La Chiesa ha potuto gestire per secoli, pressoché in esclusiva, l’educazione degli italiani. Solo la nascita dello Stato unitario, contro cui la Chiesa si batte e che non riconosce fino all’avvento del fascismo, riesce a creare dei problemi a questa rendita di posizione, anche se il percorso non è lineare. La situazione inizia a cambiare solo con il Risorgimento: con la formazione dell’Unità d’Italia si trionfa sulle due grandi potenze eredi del Medioevo: il potere militare dell’impero asburgico d’Austria e il potere clericale dello Stato Pontifico; in quest’ultimo il livello di diffusione dell’istruzione era bassissimo, così come negli altri Stati italiani controllati dalla Chiesa che ha sempre agito come un freno allo sviluppo dell’istruzione, sottoponendo la scuola ai suoi controlli e riducendola all’indottrinamento catechistico. Già nell’ambito delle riforme avviate da Cavour nel regno di Sardegna una nuova legge generale ordina i diversi gradi d’istruzione: universitario, classico, tecnico, elementare. L’istruzione primaria viene “data gratuitamente in tutti i comuni”. La Chiesa reagisce all’iniziativa statale: il papa “liberale” Pio IX condanna la libertà di pensiero come “mostruoso e fraudolento errore” (Enciclica Qui pluribus, 1846). Tappa fondamentale è la politica seguita da Cavour nel processo di modernizzazione del regno di Sardegna: nel 1855 viene emanata in Piemonte la legge Rattazzi. Il testo prevede l’esproprio totale dei beni degli enti ecclesiastici contemplativi e il passaggio all’amministrazione dello Stato. Grazie a questo esproprio è possibile il risanamento delle finanze sabaude, messe in crisi dalle forti spese sostenute per ferrovie, canali e altre opere pubbliche.
RELIGIONE INSTRUMENTUM REGNI ITALIAE
L’Italia unita ha ereditato dallo Statuto di Carlo Alberto la definizione della religione cattolica come sola religione di Stato. Ma la conquista con la forza dello Stato pontificio e la volontaria clausura del Papa entro le mura leonine pongono la cosiddetta “Questione Romana”, e cioè come trovare un modus vivendi fra Stato e Chiesa, operazione complicata dall’intransigenza del Papato.
In questa prima fase dal punto di vista dell’istruzione poco o nulla sembra cambiare nel primato della Chiesa: poco prima dell’unità d’Italia, nel regno di Sardegna la legge n. 3725 del 13 novembre 1859, promulgata dal ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Casati, aveva introdotto, tra le discipline oggetto di istruzione pubblica, anche la religione cattolica. L’insegnamento era obbligatorio per i soli primi due anni delle elementari ed era impartito dal maestro unico. Nelle scuole secondarie l’insegnamento era garantito da un direttore spirituale. Tuttavia l’insegnamento non era impartito in una specifica ora di Religione, ma nell’ambito del complessivo programma educativo. Il regio decreto n. 4151 del 24 giugno 1860 (“Regolamento per le scuole normali e magistrali degli aspiranti maestri e delle aspiranti maestre”) introduce l’obbligatorietà dell’insegnamento anche per le scuole magistrali, destinate a formare i futuri maestri. Nelle Università sono vietati gli insegnamenti contrari ai principi religiosi. Le Istruzioni relative ai Programmi del 15 settembre 1860 chiariscono che l’insegnamento della religione cattolica ha il compito di inculcare nei fanciulli l’idea dell’importanza della “obbedienza […] verso le Podestà costituite, non già per timore de’ castighi, ma per ossequio a quei principi di pubblico interesse, che esse rappresentano e tutelano”: sostanzialmente l’insegnamento della religione cattolica è concepito, da parte dello Stato, come rafforzamento dell’autorità politica. Il regio decreto 9 novembre 1861, n. 315 (“Regolamento per le scuole normali e magistrali e per gli esami di patente de maestri e delle maestre delle scuole primarie”), indica come materia di insegnamento “religione e morale” mentre “catechismo e storia sacra” è la prima materia obbligatoria per gli esami, sia scritti che orali.
