Un saggio dello storico Paolo Favilli tratto dal libro Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva (2001)
“Finito il concetto di una vita, di un sapere tecnico, di un lavoro. Il lavoratore del futuro dovrà essere pronto a un riciclaggio continuo, se non vuole finire accantonato in un mercato del lavoro in perenne riconversione, dove sicuri e tranquilli probabilmente saranno solo i conferenzieri occupati a vendere la necessità di non essere né sicuri né tranquilli” (M. Vázquez Montalbán, 1994)
Vorrei iniziare riflettendo su alcune affermazioni di un grande scrittore italiano: Italo Calvino.
Calvino, agli inizi degli anni sessanta, affrontava, con la consueta “leggerezza metodologica”, il problema della “centralità operaia” nel discorso culturale contemporaneo in uno di quei suoi articoli costruiti in attento e calibrato equilibro tra specifico letterario e teoria della società, ed affermava: “Da più di un secolo a questa parte, il termine “operaio” da denominazione d’una condizione sociale o professionale è diventato elemento esplicito o implicito di ogni discorso culturale. (…) l’operaio è entrato nella storia delle idee come personificazione dell’antitesi”[1].
Certamente le culture del marxismo sono state essenziali nella determinazione del valore di immanenza universalistica attraverso il quale il termine “operaio” ha espresso tanto la soggettività che l’oggettività di un processo storico che avrebbe dovuto, negando l’esistente, concludersi in un orizzonte di liberazione totale. Quelle culture hanno dato alla natura antitetica dell’operaio giustificazione teorica nell’ambito di una genesi che fu largamente comune e alla formazione delle culture e alla formazione dell’“operaio”: un’antitesi che si veniva quasi manifestando mediante una costruzione simbiotica di teoria ed oggettività storica. Una costruzione fatta di materiali che per un lunghissimo periodo di tempo sono sembrati inattaccabili da qualsiasi agente corrosivo.
Sempre Calvino, questa volta in un racconto, fa dire al protagonista che rimpiange i “materiali impermeabili, indeformabili, lavabili” di cui era stata completamente rivestita la terra prima della loro distruzione a causa di una catastrofe cosmica:
“I veri materiali, quelli d’allora, dicono che ormai si trovino soltanto sulla luna, inutilizzati e alla rinfusa, e che solo per questo metterebbe conto d’andarci: per recuperarli. Io non vorrei fare la parte di chi viene sempre a dire cose spiacevoli, ma la Luna sappiamo tutti in che stato è, esposta alle tempeste cosmiche, bucherellata, corrosa, logora. Ad andarci avremmo solo la delusione d’apprendere che anche il nostro materiale d’allora — la grande ragione e prova della superiorità terrestre — era roba scadente, di breve durata, che non serve più neanche da rottame. Sospetti come questi una volta mi sarei bene guardato da manifestarli a Sybil. Ma adesso, — grassa, spettinata, pigra, golosa di pasticcini alla crema, — che cosa può ancora dirmi Sibyl?”[2].
Potremmo considerarla la metafora credibile di un armamentario analitico che una tempesta storica ha reso inservibile e che, forse, a tale tempesta non era in grado di resistere? L’“invenzione” della “classe operaia” era solo un’operazione teorica forzata ed esterna alla complessità del reale, “piastra liscia ed esatta del primigenio scudo” destinata a frantumarsi con l’inevitabile crescita delle implicite complessità? E visto che erano stati coloro che volevano “cambiare il mondo” ad “inventare” la classe operaia, “cambiare il mondo” non sarebbe stato più possibile? Ma adesso che cosa può ancora dirci “cambiare il mondo”?
Dovremmo però riflettere sul fatto che tra quella che finirà per definirsi “classe operaia” la prospettiva di “cambiare il mondo” nasce proprio da una lunga fase di lotta per “conservare il mondo”. Conservare un mondo dove gli artisans erano sostanzialmente padroni dei tempi e dei modi del loro lavoro, e quindi parzialmente padroni del proprio corpo e degli elementi essenziali della propria vita.
Il conflitto dei primi decenni del XIX secolo, il conflitto in cui la “classe” tenderà a definirsi come tale, è un conflitto “per il controllo del corpo e dell’anima del produttore e non per la divisione del plusvalore”, è un conflitto su una dimensione di fondo della natura umana che si esprime nelle forma del rifiuto del “nuovo”. “Il conflitto tra operai e proprietari di fabbrica emerse come resistenza degli oggetti di tale controllo contro un nuovo sistema di potere che lo implicava. L’organizzazione degli operai in una classe ostile al dominio dei proprietari di capitale fu un risultato di questa resistenza”[3].
Resistenza contro il nuovo mondo disumanizzante, opposizione culturale all’insieme teorico che quel mondo rispecchiava e giustificava. Questo e non altro era il contesto da cui necessariamente sarebbe nata l’esigenza di un “mondo diverso”, e dunque l’esigenza di “cambiare il mondo”. Quell’esigenza che avrebbe assunto per una lunga fase storica le connotazioni del socialismo. “Il socialismo è essenzialmente la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica”, così Karl Polanyi ha definito la “reazione ad uno sconvolgimento che attaccava il tessuto della società”, la reazione ad un mondo che finiva per considerare la società umana come “accessorio del sistema economico”[4]. Il tutto nell’ambito, anche allora, di un “pensiero unico” che svolgeva la nuova scienza, l’economia politica, molto più sulla base del paradigma del “prete “delicato””Townsend, come lo chiama ironicamente Marx[5], che sulle Indagini sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Smith. Fëdor Dostojevskij, in Delitto e castigo, fa delineare ad un “umiliato e offeso”, il povero Marmeladoff, quest’immagine della “scienza nuova”: “…il signor Lebeziatnikoff, partigiano delle nuove idee, spiegò l’altro giorno che la pietà, nell’epoca nostra, è perfino proibita dalla scienza, e che tale, appunto, è la dottrina seguita in Inghilterra, dove fiorisce l’economia politica”.
I poveri spiegava Townsend, erano naturalmente portati ai lavori servili e volgari, in modo da permettere ai “delicati” di dedicarsi alla loro superiore missione. Tale naturalità doveva essere assecondata non lasciando al povero vie d’uscita artificiali ai morsi della fame. E Townsend continuava a spiegare che gli equilibri sociali erano soltanto il frutto dello svolgimento di “leggi naturali” così come l’equilibrio naturale delle isole di Juan Fernandez turbato dalla proliferazione eccessiva di capre immesse artificialmente era stato ristabilito dall’immissione di cani. La lotta per la vita aveva automaticamente eliminato gli individui inadatti alla sopravvivenza, e ora gruppi selezionati di capre e cani forti vivevano in mutuo e vitale antagonismo[6]. “Nessun governo era necessario per conservare questo equilibrio che si conservava da un lato per i morsi della fame, dall’altro per scarsezza di cibo. Hobbes aveva sostenuto la necessità di un despota perché gli uomini erano come bestie, Townsend insisteva sul fatto che in realtà essi erano bestie e che proprio per questa ragione era necessario soltanto un minimo di governo”[7]. E del resto oggi non ci viene continuamente ripetuta dai media, (assai spesso anche dagli economisti) la metafora della gazzella e del leone per invitarci comunque a correre già dalla mattina appena svegli?
Per quanto concerne questo aspetto le analogie tra la fase storica che stiamo vivendo e quella che, due secoli fa, vide nascere pressoché assieme Scienza Economica e moderno capitalismo industriale sono davvero impressionanti. I criteri dell’affermazione di una razionalità economica che diventa anche spiegazione e norma di nuovi rapporti sociali sono strettamente coniugati al dispiegarsi di un mutamento strutturale di carattere epocale. Nelle discussioni in corso sul carattere periodizzante dell’attuale lunga fine secolo dovremmo riflettere anche sulle caratteristiche e sul significato di tali analogie.
