Per una conferenza realmente (ri)fondativa e per tornare all’offensiva

MG_1372-vota-ad-occhi-apertiEbbene compagni, alfine ci siamo! La quinta conferenza GC è dunque iniziata e si concluderà il 25: questo stesso mese avremo una linea politica e un gruppo dirigente ad applicarla. L’una e l’altra cosa sono mancate in questi anni, sicché la faticosa sopravvivenza dell’organizzazione si deve alla volontà incrollabile dei gruppi territoriali che hanno provato, nei limiti del possibile, a sopperire con la buona volontà a tutto ciò che mancava loro, nell’assenza di campagne, linee guida e momenti comuni e parole d’ordine che li potessero tenere insieme. Sarebbe semplicistico e fuorviante incolpare di tutto il tradimento dei fuoriusciti, in quanto molte responsabilità della prolungata stasi sono pur equamente distribuite con quel pezzo di gruppo dirigente che è rimasto; e ancora, bisogna riconoscere le difficoltà oggettive, in primis di mancanza di agibilità economica, con cui gli uni e gli altri si erano trovati a dover fare i conti: non certo per assolvere qualche colpa, bensì per adattare la futura organizzazione alle difficoltà reali, renderla più snella e capace di mobilitare attivamente la rete dei territori prendendo atto dell’impossibilità di contare su un gruppo fisso di rivoluzionari di professione a tempo pieno. Rispetto agli errori del passato, autoreferenzialità, burocratismo, mancanza di efficienza, correntismo, devo riconoscere – con rincrescimento – che il periodo di gestione transitoria della commissione nazionale per la conferenza non sembra aver segnato una discontinuità, malgrado l’impulso originario a una gestione partecipata e orizzontale del momento congressuale e della retrostante elaborazione politica. Il punto non è qui sottoporre a “processo” i singoli che hanno speso il proprio tempo e le proprie forze in questi mesi di lavoro, sicuramente sacrificandovi molte fatiche, ma constatare il fallimento della commissione nel suo complesso nel realizzare le aspettative in essa riposte. La cesura con tutto ciò è allora ancora da realizzarsi attraverso uno sforzo collettivo: e il momento non potrà che essere la conferenza.

Vorrei essere franco e far prevalere, in questa valutazione, il pessimismo della ragione: compagni, stavolta siamo a un passo dall’abisso della disgregazione! I gruppi territoriali che nella difficoltà hanno resistito si sono ridotti in molti casi all’irrilevanza o sono stati quasi ovunque sopravanzati da altre forme di organizzazione, al cui dibattito non avevano parole d’ordine unitarie con cui partecipare, risultando ovunque, nei movimenti e nei sindacati, una voce flebile e sempre meno ascoltata. Movimenti giovanili dall’impronta progressista, fortunatamente, non sono mancati: ma, salvo casi isolati, per la prima volta da molto tempo i comunisti non ne sono stati forza propulsiva rilevante. Di tutto ciò occorre prendere consapevolezza, ma senza lasciarsi scoraggiare: le rilevanti consistenza numerica e diffusione nazionale degli iscritti (malgrado tutto!) e la potenzialità esplosiva delle nostre parole d’ordine in un contesto sociale estremamente fluido lasciano ampio spazio all’ottimismo della volontà, purché l’inversione di rotta sia tempestiva, senza esitazioni e coinvolga tutto il corpo militante: non quindi dare un colpetto di timone e aggiustare la linea, ma reinterpretare l’idea di una rifondazione permanente del comunismo, quale ispira il nostro Partito, in una conferenza di autentica rottura, che costruisca i Giovani Comunisti su nuove basi, a partire da quel patrimonio di esperienze, proposte e attivismo che i territori esprimono.

Quanto detto può contribuire a spiegare le carenze che mi sembra di individuare nel documento politico, quale scaturito dai lavori della commissione: forse adatto a gestire e correggere l’ordinarietà, sembra fuori dal mondo nella fase attuale. L’impressione è che, nel solco degli sbagli passati, si sia privilegiata un’unità fittizia ad ogni costo rispetto alle potenzialità (ri)costruttive di un dibattito reale, tra proposte anche fortemente diverse rispetto a cui rimettere la sintesi al corpo diffuso degli iscritti in sede congressuale. Così, in contraddizione col proposito di una conferenza di discussione fra tesi prodotte dai territori, è nato un documento che sembrava voler mettere sotto la sabbia a priori e imbrigliare quella dialettica vivace che è la forza e la ricchezza della nostra organizzazione, avanzando proposte che, per tener dentro tutti, si fermavano sovente a ciò che è banale e pacifico, in fondo quasi privo di interesse, lasciando così la reale definizione della linea politica ai volubili equilibri del prossimo gruppo dirigente, magari ancora una volta composto col bilancino tra correnti e cordate.

