Jobs Act e solitudine

jobs-act-scontri8-1000x600Per rivelare la verità dell’opera di governo Renziana bisogna bypassare il mondo della comunicazione e della propaganda che i media mainstream hanno votato alla santificazione del premier ma soprattutto bisogna decostruire l’ordine del discorso dominante nello spazio pubblico, ormai intossicato dalla propaganda di governo, scoprendo la ratio reale della governance attuale. Neanche il grande fratello Orwelliano con la sua famosa “la guerra è pace” sapeva ribaltare la realtà nelle sue narrazioni retoriche come questo governo che per “combattere la precarietà e la disoccupazione” liberalizza i licenziamenti e la precarietà stessa.

Attraverso il jobsact 1 (decreto Poletti) e 2 il trentennale processo di precarizzazione del mercato del lavoro italiano giunge ad un punto estremo, ad un estensione totalizzante della condizione di precarietà nel mondo del lavoro. Grazie al decreto Poletti (jobs act 1) viene eliminata la causale sui contratti a tempo determinato che era anche l’unico appiglio giuridico su cui il precario poteva fare leva per ricorrere giudiziariamente, uno dei pochi elementi di tutela (se pur tenue) a garanzia del lavoratore precario. La ratio della causale di un contratto atipico stava proprio nella necessaria giustificazione, da parte del datore di lavoro, per l’utilizzo di una forma contrattuale atipica che teoricamente dovrebbe essere temporanea ed eccezionale ma che oggi, grazie a Renzi ed al Pd, l’imprenditore potrà continuare ad adoperare senza limiti, assumendo a tempo determinato come e quando vorrà. Inutile e beffardo il limite di 5 rinnovi poiché si rivolge alla mansione e non al lavoratore, per cui basterà cambiare mansione al lavoratore per poter continuare all’infinito con contratti a tempo determinato.

Nel job act 2 una serie di ulteriori provvedimenti i completano l’opera di disciplinamento dei lavoratori e di precarizzazione complessiva del mondo del lavoro. L’abolizione di fatto dell’art.18 si concretizza limitando il reintegro per ingiusto licenziamento solo ai casi disciplinari e discriminatori, rendendo “precari” anche i contratti a tempo indeterminato. Basterà licenziare un lavoratore per motivazioni economiche che anche in caso di accertamento da parte del giudice dell’insussistenza della motivazioni non sarà più possibile il reintegro ma al massimo un indennizzo. Una norma ingiusta e folle, che invera i sogni programmatici di Confindustria e arriva dove Berlusconi non era riuscito ad arrivare. Tra le altre novità tanto sbandierate il “rivoluzionario” contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che dovrebbe funzionare coma canale d’inserimento nel mercato del lavoro per qualifiche medio- alte. Il contratto sarebbe privo di qualsiasi tutela (come quel che rimane dell’art.18 e altro) per i primi 3 anni per poi acquisire gradualmente una serie di diritti: di fatto per i primi 3 anni il datore di lavoro potrà fare ciò che vorrà del lavoratore mentre le tanto sbandierate tutele crescenti sono ancora ignote, visto che saranno i decreti a determinarne contenuti e modalità di applicazione. Al di la dell’ancora fumosa articolazione di questa tipologia contrattuale mi viene da chiedere quale imprenditore, potendo disporre della possibilità di usare in maniera indefinita di contratti a tempo determinato grazio al decreto Poletti e in assenza di una diminuzione rilevante (assolutamente non prevista nel jobs act) dell’immenso numero di tipologie contrattuali a t.d oggi disponibili opterà per il contratto a tutele crescenti? Vista la prassi precarizzante e truffaldina dell’imprenditoria italiana (che in questi anni ha attinto a piene mani alla miriade di contratti precari tanto che negli ultimi anni 10 anni, sul totale degli occupati, i precari sono passati dal 45% al 55% ) è prevedibile che il contratto a tutele crescenti sarà riservato a quei lavoratori altamente qualificati che hanno maggiore possibilità di collocarsi nel mercato del lavoro.

La precarietà è la conseguenza delle trasformazioni economiche della globalizzazione neoliberista: la mobilità dei capitali, il postfordismo, il just in time, la flessibilità lavorativa e la decostruzione del modello produttivo basato sull’unità produttiva della fabbrica trasformano la vita dei lavoratori in una variabile totalmente dipendente dal capitale . Oggi la produzione (materiale e immateriale) si spalma sui territori, attraverso appalti e subappalti costruisce una competizione costante e al ribasso ,che si sviluppa in maniera diffusa attraverso “catene del valore” ed esige una forza lavoro “flessibile”, incapace di opporre qualsiasi resistenza alla volontà del capitale. All’interno di uno scenario che vede le imprese competere al ribasso gli Stati fanno di tutto per costruire condizioni ideali per la produzione, per attirare imprese abbassando gli standard ambientali e lavorativi. La “flessibilità” serve proprio a creare un self-service del lavoro in cui il datore di lavoro arriva, consuma e se ne va. Rimane solo se c’è un’offerta migliore, un prezzo più basso della merce “lavoratore”, una sua maggiore disposizione al servilismo e alla missione aziendale. Tra le tante conseguenze della moltiplicazione di forme contrattuali a tempo determinato ne citerò 2 che mi sembrano politicamente immediatamente rilevanti:

1) un’ulteriore segmentazione dei lavoratori anche all’interno delle stesse funzioni o mansioni. Per cui, per esempio, capita spesso che chi ha un contratto a progetto di qualche mese sgomiterà con chi ha un contratto a tempo determinato di tre anni. Il luogo della produzione da luogo di contropotere e solidarietà, in cui si sviluppava una fraternità propedeutica alla costruzione di lotte capaci di migliorare la condizione del lavoratore, diventa il luogo della solitudine competitiva. Il tuo collega non è più un compagno con cui essere solidale e costruire lotte per un miglioramento della situazione complessiva ma il tuo primo nemico. Così, mentre si scatena la guerra tra lavoratori, l’imprenditoria può abbassare indisturbata il livello complessivo delle garanzie e degli stipendi.

2) La “solitudine competitiva” diventa disciplina di vita, esce fuori dai luoghi di lavoro e diviene il minimo comun denominatore di una società individualista e disumanizzata. Il cinismo e l’ambizione smisurati, che servono per alimentare illusioni capaci di narcotizzare l’insicurezza del presente, diventano “pregi” irrinunciabili dell’homo oeconomicus, modello antropologico da coltivare e lodare secondo la narrazione “neoliberista” dell’uomo che “si è fatto da solo”.

La flessibilità lavorativa diventa precarietà di vita, impossibilità di programmare il proprio futuro e riduzione del presente ad una sorta di “carpe diem” ribaltato in cui lo scopo è sopravvivere alla giornata. I legami solidi col territorio, con la comunità, gli amici, gli amori vengono travolti dal turbinio insostenibile delle difficoltà materiali e dell’insicurezza esistenziale ma l’assunzione del modello antropologico neoliberista (seconda conseguenza) impedisce una reazione conflittuale, una ribellione.

La narrazione egemonica neoliberista trasforma questo sistema ultracompetitivo ed escludente in “meritocratico” ed emancipatore, capace di premiare la qualità dell’individuo e il suo ardore imprenditoriale. La disoccupazione e la povertà si trasformano: se fino a 20 anni fa erano il prodotto delle politiche economiche e sociali oggi diventano il prodotto dell’incapacità del singolo. Non c’è un sistema sbagliato ma è il precario, il disoccupato, l’impiegato che è stato incapace di coglierne le opportunità, il sistema va bene ma sono gli ultimi che sono troppo “schizzinosi” (ricordate il famoso choosy della Fornero?), mammoni e falliti per coglierne le opportunità. La responsabilità viene traslata dalla politica, che attraverso l’austerità e la precarizzazione produce povertà e disperazione, agli individui che spesso introiettano questa narrazione velenosa e sentendosi “inadeguati al sistema” rinunciano alla lotta e spesso sono vittime di patologie psicologiche. Condizioni strutturali (precarietà e trasformazioni produttive) e sovrastrutturali (egemonia neoliberista) intimamente intrecciate producono l’impotenza del soggetto precario.

In Inception di Christopher Nolan una squadra di ladri molto particolari è specializzata nel penetrare l’inconscio dei malcapitati attraverso il loro spazio onirico, colonizzando i loro sogni e attraversando i loro incubi per rubare segreti ed idee. La missione più difficile della banda di professionisti dell’onirico sarà però quella di impiantare un’idea, perché la forza di un’idea può cambiare gli uomini e la loro storia. Anche noi abbiamo la stessa missione: come comunisti dobbiamo calarci nell’incubo della precarietà di milioni di persone smascherando le bugie e gli inganni delle narrazioni egemoni per svelare che la precarietà non è una sventurata sciagura individuale ma una condizione collettiva scientificamente costruita per rafforzare l’egemonia del capitale sulle nostre vite, per renderci ricattabili e quindi più soli e cattivi, che i responsabili di questa condizione sono le forze politiche di centro destra e centrosinistra europee. Noi vogliamo ribaltare la realtà, ricostruire conflitto e speranza per ridistribuire ricchezza e lavoro attraverso la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e un reddito di cittadinanza finanziato da una patrimoniale e dal taglio degli interessi sul nostro debito. Se la normalità è solitudine e precarietà la rivoluzione è un semplice atto di buon senso.

GIOVANI COMUNISTE/I – COSENZA

redazionale

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