1. L’arte di strada e il potere. Ancora una lotta contro l’establishment.
La street art nasce attorno alla fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Tra gli ambienti contro-tendenti, favorevoli e fecondi come la famigerata piazza Verdi a Bologna già nel ’68, ed un paese che vive ormai la fine della fase della ricostruzione post-bellica, emerge un’Italia piena di contraddizioni che spinge l’individuo, in particolare l’artista, a svincolarsi da convenzioni e leggi.
Questo tipo di arte è esclusivamente la forma di espressione visiva volta a criticare la società attuale, abolire la proprietà privata in modo formale, diretto e ufficiale, rivendicando strade e piazze, facendole del popolo, colorandole eliminando i colori piatti ed oppressivi delle campiture dei muri vuoti.
Muri puliti, popoli muti si diceva, si dice ancora oggi.
I muri ridiventano vuoti, le opere strappate dai muri ai quali appartenevano, rivendicazioni di libertà e comunione dell’arte come espressività libera dal capitale e dal mecenatismo costrette in un museo, entrano di fatto a far parte di una collezione privata: questo sarà la mostra “Banksy & Co.” a Palazzo Pepoli. Così, quell’arte nata per essere libera e fuori da qualsiasi costrizione stilistica e danarosa, quell’arte nata per “fottere il sistema” diventa parte del sistema stesso, che la ingloba, per uniformarla al grigiore di questa società incoerente e corrotta.
Ma Blu prende una decisione drastica, che finirà nei trattati di storia dell’arte, che rimarrà nella storia, quanto i veli per coprire le nudità degli affreschi del Michelangelo nel periodo della Contro-Riforma: cancella ogni traccia della sua arte da Bologna in maniera definitiva ed irrecuperabile. I suoi personaggi non sono solo stati coperti, ma grattati via dai muri, distrutti, ridotti a piccole briciole di intonaco e vernice.
Così come quando un celebre artista scompare, che per ironia della sorte la morte rende ancor più celebre, così le sue opere divengono ancora più famose, e lo street artist rischia di diventare conosciuto ed apprezzato ai livelli di Banksy ed Obey, se non oltre. Blu, cancellando opere presenti nel territorio bolognese da diciassette anni circa, fa sentire la sua voce dieci volte più forte di ogni volta che ha dipinto un suo pensiero sulla vernice lavabile di un palazzo, o di un ponte che fosse.
L’arte assente diviene più incisiva dell’arte presente.
Lo Stato, il comitato d’affari della borghesia, e l’arte hanno sempre litigato, la storia dell’arte ce l’ha insegnato; ma ricordatevi, il tempo ci darà ragione.
Francesca Sparacino
Giovani Comuniste-i liceo artistico “Arcangeli” Bologna
2. Contro lo sradicamento dell’arte di strada. Il vero ruolo del museo.
Siamo di fronte ad un artista ridotto all’auto-iconoclastia, costretto cioè ad obliterare i lavori prodotti in questa città di Bologna nell’arco di vent’anni. E perché ? … Perché un gruppo di storici dell’arte rampanti e pieni di se’, quali Christian Omodeo ed il Prof. Luca Ciancabilla, hanno deciso unilateralmente che i lavori di street art siano musealizzabili ai fini della messa in mostra e che, per proteggerli dall’incuria e dal degrado, sia assolutamente necessario il loro strappo al fine del restauro e dell’intelamento.
L’artista protagonista dell’atto di protesta è BLU [1], lo street artist originario di Senigallia fattosi conoscere nell’ambiente bolognese nel 1999, anno dei suoi primi disegni in strada in città; disegni caratterizzati da una grammatica visiva ispirata al mondo del fumetto e del videogioco arcade. BLU si è in seguito portato fuori dei confini italiani nel decennio 2000-2010, mantenendosi tuttavia fedele ai princìpi guida della collocazione in strada e della libera fruizione dei lavori.
La mostra contesa partirà il 18 marzo p.v. a palazzo Pepoli Vecchio, attuale sede del museo della storia di Bologna, ospitata ed allestita dalla Fondazione Carisbo con il nome di Genus Bononiae, la società (di diritto privato) che ormai da qualche anno gestisce una serie di collezioni museali in città; questa mostra, che andrà a concludersi alla fine di giugno 2016, titolerà “Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano”. Qui ci troviamo di fronte ad un chiaro episodio di triplice fraintendimento: del fenomeno street art, del ruolo del Museo e, non ultimo, dell’opportunità di utilizzo della tecnica dello strappo.
Innanzitutto, il fenomeno dell’arte di strada o arte urbana (in inglese street art) nasce quale espressione artistico-figurativa “sotterranea” che, con mezzi vari (spray, adesivi artistici o normografi), da voce alle sub-culture del meticciato urbano ed offre un megafono alle espressioni di contro-cultura. Dunque una forma d’arte nata nella strada, nel “ghetto”, per parlare con immediatezza espressiva di problemi che la società borghese non comprende o non vuole vedere. Le manifestazioni di street art si collocano in contesti urbani significativi e/o simbolici per la vita delle comunità, che occupano anche in aperto contrasto con le regole borghesi della proprietà privata per affermare il diritto delle persone che il territorio lo vivono. Siamo davanti ad una forma espressiva che é intimamente ed intrinsecamente legata alla strada e, pertanto, é folle volerla da quel contesto eradicare. Nel caso dell’ammirevole progetto FrontierBO [2], curato da Fabiola Naldi, é stato chiesto agli stessi artisti realizzatori dei murales, che hanno ornato le case popolari di ACER, quale sarebbe dovuta essere la sorte dei loro lavori ed essi hanno espresso il desiderio ch’essi restino legati al loro muro, nel bene e nel male. Il muro infatti é il supporto sul quale l’arte di strada deve nascere, vivere e morire … per la natura stessa del fenomeno! C’é poi un problema giuridico che tinge di arrogante illegalità l’idea di Ciancabilla, Omodeo & Co: ovvero il fatto che la Legge 633/41 [3] tuteli la proprietà intellettuale delle opere dell’ingegno creativo, prescindendo dalla liceità o meno delle stesse; la stessa legge dice anche che lo sfruttamento della proprietà intellettuale dell’artista vivente é soggetta alla richiesta di autorizzazione all’artista stesso, anche se l’opera risulti fisicamente di proprietà privata o collocata in un’area di proprietà privata. Ecco svelata l’arroganza di chi pretende di spiegare al pubblico una forma espressiva la cui natura non ha profondamente compreso, oltretutto utilizzandone gli esemplari (probabilmente) all’insaputa dei legittimi creatori.