Dalla constatazione di questo fallimento è scaturita l’iniziativa degli emendamenti, che si è caratterizzata per il voler ridare la parola agli iscritti e permettere loro di incidere realmente sulla definizione della linea politica. Non condivido il merito di tutti gli emendamenti a cui, con altri 152 compagni, ho apposto la firma, né tutti li voterò, ma rivendico la scelta di aver contribuito con quella firma a che tutti essi, in presenza di regole e tempi di presentazione molto restrittivi, potessero essere proposti e riaffiorassero al reale dibattito democratico, che non può che svolgersi tra tesi diverse e magari persino antitetiche.

Vorrei però in questa sede concentrarmi sugli emendamenti che condivido e in particolare su alcuni di essi, alla cui stesura ho anche contribuito e che contengono suggerimenti che mi paiono fondamentali per uscire dalle sabbie mobili dell’irrilevanza politica a cui sembravamo esserci votati. Molti di essi sono in verità del tutto compatibili con il documento stesso come era originariamente concepito, ma ne correggono la genericità con alcune proposte specifiche e mirate che ci consentano di caratterizzarci da subito in campagne concrete e dalle potenzialità espansive.

Per quanto riguarda l’ambito della conoscenza, si vuole delineare un programma di rivendicazioni chiaro e lineare, che nel loro rispondere in maniera evidente e intuitiva alle ragionevoli istanze di ogni studentessa e studente, lavoratrice e lavoratore del settore pongono il tema della rottura col sistema del capitalismo nella fase del neoliberismo, la compatibilità col quale preclude queste soluzioni. Così, oltre ad arricchire il programma in tema di scuola inserendovi alcune proposte pratiche di azione e alcune rivendicazioni che da anni sono proprie del movimento studentesco, in ambito universitario si proporrebbe, integrando il documento, l’introduzione nel testo costituzionale di una congrua percentuale del PIL da destinare esclusivamente all’istruzione; l’abolizione del numero chiuso; l’abolizione della riforma Gelmini, in particolar modo per quanto riguarda la governance degli atenei; il superamento del 3+2 (nelle facoltà in cui si è rivelato fallimentare) con corsi di laurea magistrale a ciclo unico; l’eliminazione delle rette universitarie; l’avvio di un programma nazionale per gli alloggi universitari, con la costituzione di un ente pubblico incaricato della sua gestione, prevedendo la costruzione di alloggi pubblici e il diritto per tutti gli studenti di accedere al mercato privato a condizioni economiche assimilabili a quelle degli alloggi pubblici; l’espropriazione degli immobili degli speculatori che violino in maniera più grave le norme nazionali sugli alloggi studenteschi, con loro assegnazione all’ente pubblico per l’alloggio studentesco; una disciplina nazionale delle mense universitarie e dei loro prezzi, garantendone una reale diffusione nelle zone abitate dagli studenti, affidando il programma allo stesso ente di cui al punto precedente; la reintroduzione della figura di ricercatore a tempo indeterminato; lo sblocco del turn-over nella docenza universitaria, consentendo l’assunzione di tanti giovani ricercatori precari.

Nel gestire la rivendicazione di queste proposte – e delle altre che emergessero di volta in volta come giuste e adeguate – nonché per coordinare la presenza organizzata dei Giovani Comunisti nelle università di tutta Italia, si propone inoltre di dar vita a un’associazione studentesca nazionale, aperta anche a non iscritti, che faccia riferimento alle diverse istanze locali e nazionali dei GC. Lo scopo è duplice: da un lato sperimentare nuove forme di adesione, pur propedeutiche al tesseramento formale all’organizzazione, ma più adatte a rivolgersi a un pubblico non già politicizzato e ad ottenere un riconoscimento in ambito universitario (per esempio con assegnazione o occupazione di aule, organizzazione di feste studentesche, partecipazione a elezioni universitarie), ovvero le classiche funzioni di un’organizzazione di fronte. Dall’altro lato, superare la drammatica situazione di frammentazione che caratterizza l’intervento universitario dei GC, sparsi per organizzazioni e movimenti eterogenei e talvolta tra loro addirittura contrapposti e concorrenti, senza neanche essere in grado di portarvi in modo omogeneo gli stessi contenuti. Non si vuole – sia chiaro! – vietare o limitare la partecipazione degli iscritti a questi sindacati o movimenti: ma proprio darvi un senso unitario garantendo un’elaborazione e trasmissione orizzontale tra i GC di contenuti, pratiche e forme organizzative, in modo da consentire l’adattamento plastico di ogni gruppo di militanti alla specifica situazione universitaria senza compromettere la necessità di un coordinamento snello e reale e di portare avanti ovunque si sia le stesse parole d’ordine.