Nel corso del XVIII secolo c’era stato anche un modo di pensare l’economia dal quale finivano per dipanarsi lineamenti capaci di discutere il problema della sovrappopolazione trasformandolo nella “Questione della Disoccupazione” e in quella del “Diritto al Lavoro”. Si affermano però altri lineamenti del secolo dei Lumi, quelli che prefigurano “un’economia politica ostile al Diritto al Lavoro”[8], strettamente connessi ai profondi mutamenti in atto dei rapporti economici e sociali. Scienza e pubblicistica insieme procedevano nella formazione di un senso comune che recepisse compiutamente la naturale razionalità dei nuovi assetti secondo Economia Politica. Senza disdegnare, peraltro, la pedagogia dell’utopismo, il suo efficace discorso metaforico, quell’utopismo in altre stagioni (a ben vedere anche in quella) duramente condannato quando si trovava a percorrere i sentieri critici delle naturali disuguaglianze. Ed allora anche un economista come Jean Baptiste Say, fustigatore acerrimo di utopismi politici, poteva scrivere un trattato utopistico, immaginando Olbie, uno Stato del tutto razionale, privo dei mali del presente, senza miseria e degrado, perché ordinato secondo i principi dell’Economia Politica. Un’utopia del libero mercato che, in una stagione aurorale, trovava certo motivazioni assai più convincenti di quelle dei tardi epigoni, ritornati a frotte in questa nostra stagione.
Ed ancora: non c’è dubbio che l’attuale tendenza alla distruzione dello stato sociale, od alla sua configurazione come stato sociale minimo, abbia fortissime analogie con la lotta contro lo spirito di Speenhamland, lotta condotta con tanta energia nei primi decenni dell’Ottocento ed infine, nel 1834, vittoriosa. A Speenhamland nel 1795 i magistrati del Berkshire avevano legato i sussidi salariali per i lavoratori poveri all’evoluzione del prezzo del pane. Una sorta di scala mobile che trasformava una parte del salario in una variabile indipendente dalla prestazione lavorativa. Nella società dell’ homo oeconomicus, ovviamente, non poteva esservi alcun posto per leggi ispirate a quel diritto di vivere del tutto estraneo ai rapporti naturali secondo razionalità economica.
Tale riduzionismo naturalistico e la pratica per renderlo effettivo nei rapporti di lavoro fu uno dei motivi del modo in cui le classi subalterne vissero il periodo della prima grande trasformazione industriale come vera e propria catastrofe sociale. È possibile che verso il 1840 il tenore di vita anche nella Gran Bretagna degli operai fosse più alto rispetto a mezzo secolo prima. È possibile, anche se il dibattito storiografico in proposito ha carattere assai controversistico ed è basato pressoché esclusivamente su parametri quantitativi. È certo, però, che quel processo fu vissuto come un catastrofe, e che ancora negli anni quaranta dell’Ottocento l’orizzonte di quel vissuto non era cambiato.
Dunque quel nuovo fondamentale fattore di storia che per più di un secolo e mezzo è stato il movimento operaio, quella novità assoluta di un’“azione operaia che rimette in discussione i rapporti di produzione in nome della produzione stessa”[9], ha le sue basi nella resistenza contro il nuovo totalitarismo della funzione economica, contro il nuovo “pensiero unico” del paradigma di Townsend. È necessariamente vecchia la resistenza al nuovo?
Naturalmente ciò non sarebbe bastato se non ci si fosse poi misurati con il nodo del rapporto economia-società-politica, se fosse stata assente dall’orizzonte una teoria critica tanto della economia politica quanto di una politica pura funzione delle categorie di quell’economia politica soggette a critica. In tale senso si potrebbe forse parlare anche di miseria della politica.
Quali sarebbero le linee di riflessione dell’autore di Miseria della filosofia sull’attuale miseria della politica, una miseria non derivata da scarsità di potere, bensì dall’esercizio di tale potere nell’ambito di parametri prestabiliti, accettati e condivisi, nell’ambito di una concezione dell’economia che non è mai stata tanto globalmente ideologica dalla prima metà dell’Ottocento.
Certo non avrebbe spiegato la linea discendente dell’ultimo ventennio cercandone le cause nella tendenza, peraltro evidentissima, all’abbassamento progressivo della statura politica ed intellettuale dei protagonisti. Le pagine sarcastiche di Marx sulla figura politica, morale, intellettuale di Luigi Napoleone non pongono mai in dubbio la “adeguatezza” di Napoleone il piccolo al quadro sociale e culturale di riferimento.
Marx non amava partire dall’ideologia nei processi di conoscenza della realtà storica. D’altra parte era anche ben consapevole di quanto importante fosse, nella definizione complessiva di quella realtà, l’immagine che una società dava di se stessa, in particolare quando tale immagine era così largamente condivisa da diventare senso comune.
Forse per questo oggi non si sarebbe scandalizzato di fonte al libro tramite il quale, con notevole senso del tempo, il nippo-americano Francis Fukuyama, ha teorizzato la fine della storia appena dopo la conclusione delle esperienze “collettiviste” aperte dal 1917 sovietico.
Non perché dal punto di vista “scientifico” manchino le ragioni per scandalizzarsi di fronte ad un volume che ha le caratteristiche di una caricatura delle grandi narrazioni teleologiche senza le capacità speculative e di rigoroso controllo teorico dei grandi predecessori (Hegel) a cui Fukuyama dice d’ispirarsi. Senza le capacità di controllo critico della lunghissima vicenda storica, da Alcibiade a Pol-Pot, a cui egli fa riferimento con accostamenti che nella migliore delle ipotesi sono soltanto suggestivi. Una caricatura del “rovesciamento” marxiano della dialettica hegeliana: “una interpretazione economica della storia (…) una specie di interpretazione marxista che però conduce ad una conclusione che non è assolutamente marxista [sono parole sue]”[10].
Se dal punto di vista analitico-scientifico il volume mostra tutta la sua inconsistenza, resta però salda e coerente una dimensione ideologica, una immagine di società, così largamente condivisa che, se anche non coincide con la realtà, né è indubbiamente il suo momento fenomenico. Per questo Marx se ne sarebbe interessato, perché se lo spessore e le possibilità di sviluppo del reale restano estranei alla trama argomentativa di Fukuyama, pur tuttavia risulta correttamente messa a fuoco la foto scattata sul tempo presente.
E il tempo presente appare il luogo della fine della storia in quanto si è avuto il riconoscimento universale dei “principi razionali dell’efficienza economica”[11]. La fine della storia, infatti, più che la tendenziale affermazione della democrazia liberale, concerne la “vittoria definitiva [del capitalismo] quale unico sistema economico praticabile”[12]. Il prius non è dunque la cornice politica, la democrazia liberale, che comunque arriverà anch’essa ad una affermazione definitiva. Il prius è il compimento dell’unica strada possibile, quella di una razionalità economica i cui esiti stanno facendo coincidere l’uomo reale con il modello teorico dell’homo oeconomicus. A tale scopo possono servire anche “i regimi autoritari” che “sono, in linea di principio, più capaci di seguire politiche economiche veramente liberali e non distorte da obbiettivi redistributivi che comprimono la crescita”[13].
“Si direbbe — ha affermato un grande scrittore americano — che tra l’umanità e il caos si frapponga solo il libero mercato. La fede nell’invisibile si riduce alla Mano Invisibile del Capitalismo”[14]. È assai improbabile che Adam Smith si sarebbe riconosciuto in questo tipo di smithianesimo.
