Per chi, come me, è nato negli anni 90, è difficile non avere custodito il dolce ricordo di Nemo, il pesciolino della Pixar, e del viaggio nell’oceano del padre Marlin per ritrovarlo.
Oggi, 13 anni più tardi, è stato quindi impossibile resistere dall’andare a vedere il sequel “Alla ricerca di Dory”, che ha già sbancato il botteghino incassando all’incirca un miliardo di dollari (!!) in tutto il mondo, 5 milioni e mezzo di euro solo lo scorso fine settimana in Italia.
La protagonista del cartone è Dory, una pesciolina che soffre di perdita di memoria a breve termine, e che, nonostante questo suo handicap, parte alla ricerca dei propri genitori perduti, avendo naturalmente dovuto sviluppare altri tipi di abilità per compensare la sua incapacità di ricordare.
Un film piacevole, da molti commentatori considerato come una lezione di integrazione nei confronti della disabilità (v. famiglia cristiana), di valorizzazione di abilità diverse da quelle considerate normale, addirittura un inno alle famiglie arcobaleno.
Quanto già detto è sicuramente vero, ma forse l’innocente cartone animato “Alla ricerca di Dory”, che tanto ci ricorda i tempi dell’infanzia, squarcia un velo di maya ben più profondo e potrebbe rappresentare un qualcosa di più rispetto alla semplice scoperta delle capacità nascoste di chi non può essere considerato “normale”.
La sfida di Dory è quella di ricordare: ricordare chi sono i suoi genitori, ricordare la strada che ha appena fatto, ricordare chi ha appena visto e cosa gli ha appena detto. Questo tipo di problema è, peraltro, un modello di plot utilizzato in diverse occasioni dal cinema commerciale americano (v. il film 50 volte il primo bacio) o dalle serie tv, spesso in chiave comica e di contorno al personaggio principale “normale” che si deve ingegnare, ogni giorno, a trovare modi che permettano allo “smemorato” di ricordare tutto quello che è successo nei giorni precedenti, in una estenuante coazione a ripetere, ogni giorno sempre da capo.
La particolarità di Dory è però di portare tale sfida al centro della scena: l’assenza di memoria diventa l’ambientazione e il motivo stesso del film. Per la prima volta l’incapacità di ricordare, di elaborare un pensiero lungo è una caratteristica della protagonista che deve essere compensata con altri tipi di abilità, e non semplicemente un elemento, magari comico, di contorno. Ma la mancanza di memoria a breve termine, l’incapacità di ricordare e di riuscire a possedere un pensiero lungo, l’immersione in un flusso di cronaca permanente, non è forse una delle caratteristiche più evidenti della nostra epoca di mediatizzazione permanente?
La grandiosità, forse non voluta, di un cartone animato è che nella sua semplicità ci “sbatte” davanti agli occhi la “disabilità” che non vorremmo vedere. Quella che viene mostrata, infatti, è una “disabilità” che non appartiene a dei singoli individui, ma è la caratteristica comune di una società che non riesce più a distinguere un passato o un futuro, ma vive solo un eterno presente da cui tutti i punti di riferimento tipici delle società umane delle epoche passate sono spazzati via.
E’ questo un tema tanto banale, da essere spesso presente nella cultura pop occidentale (espressione fantastica della capacità di sussunzione e inglobamento del neoliberismo), quanto assolutamente eluso dalle analisi e dalle organizzazioni politiche.
E invece il velo di maya va squarciato anche in questo caso, per abbandonare ogni forma di determinismo storico che, tra le altre cose, ha reso l’analisi politica progressista e comunista incapace di affrontare, e nei fatti di incidere, sui processi storici del ventunesimo secolo. La velocità nella diffusione delle notizie, la viralità che assumono determinati fenomeni e la pari rapidità con cui vengono dimenticati e subito sostituiti, l’eterna connessione con il resto del mondo, sono elementi che rendono alquanto ardua la concretizzazione di qualsiasi pensiero che, con un progetto di lungo termine, si ponga il tema del progresso e del superamento dello status quo, che di fatto diventa la base permanente (e indiscutibile) su cui scorre la, sempre diversa, cronaca.
La presenza quotidiana e ossessiva di nuove notizie, di nuove emergenze, di nuove priorità rendono impossibile la pianificazione: ogni giorno è lo stesso giorno. Ogni giorno è lo stesso punto di partenza, di nuovo, da capo. Non possiamo non fare i conti con questo elemento: oggi, qualsiasi progetto politico si basi sull’accumulazione delle forze nell’attesa del momento giusto, dell’evento rivoluzionario, è destinato alla residualità. L’evento rivoluzionario non si può attendere, l’organizzazione politica non si può costruire nell’attesa del “momento giusto”, la storia non può essere intesa come linea retta, quanto piuttosto come una bolla su cui poter praticare delle rotture, contingenti ma in questo momento assolutamente necessarie. Rotture che facilmente si ricoagulano, che facilmente sono di nuovo sussunte dall’ideologia dominante, ma che con altrettanta facilità, possedendo la stessa flessibilità, possono e debbono essere praticate.
E dunque, ripartiamo. Ripartiamo dall’analizzare la realtà della nostra società, il modello di mediatizzazione permanente, il cui nucleo centrale è proprio la funzione dei social network come elemento di autoestrazione di plusvalore a titolo gratuito, e anzi incentivata da un investimento libidico e emotivo. Ne siamo immersi fino al collo, e proprio per questo, dobbiamo essere in grado di sfruttarne le contraddizioni per praticare delle continue rotture, per rimodulare le frontiere e il nucleo di riconoscimento e identificazione che ci permettano di identificare i nostri – gli sfruttati – contro i loro.
Perché l’eterno presente in cui siamo bloccati ci impone di sviluppare nuove competenze e abilità che possano compensare, come fa Dory, la perdita della memoria, della possibilità di una progettualità a lungo termine. Nuove abilità con i piedi ben piantati nel tempo presente, e con la flessibilità che ci permette di adattarci, di rinnovarci, di evitare la sussunzione ma di superare l’attuale emarginazione. Utilizzare e costruire i media, vecchi e nuovi, ricostruire il linguaggio, identificare un nemico comprensibile, ripensare le forme organizzative e la partecipazione, puntare sulle persone. Con la consapevolezza che ogni giorno non si mette un mattone per quello dopo, ma, con un’analisi delle contraddizioni del capitalismo presente ben fissa in testa, ci si guarda attorno e si coglie l’attimo. E il giorno dopo, si riparte (quasi) da capo.
CLAUDIA CANDELORO – Portavoce nazionale Giovani Comunisti/e