In un altro emendamento si propone poi l’adozione generalizzata di un vero e proprio salario studentesco, con parificazione anche contributiva dello status di studente a quello di lavoratore salariato. L’idea retrostante, frutto di una più riflessione sui caratteri profondi del capitalismo della conoscenza che il PRC ha da tempo fatto propria almeno a livello teorico – ma in verità non isolata nella storia del nostro movimento operaio (la rivendicazione fu avanzata in maniera embrionale già dal PCI negli anni ‘60) e delle sinistre europee (è già uno degli slogan della Jeunesse Communiste francese in ambito studentesco) –, è che lo studente sia a pieno titolo un lavoratore in formazione, le cui attività già producono valore espropriato a favore del capitale. Vogliamo allora ottenere una traslazione del costo degli studi dalla famiglia alla comunità, ponendolo a carico di chi concretamente finisce per beneficiarsene: poiché il capitale si avvale sistematicamente delle competenze presenti e future e dei prodotti scientifici dei lavoratori in formazione, nonché in generale delle loro attività di ricerca, si propone di finanziare il salario studentesco aumentando le contribuzioni obbligatorie dovute alla previdenza sociale in carico ai datori di lavoro che siano imprese oltre una certa dimensione (andando quindi a incidere sui loro profitti). Il salario corrisponderà ad una quota del contratto da metalmeccanico di primo livello previsto a livello nazionale dai contratti collettivi maggiormente rappresentativi e sarà ad esso indicizzato, in modo da rafforzare un legame indissolubile e oggettivo tra le condizioni e le rivendicazioni materiali degli studenti e quelle dei lavoratori.

In ultimo, un altro emendamento che tengo particolarmente a esporre propone di lanciare una campagna referendaria sul tema della precarietà. Le esperienze positiva del referendum sull’acqua e negativa dei recentissimi quesiti abortiti di Civati mostrano da un lato come queste campagne possano riuscire solo rifuggendo il settarismo, confrontandosi largamente con la società civile e unendo sulle rivendicazioni il fronte più ampio possibile su parole d’ordine antiliberiste; dall’altro lato il potenziale enorme di tali mobilitazioni, in grado di coinvolgere ampie masse e l’attenzione pubblica, mettendo in crisi l’autoreferenzialità del dibattito politico e la sistematica espulsione da esso dei temi del lavoro e del disagio giovanile. La ricostruzione di una sinistra di massa passa non solo e non tanto per gli accordi di vertice tra soggetti percepiti come residuali, quanto per un’opera capillare di costruzione di consenso intorno al tema dell’emancipazione delle classi subalterne. In tale ottica può molto contribuire una campagna referendaria incentrata per forza di cose su questioni che esplicitano il conflitto e la divergenza di interessi tra classi. Non può nascondersi che lo sforzo richiesto ai Giovani Comunisti e al Partito sarebbe enorme, in un momento sicuramente difficile; ma penso che sarebbe ampiamente ricompensato e che valga la pena di cogliere la sfida fino in fondo, investendo risorse in una battaglia capace di mettere in discussione i rapporti di forza attraverso la partecipazione popolare: uscire realmente dall’angolo in cui qualche opportunista ci voleva relegati non con il politicismo, ma ricostruendo capillarmente il conflitto e riscrivendo sulla base di esso l’agenda dell’unità della sinistra. Chi se non i Giovani Comunisti, colonna portante a suo tempo della campagna referendaria per l’estensione dell’articolo 18, può avanzare una proposta così coraggiosa al Partito? In concreto, occorrerebbe incidere con pochi quesiti sulle disposizioni principali che consentono e regolano forme di lavoro precario, compromettono la rivendicazione di diritti da parte dei giovani lavoratori e consentono deroghe in peius ai contratti collettivi nazionali di lavoro. Naturalmente nella raccolta firme e nel comitato promotore dovremmo essere animati da un afflato sinceramente unitario e coordinarci con la probabile contestuale campagna referendaria dei movimenti della scuola.

Queste proposte sono ora sottoposte al dibattito ampio delle iscritte e degli iscritti ai GC. Sicuramente la loro formulazione è assai migliorabile (forse già in questo articolo è più chiara che nel testo scarno degli emendamenti stessi) e va arricchita, anche per via dei tempi sorprendentemente brevi richiesti per avanzare modifiche al documento, per cui essi vanno presi per quello che sono anche nei loro limiti: un work in progress, uno spunto aperto e flessibile che prova a delineare un deciso cambio di rotta.

La preghiera accorata che faccio a ogni iscritto è di valutare ciascuna proposta nel merito e con occhi sgombri dal filtro del passato, in cui dietro ogni emendamento si poteva celare l’operazione di una corrente o cordata, desiderosa di misurare il proprio consenso su parole il cui contenuto era spesso solo la facciata di una pura ostentazione di forza. Invece nessuna corrente si costituirà stavolta – lo posso assicurare a ogni compagna e compagno – dietro il paravento di idee come il salario studentesco o l’associazione universitaria o la campagna referendaria: sono semplicemente spunti animati da un sincero desiderio di arricchire la discussione e sottoposti in quest’ottica al necessario severo vaglio di ogni iscritto. In più, rendere maggiormente fluido e aperto il confronto potrà contribuire a un’effettiva messa in discussione anche delle correnti già esistenti, spingendo ciascuno a pronunciarsi sul il merito di ogni questione e non sulla base di appartenenze cristallizzate e precostituite.

SIRIO ZOLEA
Giovani Comuniste/i – Roma

ottobre 2015

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