La pandemia mondiale ha colpito tutti, ma non tutti con la stessa gravità. La disuguaglianza di genere oggi si sente in tutta la sua irruenza, e si manifesta in molteplici ambiti, da quello lavorativo a quello della qualità della vita.
Le battaglie legate alle questioni di genere sono uno degli elementi che caratterizzano il partito di Rifondazione Comunista. Come organizzazione giovanile comunista, noi siamo per un socialismo del XXI secolo in cui questioni come quelle di genere, ambientali, razziali sono fondamentali, e cerchiamo di andare avanti con l’elaborazione e la discussione di questi temi. Nell’incontro online in preparazione dell’8 Marzo, abbiamo dunque deciso di indagare sia l’elemento oggettivo della posizione che ha oggi la donna nel contesto pandemico, sia l’elemento soggettivo della nostra possibile risposta, delle soluzioni che vogliamo proporre e realizzare. Per questo, oltre alla rappresentanza del partito Rifondazione comunista e in particolare dei Giovani Comunisti (formata da Stella Isacchini, responsabile delle questioni di genere nel Prc e Michele Ramadori, responsabile nazionale dei diritti di genere e lgbtqi nei Giovani Comunisti/e), al dibattito abbiamo chiamato a partecipare anche due personalità che sulla questione di genere in ambito lavorativo hanno dei punti di osservazione privilegiata, ovvero Tiziana Bartolini, direttrice di NOIDONNE e Francesca Danese, portavoce del forum del terzo settore per il Lazio.
Il 2020 è stato un anno molto difficile per tutto ciò che abbiamo visto e vissuto, ma soprattutto nell’ambito del lavoro, per le donne si è verificata una crisi nella crisi. Basta guardare alla drammaticità dei dati per rendersene conto: nel 2020, su 444mila lavoratori in meno in Italia, 312mila sono donne e, nel solo mese di dicembre 2020 rispetto a dicembre 2019, nell’ambito dei 101mila occupati in meno, 99mila sono donne. Tutto questo accade in un Paese in cui le donne in ambito lavorativo non hanno ancora conquistato posizioni minimamente decenti rispetto all’Europa: noi siamo fermi ancora a meno del 50% delle donne occupate o in cerca di occupazione; e a ciò va aggiunta la disoccupazione giovanile attestatasi intorno al 30%, un dato nel dato che è estremamente preoccupante. Ci sono diversi movimenti di donne che, attraverso la rete, a partire dallo shock del lockdown, hanno reagito come possibile, con i mezzi di comunicazione a loro disposizione. Il fatto allarmante è che oggi le donne come movimento faticano molto ad elaborare delle risposte concrete, condivise e visibili, probabilmente perché il problema che sta alla base di tutti questi dati angoscianti è la cultura. D’altronde, al lavoro e all’indipendenza economica si correlano strettamente elementi quali l’autodeterminazione, la possibilità di non soggiacere alle violenze domestiche, la possibilità quindi di essere donne libere (non dimentichiamo che oggi vediamo circa due femminicidi a settimana). Durante questa pandemia abbiamo visto donne fuggire dalla violenza domestica in modo drammatico, addirittura alcune in ciabatte, in pigiama, perché forzate dalla disperazione. E allora possiamo già tracciare cosa ha comportato la pandemia nella vita delle donne: si è abbattuta in maniera feroce, per usare un eufemismo.
Ma cosa c’è alla base di tutto ciò? Cosa porta la società ad escludere ed ignorare le donne, e le donne stesse a non riuscire collettivamente ad elaborare una risposta? Si tratta di un problema culturale, sociale. Sarebbe facile addossare alle donne stesse la colpa di una società che, disegnata come è a forma di uomo, si nasconde dietro belle parole e belle prescrizioni astratte di uguaglianza che però, nel concreto, non si rivelano altro che parole, appunto. Il problema vero è ancora più in profondità. La società come oggi la intendiamo sembra presentarsi come un’entità ormai formata e formalizzata completamente, insuscettibile a cambiamenti ed evoluzioni. Noi giovani comunisti, però, non possiamo accettare questo tipo di logica: noi crediamo e vogliamo la costruzione di una diversa società, a partire dal rifiuto degli schemi e dei modelli patriarcali che sono così profondamente introiettate in tutti e in tutte. Guardiamo l’evoluzione delle donne e dei loro movimenti: nel tempo, dal suffragismo, alla resistenza e poi ai movimenti femministi degli anni ‘70, hanno fatto delle scelte di rottura immense ed impensabili per la loro epoca. Oggi, però, le donne globalmente considerate hanno difficoltà a mettere insieme i pezzi di un puzzle sociale che è così confuso, aggravato anche dalla situazione pandemica. Società e cultura, d’altronde, sono termini inscindibili, e quindi ci rattrista, ma non ci stupisce il fatto che in una società così avversa alle donne e alle loro necessità (oggi ancora di più) sia radicata una cultura patriarcale.
