C’è ancora da festeggiare se di lavoro ce n’è sempre meno, in particolare per la nostra generazione? C’è ancora da festeggiare davanti al ritorno del cottimo, ai falsi part-time, alle esternalizzazioni, ai welfare aziendali, ai call center che delocalizzano, davanti ad un governo incapace di rispettare i patti coi rider? C’è ancora da festeggiare se i dati della disoccupazione a livello europeo pubblicati qualche giorno fa ci raccontano delle condizioni drammatiche del Sud Italia, con il tasso di disoccupazione giovanile di Campania, Sicilia e Calabria ben oltre il 50%? Ha senso festeggiare in un Paese dove si continua a morire sul proprio posto di lavoro?
Certo che c’è, anche se domani qualcuno sarà costretto a lavorare. Già, perché in questi anni di continui tagli alla spesa e ai diritti sociali, ci hanno raccontato anche la favola della liberalizzazione degli orari di lavoro per aumentare i consumi. Sono invece peggiorate solo le condizioni di lavoro, degli orari, della vita delle lavoratrici e dei lavoratori.
La festa delle lavoratrici e dei lavoratori è anche la festa di quelli che corrono da una parte all’altra della città, in bici o in motorino, col sole o con la pioggia, perché è la sola opportunità per guadagnare qualcosa. Per loro non ci sono differenze tra festivi, weekend, orari notturni, perché sono ritenuti lavoratori “autonomi”, sebbene non siano loro a concordare la paga né a decidere le modalità con cui devono svolgere l’attività.
Parliamo di giovani uomini e giovani donne, la cui organizzazione è disciplinata da una piattaforma digitale, che trasformano un semplice e veloce ordine su internet in una consegna a domicilio. I riders sono in questo momento l’esempio più immediato per comprendere le contraddizioni di questa società. Sono il frutto di un naturale sviluppo da far risalire alle politiche neoliberiste di austerity, le quali hanno impresso nella società una trasformazione delle condizioni materiali e soggettive che spingono sempre più individui verso “l’economia dei lavoretti”, costretti a restare in condizione di povertà e insicurezza e subendo costanti sollecitazioni per intensificare la loro prestazioni e i rischi connessi. Sono però anche quelli che in questi ultimi anni ci hanno dimostrato che è possibile provare ad aprire delle finestre attraverso cui parlare con lavoratrici e lavoratori esclusi dalle tutele salariali, attraverso azioni mutualistiche o ripensando le forme di sciopero per aggirare la mancanza di tutele. Pochi giorni fa i riders del Collettivo Deliverance Milano hanno usato l’iniziativa della black-list dei vip che non danno le mance per rivendicare i diritti sindacali e sociali dei lavoratori digitali; Il 27 aprile scorso a Torino i riders di Glovo hanno scioperato chiedendo un contratto diverso, il diritto alla disoccupazione, previdenza, ferie e tutte le altre normali tutele; 28 aprile a Bologna è stato il turno dei ciclofattorini di Deliveroo ed una nuova mobilitazione è prevista proprio in occasione del primo maggio: sfileranno in bicicletta e chiamano a una nuova astensione dal lavoro nelle loro città.
C’è ancora da festeggiare perché il 1° Maggio è giorno di lotta, è il giorno per far uscire la contradizione del quotidiano che uomini e donne vivono, per rivendicare un salario dignitoso, più tutele per chi non ne ha, ma anche per rivendicare il reddito di base. Non le proposte del PD o il reddito di cittadinanza del M5S, dispositivi finalizzati solamente all’asservimento degli individui alle logiche di mercato che subordinano l’erogazione del reddito alla disponibilità a lavorare a qualunque condizione, ma un vero reddito di base come strumento di redistribuzione e strumento di conflitto per liberare uomini e donne dal ricatto del bisogno, dalla necessità di lavorare per sopravvivere, dall’economia dei lavoretti.
Stefano Vento – Responsabile Lavoro, non lavoro e movimenti Giovani Comunisti/e