L’atteggiamento della Chiesa in questa prima fase dell’Italia unitaria è ben riassumibile dai suoi atti ufficiali: l’enciclica Il Sillabo, nel 1864, condanna tutte le nuove idee (liberalismo, socialismo, ateismo, modernismo, eresie varie), ribadendo la sostanziale opposizione ad ogni tipo di libertà d’insegnamento di tipo liberale e rivendicando al contempo la libertà della scuola da parte dei clericali. Il quadro della scuola pubblica di questo periodo è dato da un Documento sull’istruzione elementare in Italia del 1870 in cui si afferma che le scuole sono “vecchie stalle, cantine umide, cucine affumicate”, dove “sagrestani, sarti, calzolai e fratonzoli insegnano al massimo l’Ave Maria e poco più”.
LA SVOLTA DEL 1867 – VERSO LA LAICIZZAZIONE DELLA SCUOLA
Nel 1867 inizia una vera e propria svolta nei rapporti tra Stato e Chiesa: vengono aboliti gli enti ecclesiastici e soppresse le esenzioni tributarie per gli ordini monastici, con esproprio dei beni delle congregazioni a vantaggio di Stato e Comuni; con il ricavato lo Stato crea un fondo per il culto, cioè la congrua per i preti. La conquista con la forza dello Stato pontificio che pone fine alla cosiddetta “Questione Romana” (1870) è il tassello finale che incrina per decenni le relazioni tra Stato e Chiesa. Pio IX vive la conquista sabauda come una violenza alla Chiesa stessa, e vieta ai cattolici di partecipare alla vita politica del nuovo Stato considerato “usurpatore”, con una bolla, il “Non expedit” (1874), che resterà in vigore fino agli inizi del ‘900. I rapporti vengono regolati unilateralmente dalla Legge delle Guarentigie. [1]
Anche a livello scolastico il 1867 è una data importante: i programmi subiscono una prima revisione con cui si comincia ad attenuare lo spazio dedicato alla religione, a favore dell’educazione civica. Nei programmi del regio decreto del 10 ottobre 1867 del ministro Michele Coppino, autore della legge sull’istruzione obbligatoria, l’insegnamento della religione cattolica passa in secondo piano rispetto all’italiano e all’aritmetica, materie considerate essenziali per cementare la recente e precaria unità nazionale, in un paese largamente analfabetizzato e che da poco aveva introdotto in tutto lo stato il sistema metrico decimale. All’indomani della Breccia di Porta Pia e della fine del potere temporale del Papa, la circolare del 29 settembre 1870, del ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti, stabilisce che l’istruzione religiosa scolastica venga impartita solo su richiesta dei genitori. Il 26 gennaio 1873 vengono soppresse le Facoltà teologiche di Stato per non essere mai più ripristinate. Rimarranno in vita solo quelle ecclesiastiche, i cui titoli di studio non verranno però mai riconosciuti dallo Stato.
LA LEGGE COPPINO (1877)
La legge “Coppino” del 23 giugno 1877, n. 3918 (esecutiva dal primo gennaio 1878), che regola il nuovo ordinamento dei licei, dei ginnasi e delle scuole tecniche, abolisce la figura del “direttore spirituale” nei licei-ginnasi e nelle scuole tecniche. Oltre a contribuire in buona misura ad una diminuzione sempre crescente dell’analfabetismo serve soprattutto a formare i nuovi cittadini: oltre ad imparare a leggere, a scrivere ed a far di conto, agli alunni viene insegnata educazione civica in modo da introdurre i giovani nella società. Viene dato anche molto spazio alle materie scientifiche e si introduce una nuova metodologia di insegnamento: da un rigido dogmatismo ad una maggiore concretezza; ciò avviene sull’influenza della filosofia positivista predominante nell’epoca. I cattolici criticano ampiamente questa legge, sia per il suo taglio didattico laico sia per l’abolizione dei direttori spirituali. I maestri, legittimati con la legge Casati, non possono più insegnare il catechismo e la storia sacra; per questo motivo molti figli di cattolici intransigenti vengono mandati nelle scuole private, le quali sono già allora in gran parte gestite dalla Chiesa cattolica. Nel 1888 l’insegnamento della religione cattolica viene di fatto soppresso, infatti il regio decreto 16 febbraio 1888, n. 5292 (“Regolamento unico per l’istruzione elementare”), estende la facoltatività dell’insegnamento delle “prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino” a tutto il corso d’istruzione elementare a discapito dell’insegnamento della Religione cattolica. Tuttavia il decreto 9 ottobre 1895, n. 623 e il regio decreto 6 febbraio 1908, n. 150 confermano la facoltatività dell’insegnamento religioso che deva essere tuttavia impartito “a cura dei padri di famiglia che lo hanno richiesto”, quando la maggioranza dei consiglieri comunali non decida di ordinarlo a carico del Comune.
