima di costruire materialmente, che egli cioè è un essere dotato di una volontà cosciente e responsabile che domina la sua attività creatrice. E, al contrario, quello che costituisce l’aspetto più degradante della società capitalistica, non è lo sfruttamento economico del lavoro operaio, ma il fatto che l’operaio è condannato a un lavoro parcellare, che il risultato d’assieme può addirittura sfuggirgli completamente, che egli non costruisce più nel suo cervello prima che nella realtà, che non padroneggia più la sua attività creatrice, che è ridotto al rango di un semplice congegno meccanico dominato dall’esterno. Questa soggezione dell’uomo e della sua attività creatrice a una volontà e a una decisione esterna, questa privazione della responsabilità personale della capacità autonoma di partecipazione e decisione, questa rimane per Marx la suprema offesa che il capitalismo infligge all’uomo, per cui solo nel comunismo egli vedrà la piena realizzazione dell’uomo.
In una risposta, sia pure scherzosa, data a un questionario postogli dalle sue figlie, egli dice che la sua idea dell’infelicità è la sottomissione, che il difetto che gl’ispira maggiore avversione è la servilità, che uno dei suoi due eroi preferiti è Spartaco, e uno dei suoi tre poeti preferiti è Eschilo, il cantore di Prometeo, che lo stesso Marx aveva chiamato “il più nobile dei santi e dei martiri del calendario filosofico” e di cui ricordava nella sua tesi di dottorato le parole rivolte al messaggero di Zeus:
“Io, t’assicura,
non cangerei la mia misera sorte
con la tua servitù. Meglio d’assai
lo star qui ligio a questa rupe io stimo,
che fedel messaggero di Giove”.
La rivoluzione socialista rappresenta appunto per Marx la aspirazione a liberare l’umanità da ogni forma d’alienazione, di feticismo, di reificazione, di dominio del prodotto sul produttore, a fare cioè di ogni uomo un soggetto partecipe e cosciente del destino comune, anziché, oggetto dominato dall’esterno (dal passato, dall’ideologia, dalla merce, dal padrone, dai rapporti sociali, dal potere estraneo, dalla burocrazia, dall’organizzazione, ecc.). Il superamento delle differenze fra città e campagna, fra lavoro intellettuale e materiale sono viste in questa direzione. L’affermazione che l’emancipazione del proletariato debba essere opera del proletariato stesso, e di un proletariato cosciente, affermazione spesso ripresa da Rosa Luxemburg, va nella stessa direzione.
Una rivoluzione simile presuppone che il proletariato acquisti una propria autonoma coscienza di classe nel corso di una lunga lotta, cioè che si formi un uomo nuovo capace di gestire una società nuova e che si formi già all’interno dei vecchi rapporti sociali nel corso, e come risultato, del processo rivoluzionario. Perciò l’idea kautskiano-leninista che la coscienza di classe possa esser data al proletariato dall’esterno, che il socialismo possa esser costruito dall’alto, dopo la presa del potere, sono idee estranee al marxismo. Ed è viceversa all’interno del marxismo la concezione luxemburghiana del rapporto movimento-organizzazione: quel che conta è il movimento in funzione dello scopo finale, rivoluzionario, cioè un movimento che implica insieme trasformazione della società e degli uomini, mentre le forme organizzative e di direzione devono essere subordinate alle esigenze del movimento e dunque si plasmano e si correggono secondo le sue necessità. Perciò il rimprovero di Rosa a Lenin di concepire un partito esterno alla classe (secondo la definizione del bolscevico come giacobino legato alla classe operaia) e una dittatura non del proletariato ma di tipo borghese sono perfettamente calzanti e porgono l’accento sugli aspetti non-marxisti del pensiero di Lenin.
È questa concezione del socialismo che Rosa ci presenta nel programma dello Spartakusbund, contenuto in questo volume. “L’essenza della società socialista consiste nel fatto che la grande massa lavoratrice cessa di essere una massa governata, per vivere tutta la vita politica ed economica e per dirigerla con una consapevole libera autodeterminazione”. “Oggi – aveva scritto pochi giorni prima in un articolo per il giornale giovanile pure compreso in questo volume – la produzione viene diretta in ogni impresa di propria mano dal singolo capitalista. Che cosa e come debba venir prodotto, dove, quando e come le merci prodotte debbano essere vendute, tutto viene deciso dall’imprenditore. Gli operai non si occupano affatto di tutto questo, sono soltanto macchine viventi che devono eseguire il loro lavoro”. Macchine “viventi” deve intendersi in senso fisiologico, ma “morte” in senso spirituale. Ed ecco allora, è detto ancora nel programma che “le masse proletarie devono imparare a trasformarsi da macchine morte impiegate dal capitalista nel processo di produzione, in piloti pensanti, liberi, spontanei di questo processo. Devono acquistare il senso di responsabilità di membri attivi della comunità, che è la sola proprietaria di tutta la ricchezza sociale […]. Tutte queste civiche virtù socialiste insieme con le nozioni e la capacità necessarie a dirigere le aziende socialiste, la massa operaia può conquistarle soltanto con la sua attività e con la sua esperienza”.
Questa attività e questa esperienza sono l’attività e l’esperienza della lotta di classe rivoluzionaria, nel corso della quale “la massa del proletariato è chiamata non soltanto a trasmettere alla rivoluzione, con chiara consapevolezza, obiettivi e direttrici”, ma “anche a dare vita al socialismo con la sua stessa attività”. Perciò non si può pensare a un socialismo costruito dall’alto. “Questa ricostruzione e questo rivolgimento non possono avvenire per decreto di una qualche autorità o commissione o di un parlamento; possono essere affrontati ed effettuati soltanto dalla massa popolare stessa”. “I nudi decreti delle massime autorità rivoluzionarie sulla socializzazione sono da soli parole vuote. Soltanto gli operai possono, con la loro azione, dar corpo alle parole”. “Il socialismo non si fa e non può essere fatto mediante decreti, neppure da un governo socialista caratterizzato”. Perciò la rivoluzione socialista “non è un tentativo disperato di una minoranza di modellare il mondo con la forza secondo un proprio ideale, ma l’azione delle grandi masse popolari di milioni di uomini, chiamata a compiere la sua missione storica ed a tradurre in realtà la necessità storica. Ma la rivoluzione proletaria è nel contempo la campana a morto per ogni servitù ed oppressione”.
Le espressioni “missione storica”, “necessità storica”, come altre ancora più drastiche (“le ferree leggi della storia non si lasciano prendere in giro”, oppure “il ferreo `non dev’essere’ della storia”, ecc.) possono far apparire la concezione luxemburghiana come una concezione deterministica, e in questo senso sono state difatti interpretate e criticate, mentre al contrario il pensiero luxemburghiano pone sempre l’accento sulla volontà e l’azione delle masse. Su questa apparente contraddizione mi sono già ampiamente intrattenuto altrove e rimando a quel mio scritto il lettore eventualmente interessato ad approfondire il problema; qui basterà osservare che le leggi storiche o la necessità storica cui la Luxemburg fa riferimento sono le leggi marxistiche dello sviluppo nascente dalle contraddizioni interne alla società. Ma queste leggi obiettive, che in realtà sono delle tendenze, perché ad esse si contrappongono necessità contraddittorie e logiche antagonistiche, si esprimono attraverso processi obiettivi che sono in interazione continua con interventi soggettivi: se anche il socialismo è, in questo senso, una necessità storica, esso non si realizzerà senza l’intervento cosciente del proletariato, quell’intervento cosciente del proletariato nei processi obiettivi che corrispondeva, per Marx, al processo rivoluzionario. È nello stesso spirito che Rosa Luxemburg fa della necessità che il proletariato diventi protagonista della nuova storia in fieri un suo leit-motiv fondamentale.