Per agire sulla cultura, secondo noi giovani comunisti, i binari devono essere due: quello del linguaggio, e quello della realtà dei fatti. Il linguaggio è un elemento fondamentale della cultura, e dispiega i suoi effetti anche nell’ambito lavorativo. Ad oggi, sembra che la dignità della lavoratrice derivi da un linguaggio declinato al maschile; così, se in precedenza molte professioni erano precluse alle donne, oggi ad essere preclusa è proprio la dignità della lavoratrice, che si vede riconosciuta come tale solo se identificata ed identificabile come un uomo. Se neanche tutte le donne sentono l’esigenza di trasformare il linguaggio è perché siamo immersi in una cultura che è quella del patriarcato, del maschilismo (termini stratificati che si costruiscono l’uno sull’altro). Analizzando poi la realtà dei fatti, è chiaro che oggi c’è un odio, un disprezzo degli uomini nei confronti delle donne che è allargato e non ci si domanda perché ci sia, ma si nasconde in una semplificazione che risponde alla seguente logica: l’uomo che maltratta, umilia, violenta o uccide una donna è un singolo, un caso a sé stante, di certo non il rappresentante del genere maschile, che invece è completamente immune da questi comportamenti perché al suo interno ci sono anche individui rispettosi delle donne. Fino ad oggi, la logica è stata quella di chiedere ed aspettarsi dalla vittima di proporre soluzioni per il problema causato dall’aggressore. Ma se gli uomini hanno dentro di loro questo odio verso le donne, allora sono loro stessi che devono analizzarlo. E’ un problema degli uomini quello della violenza domestica, dell’esclusione della politica e dall’ambito lavorativo. D’altronde, gli uomini sono l’unica categoria che non ha fatto fino ad oggi un percorso di analisi di sé, come entità collettiva. Sono gli uomini a dover combattere la cultura che li rende misogini, razzisti, omofobi, senza negare che lo siano. Bisogna chiedersi da dove deriva questo odio, e soprattutto cosa sia in grado di causare, in termini di esclusione delle donne (e non solo) praticamente in ogni ambito della vita sociale, dalla partecipazione politica a quella produttiva. Quando si parla di questi temi, si fa riferimento alla tutela delle “categorie fragili”. Già questo è un elemento che dimostra l’errore di base nel processo, lento e farraginoso, della ricerca di soluzioni concrete. Le donne, ma anche la comunità lgbtqi o gli immigrati, non sono categorie fragili di per sé: lo diventano in considerazione di un certo mercato del lavoro che continua a richiedere specifiche forme. Negli ultimi anni c’è stato un evidente appiattimento dei momenti di discussione intorno al tema dell’introduzione e dell’attestazione sistematica delle donne nel mondo del lavoro, discussione che infatti si è fermata alla formulazione e previsione delle quote rosa. Questa iniziativa, in realtà, può avere risvolti sia positivi sia negativi, e rappresenta una risposta parziale e insufficiente rispetto alla tematica profonda e complessa di cui stiamo trattando. Se si parte dall’analisi del modello che fa sì che queste categorie di soggetti vengano definite e poi siano di fatto fragili per il mercato del lavoro, allora si pone l’accento sulle condizioni del modello produttivo che vanno modificate. In realtà, anche questa analisi appare troppo riduttiva, poiché il nucleo del problema non si coglie solo con una visione economica dello stesso. Per noi, che abbiamo come orizzonte quello del socialismo, questo avrà significato solamente se riuscirà a rivoluzionare la nostra società, creando un mondo in cui la società sappia calibrare le libertà del singolo rispetto a quelle di tutte e tutti, un mondo, insomma, che sia a misura di umano, e non solo di uomo. Il cambiamento che vogliamo, dunque, non è solo produttivo, ma deve apporsi anche al modello delle relazioni sociali, dell’affettività, che può partire se anche gli uomini decideranno di intraprendere un loro ripensamento collettivo, un loro processo di riacquisizione di significati di sé stessi e degli altri. In questo tipo di logica, il terzo settore può giocare un ruolo fondamentale.