La politica, allora, che può aver avuto un importante ruolo, negativo o positivo, sul processo di affermazione della “razionalità economica”, una volta che questa si sia stabilmente consolidata (e in una visione teleologica non sono previsti ritorni alla irrazionalità), finisce per diventare del tutto ininfluente sulle tendenze di fondo dell’economia e della dimensione sociale legata alla sfera economica.
La politica diventa il luogo dell’autoaffermazione personale degli individui, il luogo ove si esercita il “desiderio di riconoscimento” innato in tutti gli uomini, non il luogo dove si possa in qualche modo influire sui processi storici. Erano comunque gli uomini, tramite la politica, ad essere soggetto di storia, sia pure in condizioni determinate ed indipendenti dalla loro volontà. E dunque la fine della storia non può non coincidere con la fine della politica.
Paradossalmente questa fine della politica sembra corrispondere all’estremizzazione di uno dei luoghi analitici marxiani: all’ipotesi della totale prevalenza dei rapporti economici nei rapporti tra gli uomini, alla loro trasparenza assoluta. Aspetto di quel più generale paradosso per cui i vincitori dell’attuale fase storica utilizzano, più o meno coscientemente, la tesi tipica del marxismo determinista a proposito della riduzione al minimo di qualsiasi mediazione politica schiacciata totalmente sull’immediatezza di una sfera economica necessariamente trionfante. Fino al paradosso finale per cui coloro che assai spesso hanno usato come ideologia aspetti dell’idealismo filosofico sono diventati paladini del primato dell’economia e gli eredi del marxismo materialistico si vedono costretti, per sottrarsi alle difficoltà stringenti del “momento economico”, a fare ricorso alle risorse dell’etica e dei valori. Risorse invocate dagli intellettuali militanti, quelli residui rispetto a coloro che hanno trovato il porto più rassicurante e scientificamente sicuro delle leggi eterne dell’economia.
È possibile oggi la ricostruzione di una dignità della politica attraverso la riproposizione di un ruolo primario per un partito “intellettuale collettivo”? È possibile, in sostanza, forzare volontaristicamente le maglie strettisime in cui appare del tutto chiusa un’azione politica che non voglia limitarsi alla sfera del “riconoscimento” personale? Maglie strettissime determinate da ragioni forti: nuove dislocazioni assunte dai rapporti sociali per il successo dell’attuale “ciclo sistemico di accumulazione”[15] del capitalismo.
Di una difficile combinazione tra “volontarismo” e “determinismo”[16] è intessuta tanta parte della trama dell’opera marxiana con particolare riferimento ai “ferrei” e “naturali” legami delle “leggi economiche”. Si pensi soltanto al valore quasi paradigmatico attribuito da Marx alla conquista, sanzionata da una legge dello Stato, delle 10 ore di lavoro giornaliero da parte degli operai inglesi. “Per la prima volta — commenta Marx — l’economia politica della classe media risultò completamente soccombente di fronte all’economia della classe operaia”[17]. Una legge dello Stato in conseguenza della quale non era avvenuta nessun crollo delle imprese, come avevano invece predetto gli “organi di scienza più autorevoli”, e, potremmo aggiungere noi, come si poteva predire tenendo ben ferme le formule del dottrinarismo deterministico socialista.
Però neppure l’ “economia della classe operaia” può affermarsi indefinitivamente per sola forza politica ed organizzativa dei soggetti sociali interessati. Il quadro strutturale del rapporto di produzione non può essere forzato “volontaristicamente” al di là dei limiti imposti dai livelli di sviluppo raggiunti dalle molteplici componenti del quadro stesso.
Non è possibile prescindere da tali limiti, anche se sono da considerarsi in una prospettiva dinamica. Elaborazione intellettuale e proposta politica non compenetrate nella vischiosità materica delle relazioni economico-sociali realmente presenti si condannano alla sterilità ed all’utopismo settario. La demolizione della figura del filosofo tedesco in Miseria della filosofia, di quel particolare tipo di intellettuale militante della libertà, critico radicalissimo di idee non vincolate, risponde, appunto, a questa impostazione marxiana di fondo.
A ben vedere il modo in cui Marx svolge l’analisi del ruolo del soggetto politico per eccellenza, del “partito”, del “partito” nelle sue relazioni con la “classe”, è indicativo, per molti aspetti, della medesima impostazione riguardo al ruolo della politica e dell’intellettuale politico militante.
Non c’è, infatti, un “partito di Marx” nel movimento operaio europeo degli anni sessanta dell’Ottocento, nel periodo in cui il filosofo di Treviri si confronta più direttamente con i problemi dell’organizzazione operaia. Non c’è, principalmente, perché nello sviluppo dell’organizzazione operaia, sviluppo qualche volta impetuoso nel primo decennio del “grande boom”, tende naturalmente a prevalere la visione autonoma derivante dall’immediatezza dei problemi da affrontare. Non c’è perché Marx non lo vuole: nelle condizioni reali del movimento tale partito non sarebbe stato niente di più che una setta. Il Marx dell’Internazionale ha modificato piuttosto radicalmente la sua prospettiva sul “partito” rispetto alle ipotesi prequarattotteseche e quarantottesche. Ed ha modificato la sua concezione del “partito” anche perché ha approfondito la sua analisi della “classe”.
La “classe operaia” appare per la prima volta, nel 1844, nell’opera di Marx come categoria filosofica e come momento di uno schema analitico desunto dall’esperienza della rivoluzione francese. Categoria filosofica in quanto elemento necessario a quel “rovesciamento” della costruzione speculativa hegeliana cui la filosofia del giovane Marx era giunta in quella fase di maturazione. Filosofico il linguaggio, filosofici i presupposti: la liberazione “è la liberazione dal punto di vista di quella teoria che proclama l’uomo la più alta essenza dell’uomo”, in quanto la condizione operaia “è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare se stessa soltanto attraverso il completo recupero dell’uomo”. (…). Quando il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo”[18].
Nello stesso tempo, come elemento centrale di un modello costruito sulla base di un processo storico dato, si tratta di una classe empiricamente e storicamente rilevabile. Il modello è quello che Sieyès aveva applicato alla funzione del terzo stato: “Soltanto nel nome dei diritti universali della società, una classe particolare può rivendicare a se stessa il dominio universale. (…) Affinché un ceto divenga il ceto della rivoluzione par exellence, bisogna al contrario che un altro ceto diventi manifestamente il ceto dell’assoggettamento. L’importanza universale negativa della nobiltà francese e del clero francese condizionò l’importanza universale positiva della classe immediatamente confinante e contrapposta, della borghesia”[19].
Negli anni immediatamente seguenti la riflessione di Marx va nella direzione di rendere sempre più concreta, più empiricamente verificabile, la sua concezione della classe operaia, del suo ruolo nello sviluppo storico. Si tratta, pur sempre, di una concretezza che rimane interna alla costruzione di un modello di analisi della società in cui l’approccio filosofico rimane molto forte. Il processo di concretizzazione risulta piuttosto da uno slittamento progressivo delle categorie filosofiche in categorie economiche e poi, soprattutto, nella lettura di quest’ultime come espressione di rapporti sociali.
La tendenza è quella ad un attenzione sempre più feconda per il lavoro degli uomini associati come fatto empirico, con tutte le sue determinazioni. Tendenza ad una analisi del lavoro associato non regolata da categorie filosofiche, neppure quelle più “concretamente” antropologiche, ma che abbisogna invece di indagini empiriche e di costruzioni teoriche che su tale empirica dimensione poggino le basi.
In verità durante quegli anni Marx non si dedicò principalmente a quella indagine empirica sulle caratteristiche del lavoro associato che pure aveva giudicato essenziale. Attraverso il confronto con la tradizione filosofica tedesca (Ideologia tedesca), attraverso il confronto con Proudhon (Miseria della filosofia), prese piuttosto forma, si consolidò nel tipo di concretezza detta prima, la cornice teorica generale in cui avrebbe potuto essere inserita un’analisi sociologica.