Inoltre, per quanto riguarda gli scritti raccolti in questo volume non bisogna mai dimenticare che si tratta di scritti di agitazione nel corso di un periodo rivoluzionario e che la nota ottimistica sulla vittoria inevitabile della rivoluzione, sulla necessità ferrea del socialismo, è una componente necessaria del lavoro di agitazione, uno strumento vero e proprio della battaglia in corso. Quando si tenga conto di queste circostanze, si vedrà che questi scritti, nonostante il loro carattere agitatorio, cioè avente finalità pratiche immediate, rivelano sempre un serio fondamento teorico ed un sicuro orientamento nell’intelligenza di quello che era il corso reale della storia in atto e il ruolo dei vari protagonisti. Essi ci mostrano in vivo, nel pieno svolgimento di una battaglia decisiva, la concezione luxemburghiana della rivoluzione e del partito, ne confermano la coerenza teorico-pratica e ne verificano la validità proprio alla prova dei fatti, cioè nel fuoco di una rivoluzione. Soffermiamoci un momento ad esaminare questi due momenti fondamentali della concezione luxemburghiana, la dottrina della rivoluzione e la dottrina del partito.
Se la rivoluzione è la strada da percorrere per arrivare alla società socialista di cui abbiamo parlato, essa deve presentare caratteristiche appropriate. In primo luogo, poiché deve trasformare e far maturare la coscienza degli uomini, non può essere che un processo lungo. Lungo non solo come periodo di trasformazioni rivoluzionarie della società, di trasformazione di rapporti sociali e di rapporti di potere, ma lungo anche come vera e propria crisi rivoluzionaria, come epoca di scontri violenti. “Il concetto di rivoluzione quale lo definisce Rosa Luxemburg non è una battaglia di strada terminata in qualche ora, ma un lungo periodo di scontri violenti fra borghesia e proletariato […]. Rivoluzione non è sinonimo di rivoluzione ma di periodo rivoluzionario”. Ridurre la rivoluzione all’insurrezione, allo scontro armato, è una semplificazione che può condurre ad errori fatali. Quindici giorni prima di morire, al congresso di fondazione del Partito comunista, in polemica con gli estremisti del suo partito, che erano purtroppo maggioranza al congresso e che in virtù del loro estremismo, cadranno nella trappola della provocazione controrivoluzionaria, essa insiste ancora una volta: “Voi dite: o mitragliatrici o parlamentarismo. Noi vogliamo un radicalismo un po’ più raffinato. Non soltanto questo grossolano aut-aut. È più comodo, più semplice, ma è una semplificazione che non serve alla formazione e all’educazione delle masse”.
Ma se l’insurrezione è una semplificazione, la via parlamentare è un inganno già smentito dalla storia: è la vecchia illusione piccolo-borghese che “risorge, senza splendore e talento e senza il fascino della novità, in noiosa, pedante, erudita edizione tedesca nei Kautsky Hilferding, Haase”. “Che piano idilliaco: realizzare il socialismo per via parlamentare, con una semplice risoluzione a maggioranza. Peccato che questa fantasia celestiale del paese dei sogni non tenga conto nemmeno dell’esperienza storica della rivoluzione borghese e tanto meno del carattere particolare della rivoluzione proletaria […]. Quest’ultima lotta, che supera per grandiosità di compiti tutto quello che l’ha preceduta, dovrebbe fare ciò che nessuna lotta di classe, nessuna rivoluzione hanno mai fatto: risolvere la lotta mortale di due mondi in un lieve mormorio di battaglie oratorie e di risoluzioni di maggioranza parlamentare!”. Si dimentica “che la borghesia non è un partito parlamentare, ma una classe dominante che è in possesso di tutti i mezzi di potere economici e sociali”, che se ne sta tranquilla fino a quando non si cerca di incidere seriamente sul rapporto salariale, ma che se si dovesse cercare di colpirla “al cuore – e il suo cuore batte nei forzieri – combatterà per la vita o per la morte per il suo dominio e accumulerà migliaia di resistenze aperte e nascoste contro i provvedimenti socialisti”.
Non quindi la semplice via insurrezionale e tanto meno la via parlamentare, ma una tenace, sistematica, progressiva azione dal basso, che estenda dovunque i consigli degli operai e dei soldati, che ne faccia degli organi effettivi di potere, che affronti in ogni impresa il potere capitalistico, che s’incunei nello Stato borghese fino ad occuparne tutte le posizioni, e che in questo modo scalzi le basi del potere borghese assai più efficacemente e durevolmente di quanto potrebbe farlo un colpo di mano anche riuscito. “Disegnato in questo modo, il processo appare forse un tantino più lungo di quanto si sarebbe inclini a raffigurarcelo in un primo momento”, ma purtroppo “la storia non ci fa le cose così comode come nelle rivoluzioni borghesi, quando bastava rovesciare al centro il potere ufficiale e sostituirlo con un paio o con un paio di dozzine di uomini nuovi. Noi dobbiamo lavorare dal basso e questo corrisponde precisamente al carattere di massa della nostra rivoluzione quanto agli scopi che vanno al fondo della costituzione sociale; risponde al carattere della odierna rivoluzione proletaria che noi dobbiamo conquistare il potere politico non dall’alto ma dal basso”.
Una strategia rivoluzionaria di questa natura, una strategia a lungo termine che deve riuscire a frenare tutte le impazienze e tutti gli estremismi e deve mantenere in tensione le masse per un lungo periodo, sembrerebbe esigere un alto grado di preparazione e di maturità delle masse, e questa maturità non si acquista soltanto con i libri o con i discorsi ma precisamente nell’azione, e cioè proprio nel corso del processo rivoluzionario. Questa potrebbe apparire, ed è apparsa infatti, una contraddizione della Luxemburg: presentare da un lato una strategia che è possibile solo con delle masse preparate e mature, e avvertire dall’altro che solo praticando questa strategia le masse diventeranno preparate e mature. In realtà ci troviamo qui di fronte a quella che è la dialettica permanente del processo storico: come si impara a camminare camminando o a nuotare nuotando, così gli uomini e le classi apprendono sempre dall’esperienza e quindi anche dagli errori e dalle sconfitte ad assolvere il compito che in ogni momento assegna ad essi il corso della storia, e ad indirizzarli verso questi compiti, anche se non vi sono preparati, sono i processi obiettivi, sono le contraddizioni della società, sono le situazioni stesse che gli uomini e le classi vogliono cambiare. Il socialismo è l’autogoverno dei lavoratori e anche a governare, ammonisce Rosa Luxemburg, s’impara solo governando, s’impara ad esercitare il potere esercitandolo, ma si comincia ad esercitarlo nel consiglio di fabbrica, nel comune, nella propria collettività, e attraverso l’esperienza e gli errori anche il proletariato può elevarsi in questo modo da classe dominata a classe dominante.
È in questo senso che la Luxemburg dice che le rivoluzioni socialiste sono sempre premature e le sconfitte inevitabili. È in questo senso che vede la conquista del potere come un processo lungo che si svolge dal basso, a condizione che protagonista della lotta sia la massa dei lavoratori e non soltanto un gruppo di dirigenti, è in questo senso che essa pensa che il movimento operaio possa perdere anche molte battaglie ma prevede che riporterà la vittoria finale, perché la rivoluzione socialista è scritta nella storia futura, non certo come una fatalità ma come una delle due sole alternative possibili, l’altra essendo la vittoria dell’imperialismo, cioè la progressiva degradazione dell’umanità, la ricaduta nella barbarie. “La storia è la sola vera maestra, e la rivoluzione è la migliore scuola del proletariato”.
È la migliore scuola perché la rivoluzione imprime agli avvenimenti una forte accelerazione e con ciò mette più facilmente a nudo i rapporti reali che la società borghese tende normalmente a velare e mistificare, fa scoppiare più palesemente i contrasti, logora rapidamente le formule viete o le parole d’ordine ingannatrici, obbliga ciascuno a prendere posizione di fronte ai problemi cruciali e quindi a prendere coscienza della propria posizione nella società.