IL RITORNO DELLA CHIESA
L’enciclica “Rerum Novarum” (1891), proponendo una via intermedia tra socialismo e capitalismo (ma di fatto propendendo più per una netta condanna del socialismo, della teoria della lotta di classe, della massoneria), nella quale la questione sociale venisse risolta dall’azione combinata di Chiesa, Stato, impiegati e datori di lavoro, riposiziona la Chiesa nel mondo moderno. La posizione sul problema della situazione “temporale” della Chiesa nei confronti dello Stato italiano resta ferma, ma l’enciclica è fondamentale nel riconoscere, anzi nell’incoraggiare un ruolo dei cattolici laici in campo politico e sociale. Si crea così una piattaforma dottrinale per l’azione sociale e politica di quelle forze, ben presenti nella società italiana, “congelate” fino allora dal braccio di ferro Stato-Chiesa. All’enciclica segue, nel 1904 e nel 1909 la revoca del “non expedit”, voluta da Pio X. Nel 1913 il conte cattolico Vincenzo Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica, promette il voto dei cattolici a chi dia garanzie di combattere il divorzio, di difendere la scuola cattolica, l’insegnamento della religione e gli interessi della chiesa; poi crea l’Unione popolare cattolica, un partito extraparlamentare. Infine, con la fondazione nel 1919 del Partito Popolare di don Luigi Sturzo i cattolici tornano in primo piano nell’agone politico e sociale del ‘900 italiano.
MUSSOLINI E IL FASCIO-CLERICALISMO
La presa del potere da parte di Mussolini ripristina (con la riforma Gentile del 1923 e soprattutto il Concordato nel 1929) un ruolo ufficialmente di primo piano della Chiesa. Quest’ultima aveva sostanzialmente appoggiato senza pudore l’ascesa di un fascismo sbarazzatosi delle istanze anticlericali e radicali degli esordi, nell’ottica di contrastare e impedire l’avvento al potere dei socialisti atei, materialisti e anticlericali. La riforma Gentile può essere vista come la prima ricompensa fatta da Mussolini alla Chiesa. Con la riforma del ministro Gentile vengono distinte le scuole per i ceti privilegiati, con studi umanistici, e quelle per i ceti subalterni, con apprendimenti professionali. Le donne escluse dall’insegnamento vengono indirizzate a un liceo femminile ”per le signorine di buona famiglia”. Caratteristico il disinteresse per l’istruzione del popolo. Il ministro dell’istruzione in un governo fascista dichiara: “L’esclusione di un certo numero di alunni dalla scuola è stato il nostro proposito della riforma… Non si deve trovare posto per tutti… La riforma tende proprio a questo: ridurre la popolazione scolastica”. I programmi delle elementari ripristinano l’insegnamento della religione cattolica, salvo richiesta di esonero. Rinfrancata dall’essere riuscita a “salvare” l’Italia e i propri beni dal pericolo rosso del socialismo, la Chiesa sostiene apertamente Mussolini e il fascismo e accoglie con favore la riforma Gentile. Tale sostegno si concretizza con l’ordine arrivato dal Vaticano di sciogliere il Partito Popolare Italiano (PPI) di Don Sturzo, il quale, seppur tra ambiguità e contrasti interni aveva aderito all’opposizione antifascista.