Il terzo settore è il mondo che sta tenendo testa alla pandemia. Questo raccoglie non solo il volontariato, la promozione sociale, ma anche il mondo legato alla cultura, al benessere dei territori, alla qualità della vita e poi la cooperazione sociale, le imprese sociali. Il terzo settore ha al suo interno 1 milione 800mila donne, e su 80mila imprese cooperative presenti in Italia, ben 19mila sono gestite da donne (anche se il gender gap c’è ed è considerevole, perché poche di queste donne raggiungono livelli di responsabilità apicali). Come ha risposto il terzo settore alle questioni legate alla pandemia? Innanzitutto, pretendendo che l’art 48 dl “cura Italia” avesse al suo interno la possibilità di modificare i servizi. Pensiamo a tutte quelle donne che si occupano di genitori anziani o bambini piccoli o disabili, quindi di quelle donne che svolgono un lavoro di cura all’interno delle famiglie: molte di loro hanno delle serie preoccupazioni, da aggiungersi a quelle legate alla disoccupazione che già esiste dal 2008, e alla difficoltà di conciliare tempi di vita e tempi di lavoro. A ciò il terzo settore ha risposto in maniera concreta: ha preteso, attraverso una catena di regia fatta con la Regione Lazio, di intervenire immediatamente a sostegno di queste donne e di queste famiglie, riuscendo a far adottare un’ordinanza nel Lazio (poi riproposta in tutta Italia) che permetta di continuare ad essere presente nei territori, a sostenere le persone che vivono in grandissima difficoltà. Si è registrato, con la pandemia, un aumento della violenza domestica, e i telefoni delle associazioni che si occupano di questo tema specifico non si sono mai fermati. Queste battaglie sono fondamentali e per questo noi giovani comunisti sosteniamo il ruolo politico che il terzo settore deve avere, cioè quello di esigere che i diritti delle persone vengano rispettati.
Volendo fare una autoanalisi per poter sviluppare sempre più questi temi, guardiamo allora alle vicende interne al partito, e valutiamo quali sono le nostre priorità. Rifondazione comunista è un partito femminista, però poi fattualmente i tempi della politica sono sempre maschili, e le questioni importanti sono quelle che gli uomini mettono nelle agende politiche, secondo le loro logiche che sono introiettate ed esternalizzate. Il protagonista politico oggi è l’uomo, bianco, adulto, se non anziano, pensionato. Fare politica per le donne è molto complesso, e si rischia sempre la ghettizzazione sulle questioni di genere o su argomenti legati alla cura e alla riproduzione; sulle grandi questioni microeconomiche, macroeconomiche, legate al lavoro o al sindacalismo, abbiamo un parterre di figure maschili. Il superamento del capitalismo garantirebbe condizioni migliori a tutti e a tutte, ma il punto di vista delle relazioni di genere non è preso in seria considerazione in questa logica. Dunque, da dove partire o ripartire dentro Rifondazione? Sicuramente dallo studio: gli studi di genere forniscono delle indicazioni su tante questioni oggi come sempre rilevanti. Questi spunti di riflessione e analisi hanno bisogno di trovare uno sfogo e veder canalizzate le proprie energie in un ragionamento politico di ampio respiro, che sia dentro Rifondazione o che sia all’esterno e di cui Rifondazione si possa fare portavoce. Le priorità, dunque, sono quelle che abbiamo sempre messo in campo: occuparci di lavoro è una di queste; capiamo quali elementi includere. Possiamo trovare un punto di vista che includa anche quelle personalità che sono “fragili” perché messe in un sistema che le rende fragili? Come renderle punto di forza? Un partito comunista femminista deve fare questo ragionamento, deve assumersi queste responsabilità complessivamente, includendo tutti i compagni e tutte le compagne.
Beatrice Ridolfi – Giovani Comunisti/e Roma