Inoltre la rivoluzione acutizza tutte le tensioni economiche, sociali e politiche e mette in moto contemporaneamente pressioni di ogni genere, sovrapponendole, intersecandole, integrandole, in modo che da una battaglia economica per il salario può scaturire una battaglia politica per il potere o da una rivendicazione politica per il diritto e l’uguaglianza del suffragio può derivare una battaglia per la conquista di condizioni sociali di uguaglianza che rendano effettivo questo diritto. Viene così infranta nel corso del processo rivoluzionario quella separazione fra la lotta politico-parlamentare e la lotta sindacale che il movimento operaio si è fatto imporre dal suo avversario, dalla società capitalistica, che ha permesso di diluire la lotta di classe (che, secondo l’insegnamento marxista, è sempre una lotta politica per il potere) in una serie di rivendicazioni salariali, tradeunionistiche, subalterne, e in un riformismo spicciolo che ha rafforzato, anziché indebolire, la società capitalistica. Facendo cadere quella barriera, la rivoluzione dà alla lotta di classe la sua dimensione unitaria, facilita al lavoratore la visione globale dei problemi e dei rapporti sociali, svolge un’opera immensa “per approfondire l’antagonismo delle classi, acuire e chiarire la situazione”, e quest’opera sopravvive anche al di là delle sconfitte.
Naturalmente, pur con tutta l’accelerazione rivoluzionaria, ci vuole necessariamente parecchio tempo perché “le singole schiere del movimento operaio siano portate a poco a poco dalla loro amara esperienza a riconoscere la giusta via della rivoluzione”; perciò può essere cattiva consigliera l’impazienza che spinge a cercare troppo presto lo scontro decisivo che la stessa controrivoluzione può aver interesse a provocare. Pericoloso non solo perché può portare ad una sconfitta che si poteva evitare, ma anche perché potrebbe portare ad una vittoria che non darebbe tutti i suoi frutti. Infatti, come potrebbe una classe lavoratrice non ancora matura e cosciente gestire socialisticamente il potere, realizzare un’autentica società socialista? È su queste basi, partendo da queste premesse, che Rosa Luxemburg definisce i compiti e le finalità dello Spartakusbund nel progetto di programma poi approvato dal congresso:
“Lo Spartakusbund non è un partito che voglia giungere al dominio al di sopra della massa operaia o per mezzo della massa operaia. Lo Spartakusbund è soltanto la parte del proletariato cosciente dei suoi scopi, la quale ad ogni passo richiama tutta l’ampia massa degli operai ai suoi compiti storici, la quale rappresenta in ogni singolo stadio della rivoluzione il fine ultimo socialista e in tutte le questioni nazionali gli interessi della rivoluzione mondiale proletaria […]. Lo Spartakusbund non assumerà mai altrimenti il potere di governo se non attraverso la chiara, inequivocabile volontà della grande maggioranza della massa proletaria di tutta la Germania, mai altrimenti se non in forza dell’adesione consapevole alle opinioni, ai fini e ai metodi di lotta dello Spartakusbund. La rivoluzione proletaria potrà conquistare lottando la piena chiarezza e maturità soltanto gratuitamente, passo passo, percorrendo il calvario delle sue amare esperienze, attraverso sconfitte e vittorie. La vittoria dello Spartakusbund non si trova all’inizio, ma alla fine della rivoluzione: essa s’identifica con la vittoria delle grandi masse dei milioni di proletari socialisti”.
Si è molto discusso, allora e più tardi, se in questa analisi del processo rivoluzionario e in questa solenne affermazione che la rivoluzione spartachista vuol essere solo una rivoluzione di maggioranza, ci sia una sottintesa polemica con la rivoluzione sovietica, a cui Rosa aveva rivolto critiche in un manoscritto del periodo della carcerazione, pubblicato postumo. Non pare dubbio che su parecchi punti del manoscritto carcerario l’autrice, alle prese con la dura esperienza della rivoluzione tedesca, abbia poi cambiato opinione, in particolare sulla libertà da lasciare alla classe avversaria: tale almeno sembra il senso della frase, contenuta sempre nello stesso programma: “Tutta questa resistenza deve venir spezzata passo passo con pugno di ferro, con energia senza riserve. Alla violenza della controrivoluzione borghese bisogna opporre la violenza rivoluzionaria del proletariato”.
Ma su altri punti il dissenso certamente permane: in primo luogo sul fatto che la rivoluzione sovietica non possa essere eretta a modello universale di rivoluzione, in secondo luogo che le condizioni diverse della Germania consentono al partito comunista tedesco di porre in termini diversi il problema della conquista e dell’esercizio del potere, e cioè nei termini di rivoluzione di maggioranza e di autentica democrazia socialista. “Perché dittatura del proletariato vuol dire democrazia in senso socialista”. “Dotare la massa compatta del popolo lavoratore di tutto il potere politico per i compiti della rivoluzione: ecco la dittatura del proletariato e quindi la vera democrazia”, “e soltanto con una costante e viva interazione fra le masse popolari e i suoi organi – i consigli degli operai e dei soldati – la loro attività può conferire allo stato un vero spirito socialista”. È probabile che se Rosa Luxemburg si fosse trovata alla testa di una rivoluzione vittoriosa avrebbe dovuto modificare alcune visioni un po’ troppo idilliche della società socialista, almeno nella sua prima fase di faticosa costruzione, ma è certo che sarebbe rimasto immutato lo spirito con cui avrebbe affrontato i problemi come pure immutato il proposito, e costante lo sforzo, di costruire questo tipo di società. E qualunque forzata deviazione da questo cammino le fosse stata imposta dalle circostanze, Rosa Luxemburg avrebbe poi cercato al più presto di superarla e correggerla.
Un altro punto da mettere in rilievo è quello che riguarda il carattere internazionale della rivoluzione socialista. Ripetute ed univoche sono le sue prese di posizione in questo senso. “Il proletariato di un solo paese non può, nemmeno col più grande eroismo, sciogliere questo laccio. La rivoluzione russa diventa così un problema internazionale”, scrive nel maggio 1917. Ma non solo il proletariato russo non può portare a termine da solo il compito gigantesco che si è assunto; neppure il proletariato tedesco lo può. “Ma quest’opera così grande non può essere compiuta dal proletariato tedesco da solo; esso può combattere e vincere, soltanto se fa appello alla solidarietà dei proletari di tutto il mondo […]. La Germania è impregnata della rivoluzione sociale, ma il socialismo può realizzarlo soltanto il proletariato mondiale”, perché in ultima analisi sono i rapporti di forza mondiali, è la lotta di classe a livello mondiale, che deciderà della vittoria o della sconfitta dell’imperialismo o del socialismo. Perciò “la lotta di classe e la solidarietà internazionale del proletariato sono sempre stati il principio supremo” del socialismo.
Abbiamo così tratteggiato nelle sue grandi linee la dottrina della rivoluzione socialista di Rosa Luxemburg, che vedremo esprimersi a contatto con il corso stesso della rivoluzione nei testi che abbiamo raccolto nel presente volume, e di cui nelle pagine che seguono di questa introduzione cercare o di verificare la validità o meno di fronte alla sconfitta subita dagli spartachiani. Ma prima vogliamo illustrare anche la dottrina luxemburghiana del partito, perché è chiaro che per condurre vittoriosamente la rivoluzione nel senso sopra indicato ci vuole un partito beni diverso non solo da quello che era od era stata la socialdemocrazia tedesca, ma anche dal partito leninista centralizzato.
Abbiamo visto infatti che il punto centrale della visione socialista di Rosa Luxemburg come di Marx è la liberazione dell’uomo da ogni forma di oppressione imposta o di sottomissione accettata, è la nascita dell’uomo responsabile capace di partecipare, alla pari con ogni altro, all’autogoverno della collettività. Una società divisa in classi non potrà mai produrre una simile collettività di uomini, perché tenderà sempre a produrre oppressi ed oppressori, quindi solo la rivoluzione socialista è la via per giungere a questo risultato. Ma poiché l’uomo socialista deve sorgere già nel corso del lungo processo rivoluzionario, e anzi la lotta di classe e la rivoluzione devono essere la sua scuola formativa, è chiaro che il partito rivoluzionario dev’essere lo strumento per eccellenza di creazione di questi uomini e non, quindi, un partito gerarchizzato, burocratizzato, centralizzato, in cui la base sia svuotata di ogni effettiva partecipazione e di ogni vitalità democratica.
