A scuola, spesso, ci siamo ritrovati a studiare degli autori semplicemente perché sono i “padri” della letteratura italiana. È il caso di Dante, Boccaccio o Manzoni, che, troppo spesso, vengono letti in maniera completamente avulsa dal contesto sociale in cui essi hanno scritto. Letteratura e storia sono inscindibili. A volte, ad esempio, si studia la Divina Commedia inconsapevoli del ruolo che ha ricoperto nella formazione della lingua e, quindi, di un’identità italiana.
Ma il torto peggiore, a mio parere, lo si commette a Manzoni e a Boccaccio quando si assegna il compitino di leggere i passi in cui è descritta o anche soltanto citata la peste bubbonica. Non si comprende, quindi, il motivo per cui i due colossi della letteratura italiana abbiano inserito la peste nelle proprie opere oppure abbiano scelto di inquadrare le vicende raccontate in un determinato periodo storico piuttosto che in un altro.
Sfugge, perciò, che il motivo per cui Manzoni e Boccaccio scelgono di parlare di peste non sia un semplice espediente letterario, ma una scelta a lungo meditata. Il morbo pestifero, infatti, rappresentava la piaga peggiore tanto dell’età del Boccaccio quanto del XVII secolo, in cui Manzoni decide di ambientare I Promessi Sposi. La peste è l’unica forza in grado di spezzare i legami sociali che, a lungo e con fatica, su base religiosa, politica o di altra natura, sono stati costruiti.
Se, da un lato, però, Manzoni è costretto a retrodatare di circa due secoli la sua storia, in modo da criticare una dominazione straniera senza ripercussioni di sorta da parte dell’Impero austro-ungarico, Boccaccio, invece, osa parlare della contemporaneità. Una decisione davvero rischiosa, anche quando ad essere criticate non sono le grandi monarchie ma i costumi (basti pensare alle ambientazioni italiane delle tragedie di Shakespeare, dall’Otello al Romeo e Giulietta).
Boccaccio scrive dell’unico male che sembra porre fine alla propria civiltà: la mortifera pestilenza. L’unica che era riuscita a spezzare i rapporti sociali persino all’interno dell’unità minima su cui ogni civiltà, dall’antichità ad oggi, si è fondata: la famiglia.
Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.
(Boccaccio, Decameron, I, Introduzione)
Lo stesso Boccaccio, infatti, era stato gravemente colpito dalla peste, che gli aveva portato via padre, matrigna, uno zio e anche gli amici più cari, lasciandolo solo col fratello Iacopo, molto più piccolo di lui.
Scegliendo di raccontare un episodio accaduto durante la peste alcuni anni dopo che l’epidemia ha colpito l’Occidente – l’opera è conclusa, infatti, solo nel 1353 – Boccaccio riesce, d’un sol colpo, a superare ogni convinzione morale della sua epoca, realizzando l’impossibile, come la convivenza di un gruppo di ragazzi e ragazze, tra i 18 e i 28 anni, che, in barba ad ogni pudore, si ritirano in un casolare a qualche chilometro da Firenze, per passare la “quarantena volontaria” insieme, raccontandosi, ogni sera, una novella a tema, senza paura di cadere nell’impudicizia, nella blasfemia e nella fantasia più spinta.
Una lettura scarsamente critica e priva di ogni contestualizzazione storica, però, lascerebbe credere che si tratti di una semplice fuga, di un’evasione da una realtà in cui le strade sono percorse ormai soltanto da animali, untori e monatti e dalla peste che non guarda in faccia a nessuno. Non si può dire, infatti, che Boccaccio si sia limitato a descrivere le caratteristiche di un’epidemia presente in Europa già dal VI secolo, come dimostra l’analisi che ne fa Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum.
Quella che Boccaccio realizza, invece, è una vera e propria società parallela, quasi un’utopia realizzata, che il figlio di un mercante toscano, cresciuto alla corte napoletana degli Angioini, spera ardentemente si realizzi all’indomani dal male che non osa mai chiamare per nome. Si tratta della piena emancipazione della classe borghese da quella aristocratica, che viene persino scimmiottata nell’elezione di un re e di una regina, ad ogni giornata, a capo della brigata. Tant’è vero che Boccaccio non esita a scrivere in volgare, in modo da consentire la lettura della sua opera ad un pubblico quanto più ampio possibile.