La sua esperienza personale non andò al di là di rapporti con gli operai politicizzati aderenti a club parigini, e con numerosi esponenti del mondo “artigiano” degli emigrati tedeschi. Rimase particolarmente impressionato dalle loro qualità: abnegazione, senso del proprio ruolo nel lavoro e negli orizzonti del futuro, capacità intellettuali. Si trattava però di un’élite molto ristretta. E non c’è dubbio che quando Marx nella seconda metà degli anni quaranta pensava ad un “partito comunista” avesse soprattutto presente questa tipologia operaia.
In quegli stessi anni, invece, Federico Engels iniziò un viaggio più immediatamente empirico all’interno del mondo operaio, e in quella parte dell’Europa dove tale mondo era soggetto alle dinamiche spinte della modernità: in Inghilterra. La sua indagine, le sue osservazioni analitiche, così come l’attenzione privilegiata nei confronti dell’economia politica, furono elementi decisivi di una maturazione del pensiero di Marx in questa direzione.
“Solo l’Inghilterra ha una storia sociale (…) — scriveva al Worwärts il 31 agosto 1844 — Solo qui ha operato la massa in quanto massa, mossa dal proprio interesse particolare; solo qui i princìpi sono stati tramutati in interessi. (…) Tutta la politica inglese è in fondo di natura sociale”[20].
La classe operaia che Engels scopre in Inghilterra è quella di un paese in cui sembra che i rapporti sociali, ed anche quelli interpersonali, siano ridotti ai loro elementi primi, siano cioè regolati totalmente dalla funzione economica. Il paese che più si avvicina al modello analitico di una articolazione di classe tendenzialmente dicotomica. Un paese nel quale sembra che la classe operaia si faccia direttamente partito politico. Un paese nel quale, dunque, un socialismo ideologico si trova ad essere arretrato ed astratto rispetto alla crescita di un movimento operaio che coincide con la crescita della classe operaia.
Il cartismo non è un partito politico tradizionale bensì “l’intera classe operaia che insorge” Le richieste immediate di quel “partito” sono politiche, ma le sue finalità sono sociali. Ed il socialismo inglese non è stato in grado di capire la specificità e la grandezza di un simile fenomeno. “Nella sua configurazione attuale — dice Engels — il socialismo non potrà mai diventare patrimonio comune della classe operaia; sarà anzi costretto all’umiliazione di ritornare per un istante alla piattaforma del carsismo; il socialismo autenticamente proletario, invece, passato attraverso il cartismo e depurato dei suoi elementi borghesi (…) avrà senza dubbio, e tra breve, una parte importante nella storia dello sviluppo del popolo inglese. Noi vediamo dunque — così continua — che il movimento operaio è scisso in due frazioni, i cartisti e i socialisti. I cartisti sono di gran lunga più arretrati [nelle edizioni inglesi del 1887 e 1892: “teoricamente più arretrati”], assai meno maturi, ma in cambio sono proletari autentici, in carne e ossa, sono i rappresentanti del proletariato”[21].
Si tratta di fatto dell’individuazione di un’area di indistizione tra “partito” e “classe” che, sostanzialmente abbandonata nella seconda metà degli anni quaranta e nei primissimi anni cinquanta, tornerà prepotentemente ad emergere nel periodo dell’Internazionale.
“Dobbiamo partire dall’io, dall’individuo empirico in carne ed ossa….”[22] aveva scritto Engels a Marx il 19 novembre 1844, e per quanto riguarda l’analisi della classe operaia inglese, nonostante la tendenziale coincidenza tra la realtà e il suo modello di teoria sociale, egli stava ben attento a coglierne tutte le articolazioni interne.
Ad esempio, egli riteneva particolarmente significativa e prevalente in una prospettiva futura la situazione di Manchester, quella del Lancashire, quella cioè in cui l’operaio generico di fabbrica si collocava direttamente contro l’imprenditore capitalista, pur tuttavia si guardava bene dal considerarla generalizzata in quel periodo.
C’erano anche Birmingham, lo Staffordshire, le numerose piccole fucine dei maestri artigiani. “I piccoli maestri — osservava — non sono né veri proletari — poiché in parte vivono del lavoro degli apprendisti e non vendono il lavoro stesso ma il prodotto finito — né veri borghesi, perché in sostanza è sempre il loro lavoro che li mantiene”.
Da questa complessità del mondo del “lavoro associato” derivano anche le forme diverse delle organizzazioni di resistenza, ma anche motivazioni di fondo alla resistenza in qualche modo unificanti. La resistenza si esercita sostanzialmente contro la concorrenza sfrenata che il meccanismo economico dominante impone alle forze del lavoro. Il riconoscimento dell’organizzazione dei lavoratori del suo diritto di “trattare en masse, come potenza con i datori di lavoro” è la condizione essenziale per l’efficacia della resistenza. E la lotta per il riconoscimento dell’organizzazione dei lavoratori è lotta per il riconoscimento della loro dignità di uomini associati, portatori di un insieme di valori, culture interessi diversi da quelli delle classi dominanti. È anche lotta politica, ma come immediata traduzione di una lotta economico-sociale.
Engels valorizza particolarmente la funzione della resistenza, la considera l’elemento centrale della crescita dell’antagonismo sociale, il carattere distintivo della “classe”. Una posizione con certo così comune nel socialismo europeo dell’epoca.
“Queste associazioni e scioperi che ne derivano — continua Engels — assumono un’importanza specifica in quanto rappresentano il primo tentativo degli operai di abolire la concorrenza. (…) L’operaio non può colpire la borghesia, e insieme l’attuale struttura della società, in un punto più nevralgico di questo”[23].
Di fronte alle logiche della resistenza, alla corposità dei suoi significati va in seconda linea persino la politicizzazione spinta dei gruppi di avanguardia degli operai francesi, per non parlare dell’atteggiamento dei “comunisti teorici” tedeschi che se ne vanno “tranquillamente a dormire (…) quando la loro protesta è stata debitamente protocollata e posta ad acta”[24].
Per la Germania non si parla di “classe operaia” bensì di “comunisti” e ciò è di estrema rilevanza. Nelle annotazioni degli anni quaranta riguardanti il mondo del lavoro tedesco appare piuttosto l’espressione “massa delle classi lavoratrici” (1843). Ancora nel 1847 la “massa dei lavoratori” è giudicata incapace ad “assumere la direzione degli affari pubblici”. Una “massa di lavoratori” frazionata “tra garzoni di fattoria, giornalieri, lavoranti artigiani, operai di fabbrica e sottoproletariato”, dispersa sul territorio, tanto da trasformarsi in un “esercito ausiliario per la classe che la impiega”. Una “massa di lavoratori” incapace “di costituirsi in una classe”.
“Come si può uscire da questa miseria? — si chiede Engels — Solo una via è possibile. Una classe deve diventare abbastanza forte da far dipendere dalla sua ascesa quella di tutta la nazione, dal progresso e dallo sviluppo dei suoi interessi il progresso degli interessi di tutte le altre classi. L’interesse di questa unica classe deve diventare per il momento interesse nazionale”[25]. Ma la classe a tale compito deputata nella Germania della fine degli anni quaranta non quella operaia, bensì quella borghese.
La resistenza della “massa” di lavoratori dispersi sapeva ancora delle jaqueries del mondo passato. Nel Wuppertal “gli operai già da qualche anno sono arrivati all’ultimo gradino della vecchia civiltà, protestano con un impetuoso crescendo di delitti, rapine ed assassinii contro la vecchia organizzazione sociale”. In Baviera viene messa una nuova tassa sulla birra e i “lavoratori si radunarono in grandi masse, sfilarono per le strade, assaltarono gli spacci rompendo le vetrine, sfasciando i mobili e distruggendo tutto quanto era a portata di mano”. In Slesia i tessitori insorti hanno distrutto e messo a soqquadro le case dei loro padroni, quei “tessitori affamati [però] non hanno commesso un solo furto. Hanno buttato il denaro per strada ma non ne hanno preso per sé, lasciando furti e saccheggi a contrabbandieri e bracconieri boemi”[26].