Abbiamo già trattato abbastanza ampiamente di questo problema nella nostra Introduzione agli Scritti Politici già ricordata, e non vogliamo ripeterci: solo vogliamo qui ricordare che Rosa Luxemburg è stata la prima a denunciare e a criticare la progressiva sclerosi della socialdemocrazia tedesca, la prima a capire quale mistificazione rappresentasse il sedicente rivoluzionarismo della socialdemocrazia in genere, e dei suoi leader Bebel e Kautsky in ispecie, la prima a levar la voce, fin dalla prima introduzione dei “funzionari” nel partito, contro il pericolo che la burocrazia finisse con lo spogliare le masse di qualsiasi iniziativa, riservando alle “istanze” del partito la titolarità dell’azione politica. E questo in un periodo in cui Lenin ammirava ancora Bebel e Kautsky come rivoluzionari e difendeva anche lui con grande vigore il diritto delle “istanze” contro la base.
“Questa lotta costante di Rosa Luxemburg contro il peso delle “istanze” – scrive Gilbert Badia – è la sua reazione contro l’autoritarismo e la burocrazia della direzione dell’SPD. Parecchi storici hanno mostrato che le strutture della socialdemocrazia tedesca riflettevano sempre più alla vigilia della guerra le strutture autoritarie della società e dello stato tedeschi sotto Guglielmo II. È contro questa “impregnazione” che Rosa Luxemburg reagisce con violenza”. Ora è certo che la polemica della Luxemburg fu principalmente diretta contro la socialdemocrazia tedesca in cui essa militò per oltre vent’anni e che quindi la concerneva più davvicino, ma è vero anche che essa esprimeva a questo proposito delle idee di carattere generale e che la sua polemica non fu meno vivace contro Lenin e i bolscevichi.
Per quel che si riferisce alla socialdemocrazia tedesca (e del resto anche per il partito bolscevico) la pertinenza delle sue critiche, è confermata dal fatto che, sulla base di queste stesse critiche, ha potuto prevedere i futuri sviluppi del partito e i suoi giudizi sulle tendenze di sviluppo in atto in questi partiti hanno un valore profetico che non può non colpire anche il semplice osservatore dei fatti politici. Si veda p. es. cosa scriveva nel 1913 a proposito della socialdemocrazia tedesca. Si era alla vigilia della guerra mondiale, il cui avvicinarsi Rosa Luxemburg denunciava da molti anni contro l’atteggiamento passivo o addirittura acquiescente della direzione del partito, e la Luxemburg avrebbe voluto che contro la minaccia di guerra si mobilitassero le grandi masse popolari. Ma la risposta abituale dei dirigenti era che si dovesse rafforzare l’organizzazione prima di chiamare le masse alla lotta. Rosa Luxemburg non manca di rilevare la contraddizione che c’è fra l’affermazione di voler rafforzare l’organizzazione per la lotta, riempendola di iscritti che vengono però contemporaneamente privati di qualsiasi iniziativa disabituati alla lotta, ridotti cioè a semplici strumenti nelle mani dei dirigenti. Ed ecco alcuni passi della sua polemica:
“Viviamo in una fase in cui solo l’intervento di larghe masse è in grado d’influire sulla soluzione delle questioni politiche essenziali […] Se le masse non appaiono sulla scena nei momenti decisivi, l’azione del partito viene ad essere paralizzata, le viene meno il mordente e il partito stesso risente dolorosamente la sua inadeguatezza”. Invece, nella concezione della direzione “ci si serve delle masse come di pedine che si avanzano quando, l’abilità politica e diplomatica dei parlamentari non avendo dato risultati, i dirigenti vogliono, con questa manovra, far paura al nemico; e che si ritirano rapidamente dal campo delle operazioni pregandoli di tenersi gentilmente tranquilli fino a nuovo ordine, nel momento in cui ricominciano le trattative con l’avversario, condizionato da questo gioco di pedine, o si organizzano con esso delle azioni comuni”. Certo questo modo di concepire le masse permette ai dirigenti di fare una politica empirica, di compiere le più acrobatiche svolte: “esprimere qualche mese fa al Reichstag in materia di politica estera la fiducia della socialdemocrazia in Bethamnn-Hollweg e, sei mesi dopo, chiamare le masse a scendere in strada – questa è acrobazia politica, è una politica del giorno per giorno, che non potrebbe che terminare con un fiasco tanto in Parlamento che nella strada”. Naturalmente anche la socialdemocrazia tedesca risente delle tradizioni del paese, tradizioni di disciplina e di ubbidienza: “la mancanza di una grande tradizione rivoluzionaria nella borghesia tedesca e quindi anche nel proletariato tedesco ha sicuramente prodotto fino nei ranghi della socialdemocrazia una certa mancanza di fiducia in sé, un eccesso di rispetto fatto persona davanti alla “legalità” dello stato di polizia assolutistico-burocratico e davanti all’autorità della sciabola del poliziotto”. Ma anziché combattere queste tradizioni, la socialdemocrazia le incoraggia nei suoi militanti e le sfrutta a vantaggio dei dirigenti: “la piccola parte di contenuto intellettuale e politico d’iniziativa e di decisioni, che incombeva alle organizzazioni di base, nella vita di tutti i giorni, è totalmente trasferita ai piccoli gruppi di vertice […] Quel che resta, per la grande massa degli aderenti, sono i doveri relativi al pagamento delle quote, alla diffusione dei volantini, alle elezioni e all’organizzazione della campagna elettorale, all’agitazione di casa in casa per abbonamento al giornale e simili”. Con queste prospettive, “mettersi in testa d’integrare tutto il popolo lavoratore nei quadri del partito prima di fare la storia (cioè attraverso lotte di massa, L. B.), è muoversi in un circolo vizioso. Quanto più le nostre organizzazioni nascono e abbracciano centinaia di migliaia, milioni di aderenti, tanto più aumenta necessariamente il centralismo […] Ma è un’idea strana voler alla lunga occupare milioni di uomini unicamente a compiti di routine, a dibattere l’aumento delle quote e l’impegno di nuove donne alla diffusione dei giornali, a eleggere il primo e secondo presidente e il cassiere” ecc. “È un’idea strana pensare che basterebbe far crescere in proporzioni gigantesche meccanicamente questa cianfrusaglia burocratica per reclutare con il tempo nelle nostre organizzazioni, due, tre, quattro milioni di membri e anche più per custodirveli”.
Credo che abbiamo avuto tutti esperienze di questa prassi partitica a base di “bollinaggio”, “volantinaggio”, “diffusione”, ecc. (che non sono, certo, cose inutili, se sono strumenti per una effettiva vita politica, ma che non possono diventare i surrogati dell’azione politica presso la base se non si vuole assistere alla progressiva anemizzazione della lotta politica) per poter giudicare l’acutezza con cui Rosa Luxemburg sapeva guardare al fondo delle cose e leggeva già allora, una sessantina di anni fa, il futuro destino di quello che era ancora considerato da tutti il partito-leader del movimento operaio internazionale. E dietro questa routine quotidiana Rosa vedeva anche lo spegnersi di ogni capacità di giudizio autonomo e di iniziativa dei militanti, ridotti, come scrive nelle pagine riportate in questo volume, “docili pedine”; “l’essenza di questa politica consiste nel fare un docile gregge di pecore nelle mani di un pugno di parlamentari, il che è del resto l’essenza di ogni politica borghese”. Sarà grazie a questa politica che la socialdemocrazia potrà far accettare ai suoi iscritti la sua capitolazione del 4 agosto 1914, cioè la capitolazione di fronte alla guerra imperialistica, riuscirà ad imporre “la silenziosa sottomissione agli orrori del massacro dei popoli, ai crimini della dittatura militare”, ma il proletariato tedesco pagherà questa silenziosa sottomissione ritrovandosi alla fine della guerra impotente di fronte ai momenti decisivi della storia: si sente, scriverà allora Rosa Luxemburg con un’espressione icastica che scolpisce una situazione, “che sono ancora i vecchi bravi compagni dei tempi della socialdemocrazia serenamente addormentata per la quale la tessera era tutto, l’uomo e lo spirito niente”. Un simile partito, una simile organizzazione, una simile politica non potevano non portare il proletariato tedesco che all’impotenza, lo dovevano portare a precipitare dalle speranze rivoluzionarie del 1918 alla capitolazione di fronte a Hitler quindici anni dopo.