Con il concordato del 1929 [2] si riconosce il cattolicesimo quale religione di Stato in Italia, con importanti conseguenze sul sistema scolastico pubblico, nel quale si introduce e rende obbligatoria l’ora di religione anche nelle scuole medie e superiori, quale «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica».
La legge del 5 giugno 1930, n. 824 esecutiva dell’art. 36 del Concordato stabilisce che “l’insegnamento della religione è conferito per incarico annuale, dal primo ottobre di ogni anno al 30 settembre dell’anno successivo, dal capo dell’istituto, inteso l’ordinario diocesano. L’incarico è affidato a sacerdoti e religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica; in via sussidiaria, a laici riconosciuti idonei dall’ordinario diocesano”. Nel 1939 la “Carta della scuola” istituisce una “scuola media unica” che unica non è, unificando solo i corsi inferiori di ginnasi, istituti tecnici e magistrali, ma non le scuole di avviamento e post-elementari. “Una scuola che non offra incentivi ai giovani per cambiare la loro condizione sociale”, come dichiara il Ministro Bottai alla Camera (17-3-1939).
DALLA LIBERAZIONE AL FAMIGERATO ARTICOLO 7
Nella Sicilia liberata già nel 1943 è al lavoro una commissione guidata dal pedagogista americano Washburne, seguace di Dewey, per la revisione dei programmi scolastici. Il governo alleato aveva compreso l’importanza fondamentale della riforma della scuola elementare, la più influenzata dai germi fascisti, così nel 1944 è già al lavoro una seconda commissione incaricata di redigere i nuovi programmi per la scuola di quel grado. L’impostazione suggerita da Washburne era estremamente avanzata e prevedeva aperture pluriconfessionali, negando il principio di fondamento e coronamento riconosciuto da Gentile alla religione cattolica. Per questo i programmi incontrano l’opposizione dei cattolici. Nel proseguimento del suo lavoro la commissione è affiancata da un rappresentante della Chiesa che difende gli interessi cattolici. Il risultato consiste in programmi di compromesso: ideali molto avanzati e democratici informavano la premessa, ma il corpo del programma che disciplinava le singole discipline era di impostazione molto moderata.
È però con il dibattito all’Assemblea Costituente (1946-47) che si mostra in pieno l’anomalia vistosa presente in Italia, poiché nella Costituzione viene conservato il regime concordatario con la Chiesa romana: un patto di origine fascista stipulato tra due Stati che si riconoscono reciprocamente indipendenti sul piano territoriale, ma che di fatto assicura a uno solo dei due posizioni di anacronistico privilegio non solo nei confronti di tutte le altre confessioni religiose, ma anche nei confronti dell’intera società civile. Il che impedisce allo Stato nazionale di esprimere con coerenza i propri valori di laicità e di democrazia. Nella nostra Costituzione infatti l’articolo 7 [3], che ha recepito i Patti Lateranensi, configge con gli articoli 3 e 8 [3]. L’art. 7 nella sua forma attuale fu fortissimamente voluto dalla Democrazia Cristiana, il nuovo partito di riferimento della Chiesa, e fu in definitiva appoggiato dal PCI di Palmiro Togliatti per ragioni tattiche criticate non a torto dagli altri partiti laici. [4]
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E LO STRAPOTERE DEMOCRISTIANO
Al di là delle aporie presenti nei “Principi Fondamentali” la Costituzione italiana del 1948 stabilisce i principi fondamentali dell’insegnamento: libertà di arte, scienza e insegnamento; iniziativa dello Stato per istituire scuole; diritto dei privato di istituire scuole purché senza spese ed “oneri per lo Stato”: una clausola che scoraggia i governi democratico cristiani dal presentare una legge sulla parità tra scuola privata e scuola pubblica. Il fronteggiarsi di laici e cattolici nell’Assemblea Costituente produce i contraddittori risultati dell’art. 33 del testo costituzionale: in sostanza si individuava nello Stato l’ente dirigente, lasciando la libertà a chi volesse di istituire altre scuole senza oneri per lo Stato, demandando alla legge l’applicazione. Con l’art. 34 [5] viene stabilita l’istruzione pubblica, gratuita e obbligatoria per almeno 8 anni. Viene sancita la libertà di istituire scuole “senza oneri per lo stato” formula che avrà una interpretazione controversa nei decenni successivi. Tuttavia restava il sistema scolastico precedente: scuola elementare quinquennale e i tre anni successivi divisi in “scuola media” (che permetteva di proseguire gli studi grazie alla materia del latino) e “scuola di avviamento professionale” (che senza l’insegnamento del latino, escludeva da qualsiasi proseguimento degli studi).
