Nel caso infatti di scuola, ambiente e beni comuni, democrazia interna ed una questione particolare in esteri (in parte risolta con gli emendamenti) ho trovato particolarmente scarno l’impianto ideologico e troppo essenziale l’impianto pratico. Sulla scuola tralascio volutamente una castroneria che non è stata emendata e che non trova nessuna spiegazione logica, ovvero la proposta di trasformare ora di religione in ora di religioni: no comment. Bisogna dire che pochi anche nel movimento studentesco hanno saputo trattare il tema con una radicalità immaginativa che potrebbe fare davvero la differenza. Negli ultimi anni alla distruzione della scuola pubblica come uscita dalla riforma Berlinguer è stata opposta una difesa e non una vera istanza rivoluzionaria che cambiasse radicalmente non solo la scuola come è oggi intesa ma che aprisse la strada per una visione nuova che potesse renderla un’istituzione realmente socializzata e comunitaria.
A onor del vero neanche la LIP convince in questo tentativo, certamente non semplice ma quanto mai necessario. Senza voler spiegare qui cosa intendo per questa condizione futura dell’istruzione pubblica mi fermo ad alcune considerazioni generali sul documento. Da un punto di vista sociologico l’analisi deficitaria, non necessariamente per ristrettezze di spazio, ricalca posizioni per niente innovative e che riflettono un dibattito trito e ritrito: la storia che gli studenti siano una categoria sociale, motore (immobile) del rinnovamento sociale non lascia spazio né a considerazioni che vanno oltre l’analisi superficiale della disoccupazione giovanile e della precarietà lavorativa (senza neanche riuscire ad elaborare una vera critica alla flessicurezza) e sociale, né all’analisi delle realtà comunitarie scolastiche che si sono fortemente caratterizzate per la differenziazione derivante dell’autonomia di Berlinguer, realtà che trovano connessioni fortissime con il contesto sociale soprattutto a livello locale. Niente di questo e delle possibile implicazioni è stato considerato, né per quanto riguarda lo stato attuale né in una prospettiva storica che dovrebbe guardare, in particolare l’Onda, criticamente alla gestione del conflitto e al nostro ruolo nel movimento studentesco.
Da un punto di vista pratico la linea programmatica è assente, le proposte, seppur giuste e che se realmente applicate potrebbero modificare come mai prima questo settore, non sono inserite in un impianto vero che metta al centro una visione d’insieme sul presente e sul futuro della scuola, visione che non esiste e i cui tratti essenziali non sono neanche tracciati. Negli emendamenti questa visione non ha preso piede, seppur per esempio ci sono elementi molto validi nella nostra giovanile, compresa un’area organizzata, che avrebbero potuto fare la differenza invece di presentare una modifica del preambolo che pare al più una bandierina correntizia. Ma se in ambito scuola è in realtà il movimento che non ha sviluppato un dibattito adeguato ai tempi e alle difficoltà del presente, sul tema dei beni comuni il passo indietro è spaventoso, fortemente ideologico e non una mancanza di analisi.
Viene recepita la visione semplicistica di Hardin e dell’intervento statale del 1968 e solo in parte la problematizzazione di Elinor Olstrom (certamente non una marxista) del 1990. Viene invece, e sottolineo, totalmente ignorato l’unico dibattito in Italia di una certa rilevanza e che ha fatto enormi passi avanti anche rispetto al dibattito negli altri paesi.
Opere come quella di Maddalena “il territorio bene comune degli italiani”, che apre ad una critica veramente ampia e innovativa al concetto di proprietà privata essendo allo stesso tempo uno dei pochi studi seri sul concetto giuridico e sulla storia della proprietà privata al netto delle trasformazioni della società globale e in particolare della società italiana, sono state tagliate fuori, neanche prese in considerazione, l’idea tutta italiana dell’universalità dei beni comuni e dei diritti come bene comune non trova spazio alcuno. C’è in Italia oggi una discussione vera che passa attraverso le lotte territoriali e attraverso il dibattito pubblico che ci trova impreparati, inadeguati e marginali. Intenzionalmente, aggiungo.
Le ragioni per cui la definizione di bene comune è stata ristretta all’osso tagliando anche cose essenziali come il territorio largamente inteso sono tutte da ritrovarsi nel tentativo di allontanarsi da questo dibattito, di differenziarsi rispetto al resto del panorama politico in particolare a sinistra con un’operazione grottesca e grossolana che pur di lasciare spazio tra sé e gli altri torna a posizioni vecchie di 20 anni. Questo punto tra l’altro trova la completa disposizione della maggioranza dei militanti che pur di essere differenti rinunciano ad essere radicali, in particolare più a “sinistra” si va più temi come questo e il dibattuto corrente su ambiente e modello produttivo vengono meno considerati. Su ambiente invece si aggira completamente il problema che sta nel nesso tra modello produttivo ed ecologia. Nella vecchia tradizione stalinista, rinnegata solo a parole sul tema, la necessità dell’industrializzazione e la conquista di una nuova distribuzione della ricchezza attraverso la realizzazione ormai definita della società socialista non lascia spazio ad una critica al capitalismo profonda.