Ma, lo ripetiamo, sarebbe un errore circoscrivere queste critiche alla sola socialdemocrazia tedesca: sono le critiche di un metodo, di un metodo verticistico e centralizzato di direzione che uccide progressivamente nella base, col pretesto di evitare gli errori, ogni spirito d’iniziativa, di un metodo di direzione che dice agli operai come dice la borghesia: “Non siete maturi, non potrete diventarlo mai; un’impossibilità intrinseca; avete bisogno di capi; i capi siamo noi”, come se la massa potesse diventare matura senza commettere errori, come se potesse “imparare ad esercitare il potere (se non) esercitando il potere. Non c’è altro mezzo per inculcarle questa scienza”. Si rileggano ad ogni modo gli scritti che ho sopra citati di critica a Lenin e ai bolscevichi, quello del 1904 sulla concezione del partito e quello del 1918 sulla concezione della dittatura del proletariato nella rivoluzione russa, e si vedrà con quale chiarezza dietro alla concezione leninista del partito essa vedesse già profilarsi, con acuta preveggenza, l’ombra della futura degenerazione burocratica, l’ombra dello stalinismo: e ciò nonostante la sua immensa ammirazione per la rivoluzione sovietica e la sua totale solidarietà con i bolscevichi.
Se ci siamo molto dilungati su questo tema, è perché siamo qui al centro di un problema su cui si fondano le maggiori critiche rivolte alla Luxemburg e allo spartachismo, e soprattutto le critiche per la sconfitta a cui Rosa Luxemburg è andata incontro nella rivoluzione tedesca: intendiamo riferirci all’accusa di spontaneismo e di sottovalutazione sia del ruolo dirigente del partito che dell’importanza dell’organizzazione, specialmente nei momenti rivoluzionari.
Anche su questo tema ci siamo già soffermati nella nostra più volte citata Introduzione, e qui ci limiteremo ad aggiungere quel che riteniamo essenziale alla comprensione del pensiero che anima gli scritti raccolti in questo volume, e l’atteggiamento ch’essi esprimono dell’autrice, anche per meglio situarli in rapporto agli avvenimenti di quei mesi in Germania e al ruolo che la Luxemburg vi ha svolto nei due mesi trascorsi fra la sua liberazione dal carcere e il suo assassinio.
Va osservato in primo luogo che Rosa non è stata mai una spontaneista nel senso di considerare che solo conti l’azione spontanea delle masse, senza bisogno di direzione politica. Al contrario essa ha sempre rimproverato alla socialdemocrazia di non sapere svolgere proprio la funzione dirigente cui è chiamata (“Il periodo nuovo, quello dell’imperialismo, ci pone dinanzi dei problemi nuovi, che non possono essere risolti con i soli mezzi parlamentari, con il vecchio apparato e la vecchia routine. Il nostro partito deve imparare a scatenare, quando la situazione lo consente, delle azioni di massa e a dirigerle [corsivo nostro, L. B.]: non sa ancora farlo”), perché delle masse svuotate d’iniziativa politica e di capacità di lotta non saranno mai delle masse che potranno condurre a fondo un’azione rivoluzionaria (anche senza bisogno di attribuire a questa parola il significato insurrezionale). Non si tratta quindi di negare il ruolo dirigente del partito, ma di contestare il modo come viene svolto e che sottovaluta totalmente il ruolo e la capacità combattiva delle masse, facendo del partito il solo protagonista. “Storicamente, il partito socialdemocratico è chiamato a costituire l’avanguardia del proletariato; partito della classe operaia, deve aprire la marcia e assumere la direzione. Ma se la socialdemocrazia s’immagina che è essa chiamata a scrivere la storia, che la classe non è niente, e che deve esser trasformata in partito prima di poter agire, potrebbe darsi che la socialdemocrazia svolgesse il ruolo di freno nella lotta di classe”, come infatti l’ha svolto. E d’altra parte, se così fosse, se solo il partito fosse il titolare della azione politica della lotta di classe, come si spiegherebbe che la lotta di classe ha preceduto la nascita del partito, e anzi vi ha dato essa stessa vita, come si spiegherebbe che rivoluzioni socialiste, come a Parigi nel ‘48 e nel ‘71 e in Russia nel ‘905, sono scoppiate senza che un partito le avesse preparate e dirette? Come si spiegherebbe la partecipazione di vastissime masse non organizzate in tanti movimenti e il peso decisivo che vi hanno esercitato? “In occasione di grandi lotte, l’impeto delle masse non organizzate rappresenta, ai nostri occhi, un pericolo assai minore della debolezza dei capi”. Sarebbe quindi “un errore fatale immaginarsi che ormai l’organizzazione socialdemocratica è diventata la depositaria unica di tutta la capacità di azione storica del popolo, e che la massa non organizzata del proletariato è ridotta a un magma amorfo costituente per la storia un’inerte zavorra”. No, “la materia vivente della storia mondiale resta sempre, a dispetto della socialdemocrazia, la massa del popolo; e solo se si mantiene una viva circolazione sanguigna fra il nucleo dell’organizzazione e la massa popolare, solo quando il polso dell’una e dell’altro battono all’unisono la socialdemocrazia può dimostrarsi atta a grandi imprese storiche”.
Questo dunque è il punto essenziale: la funzione dirigente del partito deve esplicarsi non attraverso ordini e direttive, non con i metodi burocratici dell’apparato, non mediante le famose “cinghie di trasmissione”, ma attraverso un’interazione continua che faccia appunto scorrere permanentemente il sangue fra vertici e base, fra partito e classe, fra organizzazione e movimento, essendo chiaro che una grande azione politica, un importante compito storico non potranno essere svolti da una massa abituata soltanto a obbedire.
Rosa Luxemburg non dimentica questi insegnamenti nel corso della rivoluzione, e lungi dal disprezzare il ruolo organizzativo e di direzione politica del partito, lo invoca: invoca dai leader “chiare parole d’ordine” per le masse, ma avverte che non bastano le parole d’ordine, che bisogna fare di tutto per assicurare la più energica esecuzione delle parole d’ordine: “la situazione che si è avuta finora, caratterizzata da una direzione manchevole, dalla mancanza di un centro organizzativo degli operai berlinesi, è diventata insostenibile. Se la causa della rivoluzione deve andare avanti, se la vittoria del proletariato, se il socialismo devono essere qualcosa più d’un sogno, allora gli operai rivoluzionari devono crearsi organi dirigenti che siano all’altezza del momento, che sappiano dirigere ed utilizzare l’energia di lotta delle masse”. Come si vede, il discorso è lo stesso, nella vecchia socialdemocrazia come nei giorni della rivoluzione: la funzione di direzione spetta al partito, ma dev’essere una direzione che si esprime in armonia con le masse.
Purtroppo il partito capace di assolvere questa funzione direttiva era ancora da fare: un partito che, secondo l’espressione di Rosa Luxemburg, sapesse “essere la bussola orientatrice, la vela di punta, il lievito proletario-socialista della rivoluzione: ecco il compito specifico dello Spartakusbund nell’attuale conflitto fra due mondi”. Pochi giorni dopo avere così delineato la funzione del partito, essa precisava dalla tribuna del congresso di fondazione del Partito comunista che quel che occorreva “era una struttura completamente nuova, che non ha nulla in comune con le vecchie tradizioni tramandateci”. Ma la controrivoluzione non lasciò a Rosa Luxemburg il tempo di preparare questa struttura completamente nuova; preferì farla assassinare prima. Non aveva Rosa stessa scritto poche settimane prima di morire, citando dei versi di Dehmel, che a noi non manca nulla per essere liberi: soltanto il tempo?