I “comunisti” in Germania si sviluppano in assenza di “classe operaia”? Una lettera di Engels a Marx del febbraio 1845 pur nell’entusiasmo del neofita sembra lasciare scarsi dubbi in proposito: “Qui ad Elberfeld accadono miracoli. Ieri nella più grande sala del maggiore albergo della città abbiamo tenuto la nostra terza assemblea comunista. La prima con 40 persone, la seconda con 130, la terza con almeno 200. Tutta Elberfeld e tutta Barmen, dall’aristocrazia del denaro fino alla épicerie, con la sola eccezione del proletariato, vi erano rappresentate”.
In verità sia Marx che Engels non molto tempo dopo entreranno in contatto con operai tedeschi “comunisti”, anche se non certo con la “classe”. Non si trattava però di operai di fabbrica bensì di “artigiani”, in gran parte artigiani sarti. Nei confronti di questi artigiani migranti alla ricerca di lavoro Marx ed Engels svilupperanno anche argomentazioni polemiche concernenti la loro scarsa propensione a proletarizzarsi, ad interiorizzare gli interessi generali della classe. Si trattava, a loro, di uno strato di lavoratori ancora profondamente legato a meccanismi corporativi. Eppure proprio da questo mondo artigiano usciva quel sarto Weitling, fondatore della Lega dei Giusti e autore di opere “comuniste” che, indipendentemente dai sistemi proposti, colpirono assai positivamente i due giovani intellettuali tedeschi, in quanto, come ebbe a dire Engels molti anni dopo, si presentavano “come prima manifestazione teorica del proletariato tedesco”. Cominciava da qui l’idealizzazione della propensione teorica che avrebbe contraddistinto gli operai tedeschi rispetto agli operai di altri paesi europei.
Con il milieu da cui proveniva Weitling avrebbero stabilito di lì a poco rapporti assai stretti, quando, nel 1847, su iniziativa di un altro artigiano sarto, Joseph Moll, entrarono a far parte della Lega dei Giusti. Non c’è dubbio che la loro concezione prequarantottesca del rapporto “classe-partito” fosse influenzata più dalle condizioni della “massa dei lavoratori” tedeschi e degli “artigiani girovaghi” che dall’analisi della situazione della classe operaia inglese.
“Avevamo il dovere di motivare scientificamente la nostra concezione; ma era altrettanto importante per noi, di conquistare alle nostre convinzioni il proletariato europeo e in primo luogo quello tedesco”[27], avrà a dire Engels più di trent’anni dopo ricordando la trasformazione della Lega dei Giusti in Lega dei Comunisti. Alla fine di novembre 1847 ebbe luogo il congresso di trasformazione “Durò almeno dieci giorni — ricorda ancora Engels — fu presente anche Marx che difese in un prolungato dibattito, la nuova teoria (…) I nuovi principi furono approvati all’unanimità e Marx ed io fummo incaricati di elaborare il Manifesto...”[28]. Nella sostanza anche una operazione di pedagogia politica e culturale, strettamente legata ai livelli di sviluppo di quel proletariato.
Il Manifesto… scritto per quella Lega dei Comunisti finisce in verità per trascenderne, e non di poco, gli orizzonti, nonostante i condizionamenti evidenti. Il partito delineato nel Manifesto, infatti, non coincide con la classe organizzata nonostante che per certi aspetti ne siano indistinguibili.
“I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai — recita il Manifesto — I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato. I comunisti non pongono principî speciali sui quali vogliono modellare il movimento proletario. Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su principî inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.
Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi”.
C’è però un altro aspetto immediatamente richiamato: “… i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario”[29].
I due elementi di fondo che comunque rappresentano il filo rosso dell’elaborazione marxiana sul rapporto partito-classe, cioè l’autonomia del movimento reale della classe operaia, e l’affermazione del carattere politico della lotta di classe nella società capitalistica sono già presenti in queste formulazioni. Sono però sempre strettamente collegati ai processi storici in corso che si trovano così ad essere decisivi nella determinazione della “forma partito”.
Una concezione del partito nel quale risulti fondamentale la funzione di un’élite non coincidente necessariamente con la classe, ma che abbia maturato la “coscienza” degli interessi generali della classe e la “scienza” del “movimento reale”, è infatti tipica di un periodo contrassegnato o da rivoluzioni in atto o dalla speranza di una rapida ripresa del ciclo rivoluzionario e insieme dalla presenza di una “massa di lavoratori” non ancora nelle condizioni di trasformarsi in “classe”.
E la Lega dei Comunisti fu certamente un “partito” in questa accezione.
Già le rivoluzioni quarantottesche, però, dimostrarono l’inadeguatezza di quello strumento che, come ebbe a dire Engels, “di fronte al movimento delle masse popolari (…) risultò essere una leva di gran lunga troppo debole”. Di fatto finì per dissolversi nel movimento stesso. E quando, dopo la fine del ciclo rivoluzionario, la Lega, per un breve periodo, rinacque, era ormai un residuo del passato. L’impetuoso sviluppo industriale del ventennio 1850-70 e l’estensione del sistema di fabbrica anche a vaste aree dell’Europa continentale fece sì che nell’elaborazione marxiana quello che prima era un “partito” nelle nuove condizioni non potesse definirsi altro che come “setta”.
Molti anni dopo (1885) Engels metterà a confronto in questi termini le condizioni che determinano il “partito coscienza esterna” il partito che deve “cercare” gli operai e il “partito come classe”:
“Allora la Germania era il paese dell’artigianato e dell’industria a domicilio basata sul lavoro manuale; ora è un grande paese industriale in cui è ancora continuo il rivolgimento industriale. Allora bisognava cercare ad uno ad uno gli operai che capissero la loro posizione come operai e il loro antagonismo storico-economico col capitale…. Oggi si deve sottoporre tutto il proletariato tedesco a leggi eccezionali, solo per allentare un po’ il processo della sua evoluzione verso la piena consapevolezza della sua situazione di classe oppressa. (…)
Oggi il proletariato tedesco non ha più bisogno di alcuna organizzazione ufficiale, né pubblica né segreta, il semplice naturale legame fra compagni di una stessa classe basta, senza statuti, organi direttivi, deliberazioni di nessun genere, senza altre forme tangibili, per scuotere tutto l’impero tedesco”[30]
Fatte salve le concessioni al clima delle leggi antisocialiste del Reich, la negazione di qualsivoglia “organizzazione” sostituita dal “semplice naturale legame fra compagni di una stessa classe” era francamente eccessiva, il mutamento di prospettiva restava comunque nettissimo.
L’esperienza del rapporto con le organizzazioni reali della classe operaia, con le organizzazioni di resistenza, esperienza maturata in particolare nel periodo della I Internazionale, era stata certamente decisiva nella maturazione di quel mutamento di prospettiva.