Nel dopoguerra si ha una quasi ininterrotta serie di ministri democristiani alla Pubblica Istruzione: dal 1946 al 1995 solo 4 ministri non sono di cultura e appartenenza politica democristiana: Gaetano Martino (PLI) dal 10 febbraio 1954 al 19 settembre 1954, Paolo Rossi (PSDI) dal 6 luglio 1955 al 15 maggio 1957, Giovanni Spadolini (PRI) dal 20 marzo 1979 al 4 agosto 1979, Salvatore Valitutti (PLI) dal 4 agosto 1979 al 4 aprile 1980. Ciò consente di lasciare più o meno invariata la situazione, e dopo il Concilio Vaticano II e il Sessantotto la discussione si incentra soprattutto sulla qualità della scuola. Gli anni ’70 hanno rappresentato un grande passo in avanti, sia dal punto di vista politico che culturale, nel ritorno ad una concezione laica di massa. Da qui importanti leggi che riguardano soprattutto i diritti delle donne (e sulle quali la Chiesa mobilita un’ampia ma minoritaria opposizione), come l’aborto, il divorzio e la riforma del diritto della famiglia, oltre che l’uguaglianza giuridica totale dei lavoratori e delle lavoratrici.
LA REVISIONE DEL CONCORDATO NEL 1984
L’elezione di Wojtyla a papa e negli anni ’80 il ritorno del Vaticano a una visione integralista dell’educazione hanno portato prima all’approvazione delle modifiche del Concordato, poi a richieste sempre più pressanti di finanziare l’esangue diplomificio cattolico, entrato in crisi a causa del fenomeno della secolarizzazione di massa. Solo con l’accordo di Villa Madama (detto anche “nuovo Concordato”) firmato dal primo ministro Bettino Craxi e dal cardinal Casaroli nel 1984 viene meno l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Ma nel complesso la condizione di laicità peggiora sostanzialmente: anche se si abolisce l’anticostituzionale riferimento alla «sola religione dello Stato». si introduce infatti l’ora di religione alle scuole materne, sostituendo nel contempo la congrua col meccanismo dell’8 per mille, molto più vantaggioso per la Chiesa. Particolarmente rilevanti nell’ambito dell’istruzione sono gli articoli 9 e 10 [6] del nuovo patto con cui si conferma la piena parità delle scuole clericali con quelle statali, mentre a livello universitario si ribadiscono, in pari misura al 1929, il riconoscimento dei titoli accademici conseguiti in materie come teologia, paleografia, diplomatica, archivistica, biblioteconomia conseguiti presso le Scuole vaticane.