È proprio questa mancanza di tempo che è stata spesso rimproverata alla Luxemburg come la sua specifica responsabilità nella sconfitta della rivoluzione socialista in Germania: il suo “spontaneismo”, la sua sottovalutazione del momento direttivo e organizzativo, del partito in altre parole, sarebbe stata determinante nella mancata tempestiva scissione della sinistra marxista dal partito socialdemocratico, nella mancata tempestiva fondazione di un partito rivoluzionario, che Lenin invece fondò e preparò fin dagli anni dell’esilio, creando così per tempo lo strumento indispensabile alla vittoria della rivoluzione socialista in Russia. Fu lo stesso Stalin che nella nota lettera alla redazione della rivista “Proletarskaja Revolutsija” del 1931 avanzò questa critica, che divenne la posizione ufficiale dei vari partiti e scrittori comunisti in argomento, e che è ancor oggi ripetuta. In Italia invece Ernesto Ragionieri l’ha combattuta nella sua Introduzione a K. Liebknecht e R.Luxemburg – Lettere 1915-1918 (Roma 1967), osservando giustamente che “il movimento socialdemocratico tedesco, negli anni della II Internazionale, era troppo diverso da quello che si era potuto sviluppare in Russia, perché si possa ritenere che nell’uno e nell’altro paese le cose dovessero svilupparsi allo stesso modo”, e inoltre che lo stesso “Lenin, prima del 4 agosto 1914, né formulò una condanna globale socialdemocratica tedesca, né ne criticò l’ala sinistra perché questa non si separava organizzativamente dal resto del partito. Lenin conosceva troppo bene il movimento operaio del proprio tempo e le caratteristiche con le quali esso si era sviluppato in ciascun paese, era troppo consapevole di che cosa significasse la tradizione di partito in Germania, dove un movimento di massa si era formato attraverso una serie di prove successive che ne avevano fortemente cementato il legame unitario, per non avvertire che la lotta imposta ovunque dai comuni problemi dell’età dell’imperialismo non poteva non essere combattuta in forme diverse. Tutto il suo appoggio andava a quanti si opponevano alla degenerazione della socialdemocrazia tedesca e cercavano di conservare le masse lavoratrici legate alle sue grandi tradizioni internazionaliste e rivoluzionarie. Non c’è dubbio però che, proprio per questo, Lenin pensò sempre, ripetiamo, prima del 4 agosto 1914, ad una lotta che dovesse essere condotta all’interno del partito e non al di fuori di questo”. Potremmo addirittura aggiungere, come abbiamo già dimostrato altrove, che Lenin, tutto assorbito dai problemi della socialdemocrazia russa, avvertì molto più tardi della Luxemburg le degenerazioni opportunistiche della socialdemocrazia tedesca e continuò per parecchio tempo ad attribuire una immeritata fiducia al “marxismo” di Bebel e di Kautsky. Ma gli eventuali errori di Lenin non giustificherebbero gli errori della Luxemburg, se la mancata scissione dovesse esser sul serio considerata un errore.
Ma chiunque abbia una anche sommaria conoscenza della storia e della natura della socialdemocrazia tedesca sa che una scissione, prima della guerra, non sarebbe stata neppure pensabile, e chi l’avesse tentata, qualunque fossero le sue capacità e il buon fondamento delle sue posizioni, sarebbe rimasto assolutamente isolato dalle masse. Altro era il caso della socialdemocrazia russa, partito che aveva i suoi leader nell’emigrazione, e che svolgeva le sue battaglie e i suoi congressi principalmente nella ristretta cerchia degli esuli, senza che nessuna delle diverse frazioni potesse vantare, a causa delle condizioni di vita in Russia, stretti legami organizzativi con vaste masse popolari. I socialdemocratici russi potevano permettersi di alternare scissioni e unificazioni senza pregiudicare i loro rapporti con la classe operaia, e un uomo come Trotsky, che era poco più che un isolato, poteva nel 1905 diventare presidente del Soviet di Pietroburgo e poteva nel 1917, appena entrato nel partito bolscevico, giocare un ruolo di primissimo piano accanto a Lenin nella rivoluzione bolscevica. Nulla di simile sarebbe stato pensabile in Germania.
Qui la socialdemocrazia, quando Rosa Luxemburg cominciò a militarvi nel 1898, aveva già 35 anni di vita e aveva già superato brillantemente il dodicennio di legge eccezionale, creandosi, grazie anche al dominio assoluto dei sindacati, una larga base di massa, che la qualificava, tanto agli occhi dei tedeschi quanto agli occhi del socialismo internazionale, come “il” partito, il solo, della classe operaia tedesca. Si aggiunga che esso aveva il crisma ufficiale del marxismo, perché Engels, fino alla sua morte nel 1895, lo aveva considerato tale e anzi persino come il suo proprio partito, e Kautsky, considerato dopo la morte di Engels come il “papa del marxismo” era il teorico ufficiale della socialdemocrazia tedesca. Il suo principale leader, Bebel, era stato amico di Engels e nessuno avrebbe osato in pubblico contestare la sua fedeltà al marxismo. D’altra parte la mistica dell’unità e addirittura la mistica dell’appartenenza al partito erano fortemente sentite: nulla sarebbe stato più controproducente, agli occhi della classe operaia tedesca, che ribellarsi al partito o infrangere l’unità. Si aggiunga che la Luxemburg, in parte proprio per le posizioni polemiche assunte contro la destra, e in parte per il suo carattere che non le consentiva di tacere il proprio pensiero, aveva molti nemici, i quali, per denigrarla, arrivarono persino ad attaccarla come ebrea e come straniera, e purtroppo l’antisemitismo e la xenofobia trovavano spesso eco nell’animo del “filisteo” tedesco, del piccolo-borghese che occupava posizioni di potere ai livelli intermedi del partito.
Neppure costituire una frazione organizzata sarebbe stato possibile, in primo luogo perché proprio la sinistra aveva invocato l’unità e la disciplina per molti anni contro i revisionisti che si permettevano atti d’indisciplina contro le decisioni dei congressi (p. es. approvando il bilancio in qualche parlamento statale o stipulando alleanze con partiti borghesi, vietate dai congressi), ma i revisionisti avevano dietro di sé l’immensa potenza dei sindacati che la prassi tradeunionistica aveva facilmente spinto su posizioni riformistiche e che, a partire dal 1906, grazie agli accordi stipulati con Bebel, avevano raggiunto un grande potere anche sul partito. La sinistra poteva invece contare solo sulle proprie forze che, apparentemente maggioritarie fino a che Bebel e Kautsky si manifestavano, sia pure prudentemente, di sinistra, diventarono rapidamente minoritarie appena Bebel cominciò a pencolare apertamente dall’altra parte e Kautsky diede vita al cosiddetto “centro marxista”. Inoltre l’apparato del partito, pur sottomesso all’indiscussa autorità del presidente Bebel, si spostava sempre più a destra prima con la segreteria Auer e poi con la segreteria Ebert.
Ciononostante la sinistra non cessò mai di manifestare la sua attiva presenza nel partito, soprattutto nella stampa con Rosa Luxemburg e Franz Mehring che erano fra i pubblicisti più ricercati, nel movimento giovanile con Karl Liebknecht che ne era l’anima, nelle frequenti riunioni locali e nei congressi dove sistematicamente davano battaglia. Dopo la clamorosa rottura della Luxemburg con Kautsky nel 1910, cominciò anche da parte della sinistra il tentativo di dare una certa organizzazione alla corrente, prendendo soprattutto lo spunto dal fatto che il gruppo parlamentare nel Landtag del Baden il 14 luglio 1910 aveva dato voto favorevole al bilancio, ribellandosi così apertamente alle decisioni del congresso di Norimberga del 1903. In occasione del congresso dell’Internazionale a Copenaghen (28 agosto – 3 settembre 1910), Wilhelm Dittmann (che allora apparteneva alla sinistra, ma aderì poi al Partito socialdemocratico indipendente e fu uno dei tre commissari del popolo di questo partito, prendendo posizioni sempre più a destra) propose in una riunione di “opporre un blocco radicale al blocco revisionista” a cominciare dal prossimo congresso del partito a Magdeburgo, dove infatti fu sferrata una forte offensiva contro i revisionisti badesi, ma dove appunto cominciò a manifestarsi apertamente la posizione centrista Bebel-Kautsky. L’anno appresso, alla morte del co-presidente Paul Singer, fu svolta con successo un’azione per eleggere al suo posto il centrista di sinistra Hugo Haase (anch’egli futuro leader del partito indipendente e commissario del popolo) in luogo di Ebert, ma fallì il tentativo successivo di allargare il comitato direttivo includendovi altri nomi appoggiati dalla sinistra, nonostante che risulti dalle carte Dittmann che vi fu un tentativo organizzato in questo senso, sul quale peraltro, in una lettera del 9 dicembre 1911 la Luxemburg mostrava di non farsi illusioni. La battaglia si riaccese più vivace l’anno venturo al congresso di Chemnitz sull’imperialismo e le sue conseguenze, e nel 1913 sul voto dato al Reichstag sulle spese militari, ma furono le ultime battaglie della vecchia sinistra che la ventata della guerra mondiale doveva disperdere. D’altra parte la burocrazia dominante del partito aveva già provveduto negli ultimi anni a isolare sempre più i dirigenti della sinistra, togliendo ad essi la possibilità di collaborare alla stampa di partito, talché i più tenaci e più coerenti oppositori, Rosa Luxemburg, Franz Mehring e Julian Karski-Marchlewski, fondarono nel 1912 un bollettino “Sozialdemokratische Korrespondenz” in cui pubblicavano articoli, inviando poi il bollettino alla stampa socialdemocratica con diritto di riproduzione.
