Tratto da: https://gcperugia.wordpress.com
di Mattia Baldoni – Giovani Comunisti Perugia
La Repubblica di Turchia nasce dai trattati di Parigi del primo dopoguerra, esattamente da quello di Sevres (1922), che smantellava lo sconfitto e decadente Impero Ottomano, riducendo la sua indipendenza alla penisola anatolica ed avviando il “regime dei mandati” per i suoi ex-possedimenti in Medio Oriente.
Nel 1923, il maresciallo Mustafa Kemal, leader della lotta per la liberazione nazionale dei popoli turchi, proclama la nascita della Repubblica, gettando le basi per un esperimento allora ignoto nell’area mediorientale: la costruzione di uno Stato secolare, laico, moderno. Il Partito Popolare Repubblicano si fa promotore di una radicale opera di trasformazione politica sulle macerie ottomane.
Per la prima volta viene riconosciuta la parità dei sessi, istituito il suffragio universale, proibito l’uso del velo islamico alle donne nei locali pubblici, abrogata ogni norma e pena che poteva ricollegarsi alla legge islamica, promulgato un nuovo codice civile, legalizzate le bevande alcoliche e depenalizzata l’omosessualità. Persino il turco, che nell’Impero utilizzava una variante dell’alfabeto arabo, è modificato dal Parlamento per modernizzare la Turchia, rendendo illegale l’alfabeto arabo e rimpiazzandolo con una versione dell’alfabeto latino.
Il kemalismo diventa l’ideologia del partito e della rivoluzione, che nel 1946 vedrà le prime elezioni democratiche. Il multipartitismo si lega ad un unico vincolo: la laicità dello Stato, unico cardine indiscutibile della Repubblica, la cui tutela spetta all’esercito, che in più di un caso attua colpi di stato per “normalizzare” crisi di governo o favorire riforme costituzionali (1960 – nuova Costituzione e sistema proporzionale; 1971 – governi tecnici) fino al 1980: 15 anni di governo militare guidati da Evren e Ozal portano a nuove modifiche costituzionali e ad una netta tendenza al neoliberismo, al conservatorismo religioso e all’anticomunismo.
Qui si spiana la strada per il futuro politico di Recep Tayyip Erdogan, ex militante del Partito del Benessere (conservatorismo islamista), ex sindaco di Istanbul, leader e fondatore dell’AKP, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo; l’abbattimento di uno dei pilastri della Repubblica, il laicismo, ha consentito il governo di forze politiche tutt’altro che modernizzanti e progressiste, democraticamente elette ma difficilmente compatibili con la democrazia.
Sul piano internazionale, il presidente turco teme l’instabilità venutasi a creare nel Kurdistan Iracheno e Siriano e le sue intenzioni sicuramente sono ben lontane dal sostenere i combattenti curdi ed il PKK contro l’ISIS, come hanno dimostrato l’immobilismo di fronte alla valorosa resistenza dei compagni curdi di Kobane, lo stretto controllo delle frontiere meridionali e la repressione sempre più violenta.
Nonostante la Turchia fino al 2010 abbia cercato di mediare con Washington per favorire un riavvicinamento degli Usa con l’Iran e la Siria, allo scoppio delle proteste siriane nel 2011 il governo turco ha immediatamente appoggiato la causa saudita auspicando un cambio di regime. L’analista Ted Galen Carpenter osserva un’interessante similitudine tra la Guerra Civile Spagnola degli anni ’30 e l’attuale Guerra Civile Siriana: mentre lo scontro tra le forze fasciste di Francisco Franco ed il governo repubblicano non era nient’altro che un banco di prova per la Germania nazista e l’Unione Sovietica, oggi le Monarchie del Golfo, gli Usa, gli alleati europei e la NATO misurano le proprie forze cercando di deporre Bashar al Assad e tentando di isolare la Russia, l’Iran sciita e la sua ambizione nucleare. Il fattore religioso è centrale: Erdogan, leader del AKP, partito sunnita conservatore, non è potuto rimanere indifferente alla possibilità di deporre un regime sciita alawita, finanziando così la formazione di nuove unità dell’Esercito Libero Siriano (tutt’altro che “libero”) per sostenere gli insorti. Gli azzardi che si pongono sono sottovalutati; la strategia di Ankara rischia di opprimere eccessivamente la propria politica estera sotto l’influenza delle Monarchie del Golfo, nonostante i grandi proclami al Parlamento dell’attuale Primo Ministro Davutoglu, per cui “un nuovo Medio Oriente sta nascendo e la Turchia sarà padrona, pioniera e serva di questo nuovo futuro”.