Veniamo così al secondo ordine di problemi: a mio parere i curatori hanno frainteso pesantemente quello che é il ruolo del Museo, il quale si configura oggi, e speriamo anche domani, per legge come istituto atto a tutelare l’esistenza materiale di quelle tracce della cultura umana che si ritiene necessario ordinare e studiare allo scopo di evitarne l’oblio. Non a caso il ministero dei beni culturali ritiene si debba applicare l’istituto della presunzione di interesse culturale, il passo precedente la verifica e la dichiarazione dello stesso, solamente alle “cose immobili e mobili […] che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, […]” (Codice dei beni culturali e del paesaggio [4], articoli 10 e 12); confermando così che per decidere che cosa deve o non deve entrare nei Musei (dunque nella memoria collettiva) é necessario tempo, il tempo necessario alla società per metabolizzare i suoi fermenti e riflettere sul suo passato. L’altro ruolo del Museo é quello di valorizzare i contenuti culturali delle testimonianze umane: laddove per valorizzazione non si intende la creazione di valore economico dal successo di botteghino (Capito Omodeo, Ciancabilla & Co. ?), bensì la creazione di un valore intellettuale/spirituale attraverso la promozione della conoscenza e l’assicurazione delle migliori condizioni di utilizzazione delle stesse testimonianze (Cod. Beni Culturali e Paesaggio, Articolo 6); ciò sicuramente non è garantito da una mostra che intende snaturare e decontestualizzare l’arte di strada mettendola in cornice.
Infine, venendo all’ultimo nucleo problematico, c’é una grave misunderstanding dell’opportunità del restauro e, in particolare, della tecnica di strappo. Facendo finta per un attimo che le opere di street art richiedano interventi di restauro, questi sono di norma attribuiti allo Stato in via esclusiva od in collaborazione con le Regioni o gli altri enti pubblici territoriali, in quanto interventi di Tutela (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 118 e Cod. Beni Culturali e Paesaggio, Artt. 4 e 5). Venendo all’opportunità della procedura di strappo che dovrebbe rendere possibile la mostra, il restauro e la futura custodia di questi lavori, va detto che si tratta di una procedura che tutti i manuali di tecniche del restauro, compresi quelli indicati dallo stesso Prof. Ciancabilla [5] come testi d’esame, indicano come “l’ultima spiaggia” del restauro: ovvero come una tecnica molto avanzata ma estremamente rischiosa da impiegarsi quando, per ragioni di forza maggiore, non sia più possibile mantenere in essere il legame delle opere con il loro substrato nativo; inoltre si tratta di una tecnica ancora scarsamente sperimentata sulla pittura murale a secco (quale è la street art) che é ovviamente molto diversa dalla struttura delle pitture a fresco, alle quali è stato applicato lo strappo in maniera rara ma certo più frequente.
Per questi motivi, ritengo che l’inauguranda mostra di palazzo Pepoli Vecchio sia segnata da una comprensione molto superficiale del fenomeno artistico in questione. La quale ha portato, spero involontariamente, alla sottovalutazione dell’auto-consapevolezza degli artisti di strada ed, apparentemente, alla violazione della loro proprietà intellettuale; ciò per realizzare una mostra che, a giudicare dal titolo e dalle linee programmatiche proposte, finirà per mettere tutta l’arte di strada in un grande calderone, magari senza operare le dovute distinzioni tra i casi europei e statunitensi che sono molto diversi nelle premesse all’origine. In più si è tentato di ingentilire questa iniziativa unilaterale nascondendosi dietro la “foglia di fico” della necessità di Tutela e restauro che, per la natura stessa della street art, non sussiste.
Detto ciò … Al pubblico l’ardua sentenza! Per il momento uno Storico dell’Arte la sconsiglia!
Tommaso Manferdini
Storico dell’Arte, Giovani Comunisti-e Bologna
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Note a margine
1-Maggiori informazioni su BLU nel suo sito web: http://www.blublu.org .
2-Maggiori informazioni sul progetto curato da Fabiola Naldi sul sito web: http://www.frontier.bo.it .
3-PDF della legge all’URL web: http://www.librari.beniculturali.it/opencms/export/sites/dgbid/it/ documenti/legge_633_del_1941.pdf
4-Testo aggiornato del codice reperibile all’URL web: http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1240240310779_codice2008.pdf
5-Non avendo preventivamente spiegato che il prof. Ciancabilla insegna teoria del restauro all’Unibo, rimando al curriculum sul suo profilo docente: https://www.unibo.it/ sitoweb/luca.ciancabilla/cv .