È impossibile dire con precisione, allo stato delle nostre conoscenze (molti archivi sono stati distrutti e parecchi, anche conservati, non sono ancora stati pubblicati) se la sinistra avrebbe potuto fare qualche cosa di più, ma comunque assai poco, data la situazione del partito, dei sindacati, e in genere della classe operaia, tedesca che, anche là dove ammetteva addirittura il dissenso, non avrebbe tollerato un’aperta opera frazionistica che fosse stata sconfessata e condannata dalle sfere dirigenti.
La riprova si ebbe del resto con lo scoppio della guerra e il voto favorevole, dato dal gruppo socialdemocratico al Reichstag, ai crediti di guerra. Gli avvenimenti sono noti, e noi stessi ne abbiamo già parlato nella nostra citata Introduzione: anche su questo punto non vogliamo ripeterci. È certo che la classe operaia tedesca era contro la guerra e manifestò in questo senso vivacemente e compattamente fino alla vigilia, cioè fino a che i giornali del partito, ignari di quello che si stava tramando dietro le quinte, e la stessa direzione del partito, per non scoprire troppo presto le sue carte, si pronunciarono contro la guerra. Il voto del 4 agosto venne come un fulmine a ciel sereno perché sembrava contraddire tutta la tradizione del partito, anche se oggi, con una più approfondita conoscenza dei fatti, possiamo invece ritenere che quel voto segnasse il logico coronamento di una politica di integrazione. Fu quella l’occasione per misurare quale fosse la forza reale, o piuttosto la debolezza, della sinistra e quanto grande invece fosse lo spirito di disciplina non solo delle masse ma anche di molti dirigenti. Uomini come Lensch, che erano stati sempre su posizioni radicali (passarono improvvisamente dall’altra parte. Lo stesso Liebknecht, che era stato e che fu anche in seguito uno dei più coraggiosi leader della sinistra, votò in favore dei crediti per disciplina di gruppo, perché temette che un voto contrario avrebbe potuto isolarlo dalle masse. E ancora una volta fu Rosa Luxemburg che ripartì quasi da sola a ritessere la tela del movimento che venne poi sviluppandosi, come vedremo, nel corso della guerra.
Senza pertanto pretendere che la sinistra tedesca in generale, e Rosa Luxemburg in particolare, abbia fatto tutto quello che era possibile, e non abbia commesso – ciò che sarebbe impossibile – errori nel suo operare, crediamo di poter tuttavia fondatamente respingere la critica sommaria e superficiale mossale da Stalin di avere sbagliato per non aver provveduto in tempo a una scissione, che non avrebbe avuto nessun seguito. E del pari crediamo infondata l’altra critica che fa risalire la sconfitta spartachista agli errori teorici della Luxemburg, traendone la prova dal fatto che i bolscevichi arrivarono invece alla vittoria, grazie alla superiorità della teoria leninista. Anche questa critica ignora le circostanze storiche così profondamente diverse in cui si sono svolte le due rivoluzioni e non si rende conto che la rivoluzione bolscevica ha trionfato grazie, certo, anche alle doti strategiche e tattiche di Lenin, ma soprattutto grazie alle circostanze essenziali in cui Lenin si è trovato ad operare, che non trovano in nessun modo riscontro nelle circostanze in cui operarono Rosa Luxemburg e gli spartachisti.
I due punti d’appoggio fondamentali su cui fece leva la rivoluzione bolscevica furono i problemi della pace e della terra. Il primo fu uno strumento efficacissimo adoperato per molti mesi, dalla rivoluzione di marzo a quella di novembre, contro un governo che si ostinava a voler mantenere in guerra – e in una guerra che non aveva più i mezzi per sostenere – un paese che non ne voleva assolutamente sapere. La rivoluzione tedesca del 9 novembre fu seguita invece a soli due giorni di distanza dall’armistizio con le potenze vincitrici; il governo Ebert-Scheidemann, a differenza di quello Kerenski, aveva il merito d’aver posto fine alla guerra e di voler arrivare il più rapidamente possibile alla pace. Esso anzi aveva buon gioco a predicare la calma, la concordia, la disciplina come fattori che avrebbero favorito delle migliori condizioni di pace: poteva cioè al tempo stesso giocare sulla corda nazionalista per tutti coloro che avevano creduto nella guerra e desideravano evitare una pace umliante, e sulla corda pacifista per tutti coloro che erano ormai stanchi della guerra e volevano tornare a un regime di vita normale.
Anche il problema della terra non aveva in Germania l’importanza che aveva in Russia: certo c’erano, soprattutto al di là dell’Elba, delle condizioni di vita agricole che esigevano una riforma agraria e avrebbero potuto giustificare un’insurrezione, ma non avevano neppure lontanamente l’importanza numerica e sociale che avevano in Russia, la Germania essendo un paese prevalentemente industriale anziché agricolo come la Russia. Certo, è vero, la sinistra socialdemocratica tedesca e Rosa Luxemburg in specie si sono sempre occupati poco dei problemi agrari, in quanto fondavano le loro speranze rivoluzionarie sulla classe operaia, e que-sta è indubbiamente una carenza che ha un peso. Ma non bisogna dimenticare che il problema agrario tedesco s’inseriva in un contesto generale ben diverso da quello russo: la società tedesca era già allora una società fortemente strutturata, dove gli junker prussiani, che erano stati lungamente la classe dominante e conservavano ancora numerosi privilegi, erano ora gli alleati della borghesia industriale, con la quale avevano spesso rapporti anche familiari, per cui un’azione fra i contadini avrebbe incontrato ben altre difficoltà in Germania che in Russia. E d’altra parte lo stesso Lenin poté far leva sui contadini, solo modificando improvvisamente il programma bolscevico per accettare le parole d’ordine dei socialrivoluzionari che aveva sempre combattuto, e anche Rosa Luxemburg, appena poté parlare dalla tribuna del nuovo partito rivoluzionario, pose subito anch’essa il problema dei contadini come uno dei problemi che dovevano essere più urgentemente affrontati per sottrarre alla reazione l’appoggio delle masse rurali e acquisirle invece alla rivoluzione.