Erdogan ha un controllo sui potenziali sviluppi in Siria molto più limitato di quanto creda. Questo perché la frammentazione etno-religiosa dello Stato Siriano potrebbe favorire persino la scissione in mini-Stati etnici dell’attuale Siria, eventualità che renderebbe ancora più complessa la gestione dei confini e della minoranza curda, che incrementerebbe le sue aspirazioni indipendentiste. Il PKK ed il PYD (Partito dell’Unione Democratica) continuano ad essere sostenuti da Damasco nella lotta contro i ribelli e l’ISIS, al punto da controllare effettivamente vasti territori di confine in cui il governo centrale ha temporaneamente perso autorità. Lo spettro di un’altra regione autonomista curda ai propri confini terrorizza Ankara. Le misure liberticide, la strategia della tensione interna, la repressione delle opposizioni, della minoranza curda ed il ruolo internazionale che sta assumendo la Turchia mostrano la distorsione totale dei principi progressisti e modernizzanti di Ataturk, padre dei Turchi:
– il repubblicanesimo, la difesa dello stato contro i tentativi di restaurazione feudale, viene pretestuosamente utilizzato per annientare la minoranza curda e le sue richieste autonomiste;
– il nazionalismo, totalmente stravolto in ottica conservatrice e religiosa. La modernità del principio kemalista è nel garantire la sovranità del paese e l’appartenenza solidale e l’unità di tutte le persone, senza differenza etnica, che vivono all’interno dei confini nazionali;
– il populismo, inteso come uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma soprattutto difesa di un ordine sociale “per tutto il popolo”. Oggi Erdogan cavalca piuttosto l’onda della tensione internazionale e delle presunte minacce internazionali per Ankara;
– lo statalismo, il modello economico a favore l’intervento diretto e forte dello stato nel libero mercato; dagli anni ’80 il neoliberismo in Turchia ha favorito la crescita economica ma allo stesso tempo la sua fragilità e le crisi cicliche costringono frequentemente il paese a chiedere prestiti internazionali al FMI o fondi dalla UE, ricattandola persino sul delicato tema dei rifugiati;
– il laicismo, la chiara separazione fra potere secolare (politica, economia, cultura, servizi, ecc.) e quella religione islamica che per secoli aveva influenzato lo sviluppo del paese, escludendo la possibilità di emancipazione dei ceti popolari e delle donne. Dopo il colpo di stato del 1980 l’islamismo ha preso il sopravvento: i partiti confessionali guidano il paese, hanno abolito il divieto del velo per le donne nei luoghi pubblici ed il primo esponente, Erdogan, ha persino affermato nel 1998 (venendo poi arrestato) che “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”. L’ambiguità verso i terroristi dello Stato islamico ha radici lontane… .
– il rivoluzionarismo, la difesa dei principi rivoluzionari e la loro continuazione verso il benessere e la modernizzazione, ben distante dall’impronta sempre più conservatrice ed islamista data dall’AKP.
Pur distante da posizioni marxiste, Ataturk (che non riconosceva l’esistenza della lotta di classe) si avvicinò e costruì un rapporto di rispetto reciproco con Lenin e di buon vicinato tra Turchia e Unione Sovietica, cardine della politica estera repubblicana. Il pensiero kemalista e la costruzione della Repubblica Turca hanno rappresentato forse l’unica esperienza funzionante di modernizzazione ed apertura nel contesto politico, storico e sociale del Medio Oriente e del mondo arabo in generale, dove le bombe e gli interessi delle multinazionali non possono e non potranno mai “esportare la democrazia”.
Di Mattia Baldoni – Giovani Comunisti Perugia