Di Paolo Bertolozzi
Sin dall’infausta riforma del Titolo V del nostro testo costituzionale (l.3/2001) abbiamo assistito al progressivo ampliarsi del settore privato a scapito di quello pubblico.
L’esempio più lampante lo troviamo per quanto riguarda la sanità, il settore che più di tutti ha subito il processo di regionalizzazione delle competenze. Ciò ha fatto sorgere un privato, spesso convenzionato con il pubblico, che è divenuto non solo concorrente nel pubblico ma che di fatto lo ha anche sostituito, soprattutto per quanto riguarda tutte quelle prestazioni “di base” o di medicina di prevenzione, lasciando al pubblico i gravami più onerosi e meno redditizi.
La futura, e quasi certa, entrata in vigore del DDL Calderoli, che altro non fa che applicare l’art. 117 e l’art. 116 c. 3 della nostra Costituzione, renderà questo processo di privatizzazioni ancora più ampio e radicato, rendendo i servizi e la frequentazione di spazi pubblici sempre più ad appannaggio di un ristretto novero di persone, ovviamente le più abbienti.
La mancanza di fondi adeguati per mantenere una serie di servizi pubblici ed i luoghi ove si svolgono porterà alla invitabile cessione a terzi e privati non solo della gestione ma anche della titolarità dei luoghi stessi. Pensiamo a biblioteche, archivi, aule studio, musei, luoghi di cultura e tanto altro.
Sembra dunque estremamente difficile contrastare questa deriva, ma un filone di analisi e di lotta potrebbe essere quello di riprendere una categoria che, qualche hanno fa, ha avuto un interessante sviluppo teorico ma che, con alcune eccezioni, non è riuscita a concretizzarsi: i beni comuni.
Nel 2007 la Commissione Rodotà, istituita dall’allora Governo Prodi II, venne incaricata di redigere uno schema di disegno di legge delega che andasse a modificare alcuni articoli del Codice Civile e del Codice Penale.
Fondamentale in questa legge era la definizione di bene comune come tertium genus rispetto ai beni pubblici e privati (più o meno già definiti dal nostro ordinamento).
Si andava a definire il bene comune “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
Si nota quindi come i diritti fondamentali delle persone fossero stati messi in primo piano e come i beni comuni altro non fossero che dei mezzi tramite i quali questi diritti costituzionalmente garantiti venivano soddisfatto. Ciò ci conduce alla parte più “operativa” della definizione ed al loro regime ossia:
“i titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o private. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge”.
Dunque si nota come la titolarità del bene (pubblica o privata) non sia un fatto rilevante al fine della caratterizzazione del bene comune e soprattutto ciò è rilevante per la sua gestione.
Gestione ed utilizzo che scivolano via dal soggetto pubblico e privato e che vengono, o che dovrebbero essere, riassettati sulla collettività che grazie a quel bene soddisfa un interesse ed esperisce un diritto.
Purtroppo gli stravolgimenti politici di quegli anni hanno fatto cadere nel vuoto questa proposta estremamente interessante ma il portato del lavoro della commissione Rodotà non si è fermato qui.
La Cassazione nel 2011 tramite tre sentenze gemelle ammette l’esistenza della categoria dei beni comuni ma ciò rimane un caso isolato nella nostra giurisprudenza.
Un altro portato degno di nota è la legge regionale toscana 42/2020 che all’art. 8 prevede dei patti di collaborazione tra titolare del bene definito comune, collettività e enti locali volti a organizzare gli interessi relativi alle utilità generate dal bene comune stesso.
Un altro filone che si può intraprendere nella “resistenza” alla privatizzazione selvaggia è quello di porre in essere delle proposte riguardanti gli usi civici; un istituto di origine medioevale che però, grazie alla possibilità di partecipazione attiva ed elettiva della popolazione nella gestione del bene, può risultare veramente efficace nel contrasto ai fenomeni di privatizzazione.
I nostri avi medioevali sotto questo punto erano assai più previdenti di noi nel comprendere che una comunità ha dei bisogni che non possono essere messi da parte.
Lo sviluppo del bene comune dunque potrebbe essere anche un modo di riconquista di spazio democratico delle comunità, dove non è solo l’ente pubblico esponenziale a farsi carico della gestione di un bene, ma è la cittadinanza tutta, la collettività, i soggetti che hanno un interesse e che vogliono esplicitare un proprio diritto a prendersene carico e deciderne la gestione.
Un regime peculiarissimo che potrebbe veramente scardinare il sistema attuale di “esternalizzazione” di ogni cosa.
Dunque combattere contro l’autonomia differenziata può passare anche dal ripensare il “nostro” modo di avere, legato ancora ad una concezione liberale lockiana di proprietà come diritto naturale del singolo.
Per evitare di cadere nel baratro delle 20 piccole venti patrie che renderanno l’Italia un paese sempre più classista occorre percorrere vie nuove e quasi inedite.
Ne va del nostro futuro.