Il 23 giugno 2016, data del referendum che ha sancito la “brexit”, è una data che probabilmente nei decenni a venire ricorderemo. Una data, però, che non è altro che il culmine di un processo già iniziato molto prima, probabilmente già nel 2008 con l’inizio di questa grande depressione del ventunesimo secolo, che pare viaggiare verso la disgregazione di quello che è sembrato essere negli anni 90 e nei primi 2000 un processo irreversibile, ovvero quello di una sempre maggiore integrazione economica, commerciale e giuridica dei paesi dell’Europa, sotto forma della famigerata “Unione Europea” nata nel 1992 a Maastricht con il ricordo vivissimo negli occhi delle macerie del muro di Berlino. Unione Europea che è stata (o comunque voleva essere) un po’ il simbolo di quella “fine della Storia” raccontata da Fukuyama: un’istituzione giuridica che elimina l’eccesso novecentesco costituito dalla politica e dalla democrazia, dalle scelte di campo, affidando il processo di integrazione non al (coordinamento?) delle sovranità popolari, ma al carattere costituzionale delle scelte “tecniche” di un pool di esperti che, come oracoli post-moderni, diventavano depositari delle scelte migliori da compiere al posto degli stati europei. E’ evidente chiaramente, vent’anni dopo, il carattere utopistico di quel sogno del capitale: l’eliminazione della politica, della intrinseca differenza di interessi tra classi sociali (pur se prive, perlomeno dal lato dei lavoratori, del necessario riconoscimento reciproco), di quell’eccesso irriducibile che la democrazia e la partecipazione tentano di rappresentare, non ha fatto altro che riversarsi e manifestarsi, da un lato, nello scontro tra interessi economici territoriali, nel quale una forte Germania è riuscita ad imporre il proprio dominio sia politico-economico che giuridico (addirittura con una corte costituzionale tedesca unica deputata a controllare la costituzionalità – con la legge suprema tedesca naturalmente – delle norme europee), e dall’altro con il rifiorire di movimenti reazionari che costruiscono i popoli attorno a frontiere di esclusione se non anche di barbarie.
Un eccesso, delle contraddizioni, che si ripresentano in queste forme, e che non potrebbero non presentarsi in un’istituzione come quella dell’Unione che fa dell’assenza della politica, dell’assenza di democrazia e della sovranità popolare, gli architravi della propria architettura costituzionale. Si badi: un carattere che non dipende dalla creazione di una struttura giuridica di tipo internazionale (su cui astrattamente non si può che essere d’accordo), ma esattamente sull’istituzione Unione Europea, che non prevede meccanismi di proprio cambiamento o riforma che permettano di abbandonare quella che è la propria missione istituzionale: la creazione del mercato unico, di cui la democrazia e gli interessi dei popoli costituiscono di fatto inutili orpelli. Un’istituzione, un sogno utopico del capitale che non poteva reggere se non negli anni di inebriamento post-sovietico, e che ha visto accelerare il suo decadimento negli anni della crisi e dell’austerità che hanno eliminato ogni residuo patto sociale nato dal novecento.
In questo processo e in questo quadro complessivo, la Brexit (che peraltro è seconda rispetto al risultato del referendum greco del 2015) non può essere vista come un atto costitutivo di una nuova era, di nuove scelte politiche, ma come un fatto che semplicemente ratifica un processo già in corso, di riemersione della politica, della necessità della sovranità sulle proprie politiche, in qualche modo potremmo dire di scelta di autodeterminazione.
In questo processo, già in atto, il fronte progressista ha però, per ora, scelto di non stare, di fronte ad un eccesso di richieste politiche che si preferisce non affrontare.
E’ giunta invece l’ora di riaprire i giochi. Non basta più appellarsi eticamente ad un comune sentire europeo e ad una generica fratellanza dei popoli, se non si risponde politicamente alla richiesta di cambiamento e anche di sovvertimento dei rapporti sociali e delle condizioni economiche che caratterizzano i nostri sistemi economici. Lasciare che rispondano a tali domande democratiche i movimenti reazionari, che le indirizzino e le compattino in una frontiera che preveda lo scontro di civiltà è lastricare la strada verso l’Inferno per la nostra Italia e per tutta l’Europa.
E, invece, senza paura, rispondiamo. La tradizione del movimento operaio è una storia di conquiste di spazi, di democrazia, di sovranità popolare, di uguaglianza. I presunti eredi devono smettere di aver paura, di soffrire le proprie genti. Non è certo facile, in un momento in cui la propria base sociale soffre di una crisi di identità senza precedenti, e il riconoscimento di classe è tutto da ricostruire, ma il tema non può essere eluso o, peggio, appiattito sulle motivazioni delle classi dirigenti o dei movimenti reazionari. Una proposta è quella di individuare quale la domanda attorno a cui ricostruire una (seppur precaria) identità di popolo, quale la leva per riaggregare, per ricostruire solidarietà, attraverso cui lavorare anche per rimettere nella discussione politica un riconoscimento di classe. E’ stato fatto a Napoli sui temi del riconoscimento cittadino, è stato fatto sul piano nazionale in Spagna sui temi del riconoscimento della “patria dalle tante patrie”. Può essere fatto in Italia, magari rilanciando sul tema della sovranità, della democrazia, dell’autodeterminazione politica, per arrivare a quella economica, partendo da un collante e da un riconoscimento che, in assenza (purtroppo) della presenza costante delle grandi ideologie del novecento e della loro capacità di essere collante internazionale, è il primo gradino da cui ripartire per ricostruire un’organizzazione di classe in grado di lavorare sul piano nazionale e di coordinamento internazionale.
Può essere fatto mettendo in discussione l’Unione Europea, non per eliminare il concetto di istituzione sovranazionale, ma per eliminare quella che rappresenta il sogno utopico di cancellazione delle classi popolari; un campo inclinato dove siamo sempre noi quelli che giocano in salita. L’antitesi che va verso il superamento è già sotto i nostri occhi. Sta a noi decidere (e discutere) di come proporre una sintesi che preveda la presenza internazionale di tipo popolare e progressista, o se esserne esclusi, al di fuori della storia.
CLAUDIA CANDELORO-Portavoce nazionale giovani comunisti/e