Vengono così a convivere tre piani ben distinti tra loro: da un lato, la società degenerata della peste, dove non esistono più legami ed è persa qualunque speranza; da un altro, la società passata, anche in parte vicina, raccontata in ognuna delle novelle, a rappresentare vizi e virtù delle varie epoche della storia; da un altro ancora, il più importante, la società futura in fieri, che tenta di evitare il contagio e, analizzando attentamente in appena dieci giornate, la storia passata, soprattutto della propria città, prova ad immaginare una nuova civiltà, in cui non siano più i valori aristocratici a scrivere la storia, ma quelli di una classe ancora in nuce, che, a posteriori, si chiamerà “borghese”.
Boccaccio, noto estimatore di Dante, abbandona la visione fatalistica e provvidenziale del suo maestro e della Commedia che proprio lui aveva definito “divina”, in favore di una prospettiva più terrena e speranzosa, basata non più sulla terra che Dante trapassa dirigendosi verso il cielo, bensì sul mare, avventuroso e prospero. Si passa, perciò, da una prospettiva verticale dei rapporti sociali ad una più orizzontale, da una visione nettamente determinata dai valori cristiani ad una più laica e, per certi, versi, persino sacrilega e blasfema.
Le novelle scelte dal Boccaccio per descrivere la società passata contengono anche numerosi esempi di virtù, sulle quali la nuova società trecentesca dovrebbe fondarsi: è il caso delle donne che si ribellano all’autorità patriarcale del padre (V, 4) o dei tre fratelli (IV, 5), in nome di un amore scelto da sé e non più dalla famiglia. È il caso delle tante suore che si abbandonano ad atti licenziosi (IX, 2; III, 1) o delle novelle che contengono incesti, più o meno simulati e che ruotano attorno all’inganno, fonte di guadagno alla pari del commercio (II, 5). Come nel Carnevale, a cui si rifà l’idea di trovarsi in gruppo a cantare e raccontare storia dell’onesta brigata, nella Firenze del Trecento e in quella delle novelle, tutto è lecito.
Non è nemmeno un caso che proprio queste siano le novelle che Pier Paolo Pasolini, nel 1971, sceglie di trasportare nella sua versione cinematografica dell’opera boccaccesca, volta a criticare una società che da più di seicento anni non ridiscute i propri valori, strenuamente difesi dalla Chiesa prima e dal regime della Democrazia Cristiana poi e che solo negli ultimi anni sta venendo in contatto con i primi movimenti per l’emancipazione.
Ecco che il Decameron pasoliniano torna utile per comprendere come questi momenti, in cui ci viene chiesto di “perdere tempo”, debbano servire, quasi componendo un Decamerone virtuale, non solo a riscoprire un altro livello della narrazione di Boccaccio o della pellicola di Pasolini, ma anche a cominciare a ripensare un mondo diverso, basato su nuovi valori. Si potrebbe partire, ad esempio, smettendo di improvvisarsi medici ed infermieri di lunga data, dato che già Boccaccio rimproverava questo atteggiamento dei suoi contemporanei.
Oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo.
(Boccaccio, Decameron, I, Introduzione)
Si potrebbe pensare ad un mondo nuovo, in cui per dedicarsi di più a sé stessi non bisogna aspettare un’epidemia, ma si cominci a ritagliare tempi che ora sono sottratti, tanto per dirne una, da giornate di lavoro decisamente troppo lunghe ed impegnative, che alienano al punto da far credere che il lavoro sia l’unico motivo per cui si sta al mondo e che il dedicarsi alla lettura, per esempio, di alcune pagine di Boccaccio sia solo un’attività inutile e senza profitto immediato, sebbene ci aiuterebbe nell’affrontare molto meglio situazioni emergenziali come quella che stiamo vivendo.
Francesco Loconte (coordinamento nazionale GC)