Perché il problema del modello di produzione non può semplicemente essere racchiuso nel problema della distribuzione e del soddisfacimento dei bisogni con l’economia pianificata. In particolare oggi sarebbe necessario (ma non per tutti) portare a nuova radicalità le nostre critiche riuscendo a connettere il tema del consumo globalizzato (come produzione culturale ed economica del potere) al tema della produzione (come modello che non soddisfa bisogni ma mercati, ricercando quindi quali siano realmente i nostri bisogni e rivedendo da zero tutta la cultura della produzione occidentale), del mito della crescita (che è alla base del paradigma capitalista e che di fatti lo distanzia dal mercantilismo di Adam Smith) e della sostenibilità ambientale come sostenibilità sociale globalizzata, fino alla critica fondamentale circa lo sfruttamento del terzo mondo. In poche parole, Serge Latouche, odiato e malmenato dalla sinistra più a sinistra, ma che porta con sé una critica radicale e realmente al passo coi tempi rispetto al modello di produzione dominante.
Sul fronte invece della democrazia interna e delle forme di organizzazione della giovanile si parla di tutto tranne che del tema centrale: la critica alla forma partito. Critica che, premetto, è stata portata avanti anche da un personaggio che tutto si può dire fuorché moderato come Ochalan quando abbandonò il modello marxista leninista per avviare il nuovo corso del PKK e delle comunità autonome (il Rojava). Oggi la forma partito è lontana dal militante, burocratica, macchinosa, non efficace, non radicata, con un dibattito fittizio che non si risolve né nel voto congressuale né nelle discussioni infinite e senza compromessi che portano ad un nulla di partorito. La forma partito oggi così com’è fa parte del nostro fallimento, cullati dal pensiero che una classe dirigente forte e rivoluzionaria (che non è mai arrivata) avrebbe cambiato la situazione abbiamo lasciato che fosse la fede a farci rimanere nel partito, che il nostro lavoro diventasse sempre più inerziale e sempre meno emozionante, che i grandi sogni e le grandi passioni che animano il nostro vivere politico diventassero tutt’al più grigi e inutili voti congressuali. Non è solo un problema di snellimento, ma di come ripensare da zero il rapporto tra partito e militante, tra partito e società senza farci guidare da feticci storici che oggi semplicemente hanno smesso di funzionare.
Bisogna superare il centralismo democratico e non riaffermarlo, la discussione qua sarebbe troppo lunga, del resto anche Ingrao parlava dell’organizzazione partito e del centralismo democratico come dittatura della maggioranza moderata nel partito. Di fatti la coercizione della classe dirigente (di coercizione si tratta ormai) negli anni ha prodotto solo brutture, non si può pensare di criticare la rappresentanza borghese e poi applicare un modello quasi identico, nel tentativo di superare le correnti si tornerebbe ad un sistema semplicemente maggioritario che di fatti della discussione e del contributo individuale e collettivo lascia poche tracce sbiadite. L’idea che le cariche debbano essere individuali e non collettive, organizzate per esempio in comitati più larghi, che la partecipazione si possa esprimere semplicemente nella fase congressuale di spartizione correntizia, che il partito non possa adottare pratiche di democrazia diretta non si capisce bene per quale motivo, fino all’adorazione di certi organi assolutamente inutili come il provinciale che nei GC è servito solo e solamente a controllare i circoli cittadini e lasciarli nella più totale immobilità. Bisogna immaginare degli spazi di discussione e di decisione a livello nazionale che non si presentino solo una volta ogni quattro anni con i congressi.
Le critiche sono molte altre ma queste danno un quadro generale delle problematiche, sulla risoluzione come detto prima non voglio dare ricette. Sugli esteri la questione è essenzialmente una, per cui gli emendamenti sono stati utilissimi: sciogliere il nodo della questione europea. Sta avvenendo oggi un processo di trasformazione, e in larga parte di scissione, della vecchia famiglia europea delle forze comuniste e di alternativa, bisogna oggi scegliere come affrontare questa discussione e ovviamente deciderne gli esiti, in particolare sulla spinosa questione greca che ha lasciato il partito in una sospensione del giudizio in merito agli ultimi avvenimenti (neanche i proclami di Ferrero sono risolutivi circa l’intera portata della questione e il documento congressuale è volutamente ambiguo). Questa indecisione oggi, mentre in tutti gli altri partiti della sinistra europea il dibattito è già molto avanti, è un peso non più sopportabile che rischia di immobilizzare il partito e di allontanare, e non di tenere insieme, gli sforzi nella costruzione di una vera alternativa al capitalismo, alternativa che tuttora manca, dobbiamo ricostruire un sogno, adeguarlo alle nostre aspettative e speranze, dotarci di un immaginario nuovo che rispecchi i cambiamenti epocali della nostra società. La realizzazione di un modello di società socialista deve oggi passare da un vero e proprio cantiere di costruzione di questa alternativa che ci trovi insieme in un unico fronte mirando alla stessa luna.
GIUSEPPE IALACQUA
giovane militante della Federazione di Bologna
15 ottobre 2015