Si aggiunga inoltre che mentre il governo russo rovesciato da Lenin era diretto da Kerenski, un giovane avvocato più ricco di parole che di capacità politica, che dopo il tentato colpo di stato di Kornilov non aveva più neppure l’appoggio delle forze armate, il governo Ebert-Scheidemann era retto da leader politici abili e sperimentati, che avevano dietro di sé – lo ripetiamo – la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi (come fu confermato alle elezioni per l’Assemblea nazionale del 19 gennaio), e avevano stipulato un’alleanza con le forze armate rimaste agli ordini di Hindenburg. L’avversario contro cui combattevano gli spartachisti era quindi di ben altra taglia: era il risultato di due duplici alleanze fra le forze organizzate ch’eran rimaste in Germania, e cioè quella fra socialdemocrazia ed esercito, e quella fra industriali e sindacati socialdemocratici. Tanto Ebert, capo del governo, quanto Hindenburg, capo delle forze armate, avevano una duplice legittimità: quanto a Ebert, quella del vecchio regime perché egli era stato designato successore dell’ultimo cancelliere del Kaiser, il principe Max von Baden e il passaggio era avvenuto senza scosse, con tutta la burocrazia rimasta al suo posto, e quella del nuovo regime, perché il passaggio di poteri era avvenuto dopo l’insurrezione berlinese del 9 novembre, perché la repubblica era stata proclamata da Scheidemann, il secondo di Ebert, e perché il consiglio degli operai e dei soldati di Berlino aveva ratificato questa nomina; quanto a Hindenburg, perché aveva avuto la carica del Kaiser, che, abdicando, l’aveva pregato di rimanere al suo posto, e perché il nuovo governo l’aveva in quel posto confermato. L’avversario che gli spartachisti avrebbero dovuto abbattere rappresentava quindi tutto quello che c’era in Germania di solido ed organizzato e che si presentava, quasi senza soluzione di continuità, nonostante la “rivoluzione”, compatto e garante sia della pace futura che della ripresa economica dopo le privazioni imposte dalla guerra.
Anche senza gli errori che certamente furono commessi dagli spartachisti, sarebbe stato impossibile, nei due mesi in cui Rosa Luxemburg sopravvisse, abbattere il regime: in condizioni estremamente più favorevoli furono necessari a Lenin sette mesi, dopo il suo ritorno in patria. Perciò ogni ragionamento che voglia trarre, dalla mancata vittoria rivoluzionaria degli spartachisti, una conferma dell’errata posizione ideologica della Luxemburg, ci sembra sfornito di qualsiasi serietà. Senza contare che Lenin era veramente il capo dei bolscevichi e riusciva, pur con qualche difficoltà, ad imporre le sue vedute nei momenti eccezionali, mentre presso gli spartachisti il capo più prestigioso era certamente Liebknecht e la responsabilità delle parole d’ordine errate del gennaio, alle quali la Luxemburg e la maggioranza della direzione erano contrari, grava in gran parte su di lui.
E infine, se si volesse spingere fino in fondo questi paragoni assurdi che non tengono conto delle differenze di situazione e credono che le strategie rivoluzionarie siano dei modelli trasportabili ovunque, si potrebbe aggiungere un altro argomento: è vero che Lenin, con una strategia basata soprattutto sul partito d’avanguardia che si trascina dietro la classe, è riuscito a conquistare il potere, mentre la Luxemburg, con la sua strategia dei tempi lunghi che vuol portare al potere non un partito, non un’avanguardia ma la maggioranza della classe, è stata battuta prima di avere avuto il tempo di portare avanti la sua strategia, ma se badiamo agli sviluppi dobbiamo pur ammettere che la vittoria di Lenin non ha portato in URSS, neppure dopo oltre mezzo secolo, quella società socialista per la quale la Luxemburg combatteva, il che potrebbe anche significare che la strategia leninista, la strategia dell’avanguardia, non è la strategia che corrisponde ad una rivoluzione socialista quale noi l’abbiamo descritta nelle pagine precedenti con le parole della Luxemburg, che corrispondono in larga misura al socialismo per il quale anche noi abbiamo modestamente combattuto. Perché il nocciolo del problema è appunto qui: se al potere va soltanto un’avanguardia e non la classe, la burocratizzazione del potere diventa una necessità di fronte a una classe impreparata, e non a caso la burocratizzazione in URSS è cominciata già vivente Lenin; come si passerà allora dal governo della burocrazia alla dittatura della classe, cioè alla democrazia socialista che è appunto il problema non ancora risolto nei paesi comunisti? L’insistenza con cui la Luxemburg voleva le masse titolari e protagoniste dell’azione politica, naturalmente sotto la guida di un partito, ha trovato, ci sembra, negli sviluppi successivi della storia, una giustificazione e non una condanna.
[…]
Bibliografia
Per chi volesse maggiormente approfondire il pensiero di Rosa Luxemburg, diamo qui di seguito una sommaria bibliografia:
I) Raccolte importanti di scritti
a) in lingua tedesca:
Gesammelte Werke, a cura di C. Zetkin e A. Warski, Berlino 1923, sgg. Di questa edizione sono usciti soltanto i seguenti volumi curati da P. Frölich:
III (1925) Gegen den Reformismus
IV (1928) Gewerkschaftskampf und Massentreik
VI (1923) Die Akkumulation das Kapitals
I primi due volumi contengono un’ampia introduzione di P. Frölich e delle brevi introduzioni ad ogni singolo capitolo.
Ausgewählte Reden und Schriften, a cura del Marx-Engels-Lenin Institut beim ZK der Sed, con una prefazione di W. Pieck, Dietz Verlag, Berlino 1951, 2 voll.
Politische Schriften, a cura e con prefazione di O.K. Flechtheim, Europäische Verlagsanstalt, Francoforte 1966-68, 3 voll.
Gesammelte Werke, a cura dell’Institut für Marxismus-Leninismus beim ZK der Sed, Dietz Verlag, Berlino 1970. (È uscito sino ad oggi solo il primo volume in due tomi e sono previsti in tutto cinque volumi: sarà questa la più completa raccolta di scritti luxemburghiani).
b) in lingua polacca:
Wybór pism, a cura di B. Krauze, Ksiaźka i Wiedza, Varsavia 1959, 2 voll. (Contiene molti scritti della Luxemburg in polacco, che mancano
in generale nelle raccolte tedesche).
c) in lingua italiana:
L’accumulazione del capitale, con una Introduzione di P. M. Sweezy, Einaudi, Torino 1960.
Scritti scelti, a cura e con introduzione di L. Amodio, Edizioni Avanti!, Milano 1963.
Scritti politici, a cura e con Introduzione di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1967. 11 ed. 1970).
Lo sciopero spontaneo di massa, a cura e con Introduzione di A. Agosti, Musolini Editore, Torino 1970.
R. LUXEMBURG – F. MEHRING, Scioperi selvaggi, spontaneità delle masse,
Della Vecchia Talpa Editore, Napoli 1970.
La rivoluzione tedesca 1918-19, a cura e con Introduzione di L. Basso, di prossima pubblicazione.
II) Raccolte di lettere
a) in lingua tedesca:
Briefe an Karl und Luise Kautsky, Premessa e conclusione di L. Kautsky, E. Laub’sche Verlagsbuchhandlung GMBH, Berlino 1923. (Si tratta di una raccolta incompleta).
Briefe aus dem Gefängnis, Dietz Verlag, Berlino 1946.
Briefe an Freunde, Edite da Benedikt Kautsky secondo il manoscritto predisposto da Luise Kautsky, Europäische Verlagsanstalt GMBH, Amburgo 1950.
b) in lingua polacca:
Listy do Leona Jogischesa-Tyszki, a cura di F. Tych.
Ksiazka i Wiedza, Varsavia 1968, sgg., 3 voll., di cui sono usciti sino ad oggi i primi due volumi, il terzo è in corso di pubblicazione.
c) in lingua italiana:
W. LIEBKNECHT – R. LUXEMBURG, Lettere 1915-18, con una Introduzione di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967.
Lettere alla famiglia Kautsky, a cura e con Introduzione di L. Basso, di
prossima pubblicazione presso gli Editori Riuniti, Roma. (Edizione completa).
Lettere a Leone Jogiches Tyszko, a cura e con Introduzione di L. Basso, di prossima pubblicazione, presso Feltrinelli, Milano (Antologia).
III) Biografie
P. FRÖLICH, Rosa Luxemburg, La Nuova Italia, Firenze 1969.
P. J. NETTL, Rosa Luxemburg, Il Saggiatore, Milano 1970, 2 voll.
Una bibliografia completa degli scritti finora accertati di Rosa Luxemburg si trova nel volume Scritti politici, cit., con l’integrazione che uscirà nel volume Lettere alla famiglia Kautsky, cit.
Fonte: www.leliobasso.it