Il movimento operaio britannico, il suo asse portante: l’Unionismo, agli inizi degli anni sessanta aveva già una lunga ed importante storia dietro di sé. Era diventato ormai una componente essenziale ed ineliminabile del panorama sociale inglese, nonostante le numerose “campagne di cancellazione” di cui era stato oggetto, campagne i cui effetti continuavano a farsi sentire ancora in quei primi anni sessanta. Le Trade Unions di allora erano ben lungi dal presentarsi come quella classe generale-partito che Marx ipotizzava come immanente necessità per il proletariato moderno. Le Trade Unions che si rimodellavano nel lungo periodo di crescita economica apertosi con l’inizio degli anni cinquanta, ciclo di prosperità che sembrò inaugurarsi con l’inaugurazione stessa della esposizione universale di Londra del 1851, con l’inaugurazione di quel Crystal palace che assunse a vero e proprio simbolo d’epoca, si trovarono di fatto ad essere fortemente influenzate dal sistema d’idee e di valori prevalenti nella classe media. Nello stesso tempo, però, erano portatrici di una identità lavoratrice, di una identità operaia che le rendeva irriducibili a quella stessa classe media. Gli uomini che allora dirigevano le Trade Unions erano certo moderati, “perbene”, del tutto accettabili da quella parte della borghesia, sempre più numerosa, che aveva maturato la consapevolezza di dover convivere con un sindacalismo ragionevole. Esprimevano in sostanza il comune sentire di una aristocrazia operaia che metteva confini precisi verso il basso, che non voleva assolutamente essere confusa con il mondo precario degli operai non specializzati, dei non “artigiani”, dal quale intendeva distinguersi anche con comportamenti e stili di vita comunemente “rispettabili”. Ma quegli stili di vita potevano essere praticati solo nell’ambito di un rapporto sociale che garantisse salari relativamente alti e soprattutto regolari. E questo era il campo di una contrattazione con il padrone che assumeva anche le caratteristiche dello scontro duro, per il quale era necessario creare e consolidare strumenti organizzativi adeguati ed anche adeguato spirito di antagonismo. Coltivare insomma quel particolare “senso di classe” senza il quale non sarebbe stato possibile successivamente nessuna “coscienza di classe”.
Non era casuale il fatto che quei dirigenti delle Trade Unions che si accingevano in quel momento a stabilire collegamenti internazionali per rendere più efficace la loro azione rivendicativa cercassero la collaborazione di Carlo Marx onde meglio definire il quadro generale di riferimento concettuale della loro azione. Nei quasi tre lustri di soggiorno Londinese Marx si era tenuto, tranne i primissimi anni, sempre in disparte rispetto alle organizzazioni politiche degli emigrati. Dopo la conclusione dell’esperienza della “Lega dei Comunisti” egli temeva soprattutto la regressione settaria dei piccoli gruppi sganciati dalla realtà dei grandi movimenti sociali. Ciononostante all’interno di molti circoli operai politici e sindacali la sua fama di studioso dottissimo e di originale elaboratore di teorie che davano giustificazione “scientifica” ai movimenti di classe era piuttosto diffusa.
Il Marx che non accettava inviti a far parte di alcuna associazione ora accetta immediatamente. La discriminante fondamentale per il ritorno al ruolo attivo in una organizzazione era dunque quella di aver a che fare con “vere potenze”, cioè con un movimento operaio che avesse elaborato già del tutto autonomamente le logiche fondamentali della propria antitesi alle logiche del capitale. Il fatto che tale movimento operaio potesse essersi sviluppato senza conoscenza ed influenza alcuna delle categorie politiche, filosofiche, economiche di Marx era del tutto inessenziale per Marx. Ciò non significava, ovviamente, ch’egli non considerasse anche suo compito fornire al movimento strumenti per aiutare il progressivo emergere dell’ “autocoscienza” dei compiti generali della “classe”, che, del resto, considerava già immanente nei processi in atto.
Si trattava allora di elaborare un quadro di riferimenti concettuali che non si sovrapponesse alle esperienze reali del movimento, un quadro in cui il movimento si riconoscesse e da cui, nello stesso tempo, potesse trarre stimoli a pensare in termini più generali quella stessa esperienza. I testi elaborati nel periodo dell’Internazionale, a partire dall’Indirizzo inaugurale e dagli Statuti provvisori corrispondono esattamente a tale funzione.
La forza di questi testi consisteva soprattutto nella naturalità con cui venivano a coniugarsi il vissuto operaio nell’organizzazione di classe, la valorizzazione della sua esperienza, e gli orizzonti generali dell’emancipazione.
La linea generale che era venuta affermandosi nell’Internazionale prima che il devastante conflitto tra il Consiglio di Londra e Bakunin ne rimettesse in discussione momenti qualificanti, era stata costruita mediante un complesso di motivi estremamente coerente al proprio interno. Al centro l’organizzazione di classe nella sua duplice connotazione di strumento primo della resistenza e di proiezione obbligata nella sfera politica. Una concezione che poi sarà riassunta nella celebre definizione marxiana della lettera ai Lafargue del 19 aprile 1870: “ogni movimento di classe in quanto movimento di classe è ed è sempre stato necessariamente un movimento politico ”.
Non c’è dubbio questa linea generale abbia costituito l’asse portante di quello che, in particolare a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, si definì come il marxismo del movimento operaio organizzato. Durante la vicenda della I Internazionale, però, per lo meno finché il durissimo scontro con il bakuninismo non portò al centro della discussione la distinzione delle scelte dottrinarie e la tendenza, a definirle nominalisticamente in termini negativi, il “marxismo” come “dottrina”, come “partito”, come “setta” non risulta rilevabile nell’ambito di quella fondamentale esperienza. Sviluppare questo tipo di marxismo era ipotesi del tutto estranea agli intendimenti di Marx e del tutto irrealistica rispetto alle tendenze in atto nel movimento operaio europeo.
Nelle Istruzioni per i delegati del consiglio generale provvisorio al congresso di Ginevra del 1866 Marx diceva chiaramente che il compito dell’Associazione Internazionale era “di generalizzare e di dare uniformità ai movimenti spontanei delle classi operaie, ma non di dirigerle o di imporre loro un qualunque sistema dottrinario”. D’altra parte si sarebbe trattato di una impossibile “imposizione”.
La “vere potenze” che erano state alla base della fondazione della Associazione Internazionale degli Operai, ed anche i riferimenti operai che s’incontreranno con l’Internazionale al di fuori delle “potenze” Inghilterra e Francia, avevano storie e prospettive di sviluppo difficilmente compatibile con gabbie dottrinarie, di “scuola”, portate dall’esterno. Quando Marx entrò a far parte del Consiglio generale sottolineò nella corrispondenza con Kugelmann, con Weydemeier ed altri, l’importanza
della presenza nel consiglio stesso di alcuni leader delle Trade Unions, “i veri re degli operai di Londra”. Ma si accorse ben presto che il rapporto con “i re” e con la “potenza” che rappresentavano non era certo destinato a svilupparsi in maniera lineare.
Resistenza e azione politica erano i momenti centrali dell’elaborazione marxiana concernente l’organizzazione operaia ed il filo rosso che percorse tutta l’esperienza dell’Internazionale. Naturalmente la prospettiva generale in cui Marx inseriva momenti di elaborazione ed indicazioni operative sul movimento operaio organizzato non coincidevano quasi per niente con quelle largamente prevalenti nell’Unionismo inglese. Ma le logiche di una resistenza e di un’iniziativa politica tese ad allargare gli spazi di operatività per le Trade Unions finivano inevitabilmente per allargare lo stesso orizzonte di riferimento dell’organizzazione sindacale.
Il conflitto sociale nell’Inghilterra della media età vittoriana connetteva stabilmente sia la resistenza che l’iniziativa politica.
Gl’impulsi immessi da Marx nel corpo dell’Internazionale andavano nella direzione che il movimento stesso aveva maturato come essenziale per la propria crescita e per il raggiungimento dei propri fini, nella coniugazione tra resistenza ed iniziativa politica.
Il rapporto tra il Marx membro influentissimo del Consiglio generale e le più importanti organizzazioni operaie d’Europa, rapporto non facile, non unidimensionale, si configura come un aspetto essenziale della non lineare affermazione di un impianto marxiano sulla questione del ruolo dell’organizzazione operaia pur nell’assoluta mancanza di qualsiasi corrente dell’Internazionale che potesse essere definita “marxista”.