LE COLPE DEL CENTRO-SINISTRA DI PRODI E I COSTI ATTUALI
Gli sviluppi più recenti riguardano il primo governo di centro-sinistra di Prodi. L’inserimento nel programma elettorale dell’Ulivo (tesi 66) [7] di uno specifico riferimento alla necessità di una forma di parità tra scuola pubblica e privata, precondizione necessaria per l’alleanza tra centro e sinistra, provoca dopo la vittoria elettorale del 1996 l’inizio di una accesa discussione sul tema. Si propone la parità tra scuole pubbliche e private, dichiarando pari alla propria la scuola di uno Stato estero “indipendente e sovrano”, quale è la Chiesa cattolica. Si iniziano a dare finanziamenti alle scuole private, contro il principio costituzionale del “senza oneri per lo stato”. Mentre il “principio supremo della laicità” e della “libertà d’insegnamento”, sanciti anche da una sentenza delle Corte Costituzionale, vengono negati assumendo nell’orbita statale una scuola dogmatica che esige l’adesione degli insegnanti alla propria dottrina, senza quindi possibilità di pluralismo e di libero insegnamento. Nel marzo 2000 il Parlamento ha approvato in via definitiva un nuovo testo sulla materia. In tal modo le scuole private entrano a far parte di un «sistema pubblico integrato», usufruendo di un trattamento fiscale agevolato e di finanziamenti concessi ad hoc dal governo. Il resto è attualità politica, da cui emerge purtroppo che ad ogni riforma scolastica degli ultimi anni, con i conseguenti tagli al settore dell’istruzione pubblica, conseguono sempre cospicui finanziamenti al settore privato, egemonizzato dalla Chiesa. Nel gennaio 2015 il giornale L’Espresso denuncia che sono circa 700 i milioni di euro di denaro pubblico che ogni anno vanno ad aiutare gli istituti paritari. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame. Gli istituti paritari, stante dati del 2013-14, sono oltre 13 mila in tutta Italia (praticamente il 10%) e sono frequentati da circa un milione di studenti; non tutte tali scuole sono però cattoliche, anche se queste ne costituiscono la quota maggioritaria (il 63%). Sono soprattutto i più piccoli a frequentare una scuola non statale: sono infatti quasi 10mila gli asili, il 71% della complessiva galassia delle paritarie. Le scuole paritarie vengono così definite perchè non sono amministrate dallo Stato e hanno una libertà di scelta su materie e insegnanti, in quanto, secondo la legge n° 62 del 2000, le scuole paritarie vanno considerate sullo stesso piano delle scuole pubbliche. Tutt’oggi anche nelle scuole pubbliche, in ossequio ai Patti Lateranensi, gli insegnanti di religione sono scelti dalla Chiesa e pagati (con uno stipendio maggiore rispetto a quello medio dei docenti) dallo Stato, e qualora un insegnante non diventi più gradito alla curia può nominarne un altro lasciando allo Stato l’obbligo di ricollocare il “licenziato” nell’amministrazione pubblica. Il costo degli insegnanti di religione cattolica (13.675 quelli a tempo indeterminato in ruolo a fine 2010) è stato stimato in circa un miliardo di euro l’anno.
Alessandro Pascale
coordinatore Giovani Comunisti/e Milano
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NOTE
[1] La legge riconosceva l’autorità religiosa del Papa, gli concedeva un assegno annuale e l’uso, ma non la proprietà, di Vaticano, Laterano e Castel Gandolfo, inoltre fissò l’assegno mensile o congrua per i membri del clero. Però la sinistra liberale, allora all’opposizione, avrebbe voluto che la Chiesa fosse trattata come un’associazione privata, voleva la nomina statale dei vescovi, non una libera Chiesa in libero Stato, ma la supremazia dello stato verso tutte le religioni, erano contro indennizzi e assegni annui al Papa. Prevalse la via di mezzo della Legge delle guarentigie, che definì le prerogative del Pontefice: il Papa aveva diritto ad essere trattato come un sovrano straniero e non era responsabile davanti alla giurisdizione penale italiana, poteva ricevere diplomatici accreditati, disporre di una guardia, di telegrafo e di corrieri diplomatici; lo Stato rinunciava al controllo sulla Chiesa, alla nomina dei vescovi e al loro giuramento di fedeltà. La Legge delle guarentigie rimase in vigore per 58 anni, fino al Concordato del 1929 con Mussolini: al Vaticano fu riconosciuta l’extraterritorialità e una rendita annua, il Papa