C’è chi andrà al Salone del Libro di Torino per non perdersi le ultime novità in fatto di manualistica, chi perché affascinato dalla narrativa fantasy. E poi ci sarà chi pensa che esso sia la vetrina per i propri deliri neofascisti.
Se la cosa stride, è evidentemente che è perché di fronte al vasto pubblico presente, essi rappresentano senz’altro una minoranza di fanatici, che però lavora incessantemente per smettere di essere tale.
Si può notare come l’industria culturale moderna, abbia sempre provveduto a costruirsi anche sottoprodotti di nicchia, quale variante di mercato per menti non allineate.
Il campanello di allarme dovrebbe suonare quando, come avviene da diversi anni, il revisionismo storico neofascista viene spacciato come “anticonformista”, “scomodo” e “politicamente scorretto”. In barba a tutta quella cultura indipendente che invece anticonformista lo è davvero.
È in questo quadro che si inserisce la legittimazione che fenomeni sepolti nelle fogne dalla storia, vengono invece riabilitare nella società del surrealismo concretizzato.
Non stupisce, in fin dei conti, che nelle logiche di mercato, tale prodotto tossico si trovi sugli scaffali del supermercato della cultura.
Questo ci deve indurre ad una riflessione profonda su quanto il campo della cultura sia oggi falsato, non solo nelle sue accezioni di massa.
Quando Gramsci sottolineava il ruolo degli intellettuali nel costruire l’egemonia culturale alludeva alla necessità di elevare a strategia della lotta di classe condotta dal partito comunista il coordinamento di tutti i livelli, da quello economico e politico a quello accademico.
Ed è alla fine, di coordinamento delle pratiche antifasciste che questo paese ha drammaticamente bisogno.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito a molti distinguo intorno al grave episodio del Festival del Libro di Torino: da chi ha ritenuto che la presenza dei fascisti rendesse oltraggiato parteciparvi, a chi ha sostenuto che fosse invece importante non lasciare un appuntamento così grande quale vetrina esclusiva di chi ancora oggi rimpiange repubblichini e collaboratori del nazismo.
Si tratta di una importante risposta sul piano etico che non è però sufficiente da sola ad arginare l’onda nera che monta nel paese.
La risposta deve essere politica, a quello che è a tutti gli effetti un attacco politico che viene portato avanti verso il mondo della cultura, ultimo in ordine cronologico a cedere alla normalizzazione del revisionismo storico funzionale al mercato neoliberista, ma che avrebbe prima o poi mostrato i primi segni di cedimento nel momento in cui il fascismo è stato ampiamente riabilitato nelle periferie, nei luoghi di lavoro, e anche ai massimi vertici dello stato.
Non fu forse dal mondo accademico e culturale che nel ‘38 arrivò il beneplacito alle leggi razziali, dopo che la mentalità razzista era stata ampiamente metabolizzato nella società?
Vi furono anche in quel caso illustri opposizioni, che pagarono duramente la propria scelta di rifiuto della barbarie, ma fu solo grazie alla strategia politica dei partiti antifascisti, in primis il PCI, che i rapporti di forza iniziarono a cambiare.
Ciò di cui oggi abbiamo bisogno, è che ogni tipo di pratica di resistenza al neofascismo venga reciprocamente legittimata al fine che esso torni ad essere senso comune diffuso; l’esatto contrario delle gare a chi è più puro e più antifascista.
Ben venga la richiesta di espulsione dei fascisti dall’evento in questione avanzata da Regione Piemonte e Comune di Torino; ma sorge il legittimo dubbio che essa sia esclusivamente una mossa strumentale, fatta dagli stessi che solo una settimana fa invocavano le manganellate per il movimento NO TAV.
Di una sola cosa possiamo essere certi: che i tempi richiedono a tutti di decidere da che parte stare.
O con il campo del “fascismo culturale”, con le sue due facce liberista e “anticonformista”;, o con il campo democratico e antifascista; per una cultura libera e demercificata, dove sia restituito senso alla dialettica pluralista.
Noi ovviamente sappiamo da che parte stare.