Una tale corrente non esisteva nell’Inghilterra delle Trade Unions, ma neppure nell’altra delle “grandi potenze” operaie fondatrici dell’Internazionale, nella Francia delle chambres syndicales se ne trova traccia.
Anche le chambres syndicales, come le Trade Unions, organizzavano per lo più artigiani ed operai specializzati. Ancor meno delle Unioni inglesi raggiungevano l’operaio della grande fabbrica. Erano in genere più contigue all’organizzazione dell’Internazionale. Alla fine degli anni ’60 gran parte dei soci delle chambres syndicales erano anche membri di sezioni dell’Internazionale e spesso anche le sedi ed i luoghi di riunione erano gli stessi. Ed inoltre il loro quadro di riferimento socialistico era assai più definito, non certo in senso “marxista” (fino a dopo la Comune lo stesso nome di Marx era pressoché ignoto nell’ambiente operaio francese), ma sicuramente in senso proudhoniano.
Ancora nel 1869, al IV congresso dell’Internazionale a Basilea, alcune chambres syndicales, tra cui quella importante dei meccanici parigini, votarono contro il principio di collettivizzazione della terra, che tra l’altro era già stato sostanzialmente approvato al precedente congresso di Bruxelles. Sostennero la loro posizione con argomentazioni proudhoniane, mantenendo così il quadro di riferimento ideologico della loro tradizione. Per quanto concerneva però la linea generale dell’Internazionale sul ruolo e funzione della organizzazione operaia, della coniugazione tra resistenza ed iniziativa politica, si schierarono con completa convinzione dalla parte del Consiglio generale. L’opzione ideologica doveva restare un elemento “esterno” alla logica “interna” dell’Associazione internazionale degli operai.
Quando si discusse dell’accettazione o meno nell’Internazionale di un gruppo di “prolétaires positivistes” i delegati della chambre syndicale dei meccanici parigini furono concordi nel respingerla. E qui le argomentazioni erano di fatto le stesse che Marx argomentava in una lettera ad Engels: “Si discuteva della domanda di ammissione di una sezione parigina di proletaires “positivistes” (…) Dopo una discussione piuttosto lunga: siccome essi sono operai, possono essere ammessi come semplice sezione. Non invece come “sezione positivista” giacché i principi del comtismo sono in contraddizione diretta con quelli dei nostri statuti. Che del resto era affar loro come conciliare le loro opinioni filosofiche private con quelle dei nostri statuti”[31].
Ho detto prima che un impianto marxiano all’interno dell’Internazionale finì per prevalere in totale assenza di qualsiasi corrente “marxista”. Quest’affermazione rimane valida anche se consideriamo la vicenda del movimento operaio tedesco nel periodo dell’Internazionale?
Questo stesso movimento operaio non operarò in controtendenza rispetto ai lineamenti di cui finora abbiamo ragionato?
È vero che nell’esperienza del movimento operaio nella Germania degli anni sessanta e dei primissimi anni settanta è stata anche letta come contrassegnata dalla presenza di un “partito di Marx” teso a combattere la notevole presenza nelle società operaie del “partito di Lassalle”. Se però non limitiamo la nostra osservazione alla sfera, spesso nominalistica, del dibattito e della polemica politica, vedremo altre possibili e legittime letture.
Marx chiamava “furbo Schweitzer” il segretario dell’Associazione generale degli operai tedeschi, e lo accusava, nella sostanza, di muoversi nella direzione nella quale si muoveva l’Internazionale per motivi tattici, per utilizzare le indicazioni marxiane nel suo scontro con Liebknecht. D’altra parte, scrive Marx ad Engels il 23 settembre 1868, “Liebknecht (…) vuol eliminare per mezzo mio Schweitzer come questi vuol eliminare Liebknecht”[32], e resta così difficile identificare quale sia il “partito di Marx”.
Resta il fatto che al congresso di Amburgo dell’Associazione generale nel settembre 1868, Schweitzer propone una piattaforma che Marx giudica “il punto di partenza di ogni serio movimento operaio”: cioè l’agitazione per la piena libertà politica, per la regolamentazione della giornata lavorativa e per la cooperazione internazionale della classe operaia. Inoltre una particolare attenzione viene dedicato al problema della resistenza con la decisione di arrivare alla fondazione di società di resistenza e di appoggiare comunque il movimento degli scioperi già presente in Germania.
“Schweitzer non sa ancora distaccarsi dalla sia idea fissa di avere “un proprio movimento operaio” — commenta ancora Marx — . D’altra parte egli è assolutamente il più intelligente e il più energico capo degli operai che vi sia in questo momento in Germania, mentre Liebknecht, in point of fact, è stato costretto solo ad opera di Schweitzer a ricordarsi che esiste un movimento operaio che non dipende dal movimento democratico piccolo-borghese”[33]. Qual è dunque il “partito di Marx”?
Marx piuttosto avvertiva Schweitzer che l’ “errore” di Lassalle era come quello di Proudhon, cioè “di cercare la base reale della propria agitazione non dagli elementi concreti del movimento delle classi, bensì di voler prescrivere al tale movimento il suo corso in base ad una certa ricetta dottrinale”. C’è contrasto, infatti, “tra movimento settario e movimento di classe. La setta cerca la sua raison d’être e il suo point d’honneur non in ciò che essa ha in comune con il movimento di classe, bensì nel segno di riconoscimento speciale che la distingue da tale movimento”[34]. Un avvertimento che andava al di là dell’associazione guidata da Schweitzer, al di là della situazione di ambedue i “partiti” tedeschi, per riguardare il complesso del movimento operaio internazionale.
Così scriveva Marx a Bolte il 23 novembre 1871: “L’Internazionale fu fondata per mettere al posto delle sette socialiste o semisocialiste, la vera organizzazione di lotta della classe operaia. I primi statuti come l’“Indirizzo inaugurale” lo mostrano al primo sguardo. D’altro lato l’Internazionale non avrebbe potuto svilupparsi se il corso della storia non avesse già dimostrato il fallimento delle sette. Lo sviluppo delle sette socialiste e quello del vero movimento operaio stanno sempre in rapporto inversamente proporzionale. Finché le sette sono (storicamente) legittime, la classe operaia è ancora immatura per un autonomo movimento storico. Appena raggiunge questa maturità, tutte le sette diventano reazionarie”[35]. Difficile maggior chiarezza a proposito del “partito come classe”.
Il mutamento di prospettiva del rapporto partito-classe propone di fatto un modello di intervento intellettuale completamente interno al soggetto sociale. E propone altresì, più in generale, una concezione forte di democrazia partecipativa fondata su profondi e complessi processi di autoemancipazione collettiva. Potrebbe apparire il Marx più inattuale di fronte alla crisi del soggetto della trasformazione, alla scomparsa della classe generale, e alla metamorfosi dell’attore sociale di massa in spettatore.
Sul piano storico, invece, la pur parziale ispirazione marxiana dei processi di autoemancipazione di cui è stato protagonista il movimento operaio, parziale perché, com’è noto, il “partito marxista” finì poi per assumere caratteristiche diverse rispetto ai punti d’approdo dell’ultimo Marx, ha dato luogo a risultati straordinari. Per una lunghissima stagione tutti i luoghi della presenza del movimento operaio sono stati partecipi della più colossale esperienza pedagogica — autopedagogica che la storia delle classi subalterne abbia mai conosciuto. L’idea che la trasformazione radicale dei rapporti economico-sociali non potesse essere assolutamente disgiunta da una crescita culturale ed intellettuale dei protagonisti—consapevoli della dinamica del mutamento, è stato uno degli elementi fondamentali di una concezione alta della politica. La faticosa conquista della dignità dell’uomo come condizione essenziale della dignità della politica.