si proclamava prigioniero e, per protesta, si chiuse entro le mura vaticane; Pio IX (1846-1878) era contro le dottrine moderne e con il non expedit, rimasto in vigore fino al 1904, impedì ai cattolici di partecipare alle elezioni. La Legge delle guarentigie del 13 maggio 1871 ebbe risonanza mondiale. Il Papa, senza sovranità territoriale, era dichiarato esente dalla giurisdizione penale italiana, si punivano attentati e ingiurie al Pontefice, con garanzie al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede; i cardinali potevano partecipare ai conclavi, gli stranieri titolari d’uffici ecclesiastici a Roma non potevano essere espulsi, il papa però rinunciò alla dotazione annua. La Legge delle guarentigie del 1871 riconosceva al Papa il diritto a nominare i vescovi in tutta Italia e non solo nel territorio dell’ex stato pontificio, questo diritto era stato sempre conteso dai principi, i vescovi non dovevano giurare fedeltà al re, lo stato riconosceva al papa sovranità e indipendenza in campo internazionale. La Chiesa respinse il risarcimento, ma accettò la congrua per i preti, introdotta la prima volta nel Concilio di Trento (1545-1563), la cui misura fu ritoccata negli anni dallo stato italiano, a richiesta dei papi; lo Stato rinunciava al controllo sulle leggi ecclesiastiche e sugli atti delle autorità ecclesiastiche ed all’assenso governativo per i concili.
[2] I Patti Lateranensi constano di tre distinti documenti: il primo riconosce l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede e fondava lo Stato della Città del Vaticano; la Convenzione Finanziaria che prevedeva un risarcimento di 750 milioni di lire a beneficio della Chiesa; e il Concordato che definiva le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa e il Governo (prima d’allora, cioè dalla nascita del Regno d’Italia, sintetizzate nel motto: «libera Chiesa in libero Stato»). La “Convenzione Finanziaria” regolava le questioni sorte dopo le spoliazioni degli enti ecclesiastici a causa delle leggi eversive. È stata inoltre prevista l’esenzione, al nuovo Stato denominato «Città del Vaticano», dalle tasse e dai dazi sulle merci importate e il risarcimento di “1 miliardo e 750 milioni di lire e di ulteriori titoli di Stato consolidati al 5 per cento al portatore, per un valore nominale di un miliardo di lire” per i danni finanziari subiti dallo Stato pontificio in seguito alla fine del potere temporale. Il governo italiano acconsente inoltre di rendere le sue leggi sul matrimonio e il divorzio conformi a quelle della Chiesa cattolica di Roma e di rendere il clero esente dal servizio militare.
[3] L’art. 7: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.”
L’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
L’art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.”
[4] Quando, dopo la Seconda Guerra, l’Assemblea costituente pose in discussione l’articolo 7, Togliatti e Dossetti si espressero a favore del suo inserimento nella Costituzione, però, mentre l’articolo 8 della Costituzione dichiarava l’eguaglianza delle religioni, l’articolo 7 dichiarava che la religione cattolica era la sola religione dello Stato. L’articolo 7 affermava anche che le modificazione consensuali dei patti non implicavano la revisione della Costituzione, l’inserimento in costituzione di quest’articolo fu votato da democristiani e comunisti, votarono contro socialisti e repubblicani. Per la difesa dell’art. 7, la Dc era disposta a provocare una crisi di governo; anche Dossetti voleva l’inserimento dei Patti nella Costituzione, e affermava che erano maturi anche prima del fascismo e che avevano composto un dissidio secolare. I comunisti cedettero perché desideravano rimanere nel governo con i democristiani, nell’ottica dell’attuazione togliattiana della “democrazia progressiva”. Nel 1944 era esistito anche un patto d’unità sindacale tra cattolici e sinistra e nel Cln comunisti e cattolici avevano cooperato contro il fascismo. Dal 1943 al 1945 a Roma edifici religiosi avevano nascosto dirigenti socialisti e comunisti per sottrarli ai nazisti. Quando nel 1948 il Pci fu espulso dal governo, tornò a vedere nella chiesa la riserva del capitalismo e della reazione.
[5] L’art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. E` prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.”
L’art. 34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”
[6] L’art. 9: “1. La Repubblica italiana, in conformità al principio della libertà della, scuola e dell’insegnamento e nei termini previsti dalla propria Costituzione, garantisce alla Chiesa cattolica il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione. A tali scuole che ottengano la parità è assicurata piena libertà, ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello Stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di Stato.
2. La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.”
L’art. 10: “1. Gli istituti universitari, i seminari, le accademie, i collegi e gli altri istituti per ecclesiastici e religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche, istituiti secondo il diritto canonico, continueranno a dipendere unicamente dall’autorità ecclesiastica.
2. I titoli accademici in teologia e nelle altre discipline ecclesiastiche, determinate d’accordo tra le Parti, conferiti dalle Facoltà approvate dalla Santa Sede, sono riconosciuti dallo Stato. Sono parimenti riconosciuti i diplomi conseguiti nelle Scuole vaticane di paleografia, diplomatica e archivistica e di biblioteconomia.
3. Le nomine dei docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dei dipendenti istituti sono subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica.”
[7] Intitolata “La Scuola è la base di ogni ricchezza”, recita così:
“La scuola italiana si trova in situazione di crisi sia per l’inefficienza nella gestione delle risorse, sia per l’inadeguatezza dei programmi formativi, sia per l’indisponibilità di attrezzature e strumentazioni didattiche. I principi ispiratori della nuova scuola sono:
– fiducia nei giovani come frutto di una fiducia collettiva nella formazione, che è diritto di cittadinanza e garanzia di equità e democrazia;
– autonomia e flessibilità nell’ambito di una garanzia dello Stato sulla qualità dei servizi scolastici;
– pluralità dei soggetti di offerta scolastica, garantendo controllo e standard qualitativi comuni, nell’ambito di un unico sistema di istruzione pubblica, superando anche la contrapposizione tra scuole statali e scuole non statali, per conseguire l’obiettivo di innalzare la qualità.
La proposta di revisione del sistema scolastico e formativo è così caratterizzata:
– Legge quadro per l’istruzione che preveda: estensione dell’obbligo scolastico, riordino dei cicli formativi, riforma della scuola per l’infanzia, riforma del triennio secondario con indirizzi scolastici legati a professionalità definite (formazione professionale legata al lavoro) o propedeutici agli studi universitari.
– Ridefinizione delle competenze di Stato, Regioni e Provincie con una scelta di forte decentramento.
– Istituzione di agenzie indipendenti e rafforzamento degli strumenti legislativi esistenti per lo sviluppo e la valutazione della qualità del sistema formativo.
– Un piano di interventi straordinari basato su tre idee-cardine: educazione permanente, diritto allo studio e al sapere come diritto di cittadinanza, eguaglianza delle opportunità.
Il nuovo progetto di scuola vede le seguenti priorità:
– Aumento delle risorse in percentuale sul PIL, anche come volano per ulteriori interventi del sistema delle imprese e delle famiglie.
– Nel quadro di una riforma della secondaria superiore e della formazione professionale (istituzione di un triennio secondario che prepari agli studi superiori e/o alla formazione di quadri per la produzione), innalzamento a 10 anni della durata dell’obbligo scolastico, rispetto agli attuali 8 anni, con diritto formativo fino a 18 anni.
– Attuazione dell’autonomia scolastica, autonomia che si esprime su tre piani: didattica, di bilancio (naturalmente con l’obbligo del pareggio), gestione del personale.
– Provvedimenti urgenti per la formazione degli insegnanti dei vari ordini e gradi di scuola (come previsto dalla Legge 341).
– Rinnovamento della didattica, in particolare orientato anche a un utilizzo corretto e efficace delle nuove tecnologie informatiche, telematiche e multimediali.
– Provvedimenti per l’edilizia scolastica soprattutto nel Mezzogiorno, anche con modalità innovative (ad esempio, coinvolgendo il mondo della ricerca e dell’industria).
– Correzione e miglioramento della riforma della scuola elementare (Legge 148/90). In particolare, un impegno a realizzare l’unitarietà dell’insegnamento.”