La crisi del soggetto sociale, della classe generale marxiana, non ci libera dall’esigenza, ancora tutta marxiana, di ancorare qualsiasi progetto politico “alto” all’interno dei processi reali di trasformazione in atto. “Intellettuale militante” e “partito politico” protagonisti di forzature volontaristiche si ritroverebbero assai presto rispettivamente nelle condizioni del “filosofo tedesco” di Miseria della filosofia e della “setta”. Non ci libera altresì da un’altra consapevolezza marxiana, quella per cui, comunque, la creazione di un soggetto sociale, o di un tessuto unificante tra diversi soggetti sociali, è anche un’operazione culturale di lungo periodo.
Di qui la necessità di continuare (o ricominciare) a pensare radicalmente (nel senso di Marx) e di operare politicamente con il massimo di realismo.
Pensare radicalmente vuol dire innanzitutto non scambiare l’attuale fase del “ciclo sistemico di accumulazione”, che si sta manifestando attraverso una profonda distruttrice e creatrice “crisi di sovraccumulazione”[36], con la “fine della storia”. Un mutamento di ciclo non è cosa marginale che consenta solo deboli aggiustamenti analitici. Un mutamento di ciclo può comportare, come in questo caso, una ridislocazione complessiva della maggior parte dei fattori sociali.
Noi non sappiamo che cosa verrà dopo, se un altro ciclo ancora del tutto interno alle dinamiche dell’accumulazione capitalistica, od un’economia-società postcapitalistica dalle caratteristiche ancora del tutto non configurabili. Non necessariamente un’economia e una società migliori.
Sappiamo però che i meccanismi di ridislocazione economico-sociale in atto creano “nuovi” effetti di “ridondanza”, di “superfluità”, di “sfruttamento” che, in un gioco di scomposizione e ricomposizione con i “vecchi”, non ne diminuiscono l’area totale, tendono invece ad allargarla.
È possibile lavorare all’ipotesi (assolutamente non garantita) di progressiva acquisizione di consapevolezza — autoconsapevolezza da parte dei “ridondanti” nei confronti dei meccanismi profondi dell’esclusione. È possibile lavorare all’ipotesi (assolutamente non garantita) di saldatura tra le diverse “resistenze”, preludio ad una nuova riflessione sui soggetti sociali del mutamento. È possibile lavorare all’ipotesi di una parzialissima accelerazione di tali processi.
Si riparte sempre, comunque, da una resistenza. Riflettiamo ancora sulla domanda posta prima: è necessariamente vecchia la resistenza al nuovo?
Quella che è stata fino a non molto tempo fa la storia del movimento operaio ha avuto una catterizzazione sempre scandita dal conflitto, dagli scioperi. In particolare nel momento fondante di tale storia ed in genere nei momenti di mutamento profondo del ciclo e dell’organizzazione del lavoro. In genere, proprio in quei momenti, gli scioperi falliscono. Alcuni scioperi sfidano evidentemente le ragioni delle “compatibilità” e magari sembrano difendere modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico. Eppure furono proprio i “fallimenti”, gli “anacronismi” a creare quelle organizzazioni nuove e quel nuovo spirito collettivo che fu determinante per arrivare anche a nuove relazioni sociali.
Lo stesso fenomeno lo aveva già rilevato Engels negli anni quaranta in Inghilterra Si era fatto questa domanda ed aveva dato questa risposta: “Si domanderà perché gli operai scioperino in casi in cui è evidente l’inefficacia della loro azione. Semplicemente perché essi devono protestare contro la diminuzione del salario e perfino contro la necessità di tale diminuzione, perché devono dichiarare che, come uomini, non possono adattarsi alla situazione ma è la situazione che deve adattarsi ad essi, gli uomini”[37].
Una riflessione per quegli “anacronismi” che oggi si chiamano Ansaldo o Vilvoorde.
PAOLO FAVILLI
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[1]Cfr. I. Calvino, L’antitesi operaia, in “Menabò”, 1964, ora in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, pp. 100-113, la cit. pp. 100, 101.
[2]I. Calvino, Ti con zero, Torino, Einaudi, 1967, p. 18
[3]Z. Bauman, Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto, Torino, Einaudi, 1987 [I ed. London 1982], p. 23.
[4]K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, (New York 1944) Torino, Einaudi, 1974, le cit. pp. 279, 167, 98.
[5]K. Marx, Il Capitale, Vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 798. Idem, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Meoc, vol. XXX, 1986, p. 242. Su Marx “ironista” come Swift vedi E. Wilson, Stazione Finlandia, Milano, Rizzoli, 1974. [I ed. 1940], p. 201.
[6]J. Townsend (A Wellwisher), A dissertation on the poor laws, (1786), in A select Collection of scarce and valuable economical tracts, a cura di Mac Culloch, London, 1859. Tra l’altro la ricerche sull’argomento non hanno trovato alcuna fonte che potesse suffragare la vicenda a cui Townsend fa riferimento.
[7]K. Polanyi, La grande trasformazione…. , cit. p. 145.
[8]A. Macchioro, Studi di storia del pensiero economico, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 88-89
[9]D. De Masi, Introduzione a Touraine, Wieviorka, Dubet, Il Movimento Operaio, Milano, Angeli, 1984, p. 59.
[10]F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. La democrazia liberale è il culmine dell’esperienza politica?, Milano, Rizzoli, 1996, [I ed. americana1992], p. 150.
[11]Ivi, p. 98.
[12]Ivi, p. 110.
[13]Ivi, p. 143.
[14]S. Bellow, Ne muoiono più di crepacuore, Milano, Mondadori, 1987, p. 148.
[15]G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro potere e le origini del nostro tempo, Milano, il Saggiatore, 1996, p. 12.
[16]L. Huberman e P. Sweezy, Lezioni dall’esperienza sovietica, in “Monthly Rewiew”, 1-2, 1968, pp. 15-19.
[17]Indirizzo inaugurale e statuti provvisori dell’Associazione internazionale degli operai, in Marx- Engels, Opere Complete, vol. XX, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 11.
[18]Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Marx- Engels, Opere Complete, vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 203.
[19]Ivi, pp. 200-201.
[20]Engels, Lettere da Londra, in Marx- Engels, Opere Complete, vol.III, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 514.
[21]Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in Marx- Engels, Opere Complete, vol.IV, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 459. Sull’evoluzione di questi rapporti si veda G. Berta, Marx, gli operai inglesi e i cartisti, Milano, Feltrinelli, 1979
[22]Marx- Engels, Opere Complete, vol. XXXVIII, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 12.
[23]Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit., p. 442.
[24]Ivi, p. 442.
[25]Engels, Lo status quo in Germania, (1847), in Marx- Engels, Opere Complete, vol.VI, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 86.
[26]“The Northern Star”, 29 giugno 1844, Engels, Lettere da Londra, cit., p. 575.
[27]Engels, Per la storia della Lega dei Comunisti (1885), Appendice a Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, [Edizione Cantimori Mezzomonti], Torino, Einaudi, 1964, p. 258.
[28]ivi, p. 261.
[29]Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, cit., pp. 126, 129, 147.
[30]Engels, Per la storia della Lega dei Comunisti (1885), cit. p. 268.
[31]Marx a Engels, 19 marzo 1870, Marx- Engels, Opere Complete, Vol. XLIII, 1975, p. 500.
[32]Ivi, p. 173.
[33]Ivi, p. 194.
[34]Marx a Schweitzer, 13 ottobre 1868, ivi, p. 621.
[35]Marx- Engels, Opere Complete, vol. XLIV, 1990, p. 337.
[36]G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro potere e le origini del nostro tempo, cit., p. 433.
[37]Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit. p. 44.